Il nome diMolareè noto anche per una manifestazione tradizionale ultra centenaria che ogni
anno richiama migliaia di turisti provenienti da diverse parti d'Italia e
alcuni anche dall'estero. E' la sagra
del polentone. La tradizione narra che in tempi lontani, gli abitanti delle
sperdute frazioni intorno a Molare, si recassero il primo giorno di quaresima
di ogni anno, nella chiesa parrocchiale. Si narra che un anno, mentre i
pellegrini si accingevano a rientrare nelle loro abitazioni, venissero sorpresi
da una forte nevicata che li costrinse a rifugiarsi sotto una tettoia, al
freddo, in attesa di riprendere il cammino.
Mentre la nevicata infuriava, passò nelle vicinanze della
chiesa, la carrozza del conte Gajoli Boidi, il quale volle invitarli nelle
cucine del suo castello, ordinando alla servitù polenta e baccalà per tutti. I
pellegrini, trovandosi poco a loro agio all'interno del castello, chiesero di
poter gustare il dono sotto la tettoia che era stata loro rifugio contro la
neve.
Così fu ed il pranzo continuò in allegria, tra la
curiosità di molti abitanti del concentrico.
In anni successivi qualcuno pensò di rievocare il gesto,
preparando in piazza la grande polenta e distribuendola a tutti i presenti fra canti e balli.
Una festa che con il passare degli anni si è trasformata in una grande
manifestazione folcloristica.
La
città di Alessandria ebbe a soffrire, come tante d'altronde, assedi, guerre e
lutti, ma, pur fra questi, conobbe episodi curiosi come quello della regina
Pedoca.
Dura condottiera germanica, la donna aveva fama di sanguinaria sterminatrice.
Strinse nella morsa delle sue soldatesche la città, che tuttavia opponeva una
forte resistenza.
Se una non cedeva, manco l'altra mollava.
Pedoca, anzi, fece impiantare dei vitigni a ridosso delle mura cittadine,
assicurando che non se ne sarebbe andata fino alla comparsa della nuova uva.
Maturata questa, la situazione di stallo protraeva.
A Pedoca non restava che togliere l'assedio, ma prima di far fagotto, fece
versare il vino di quelle vigne ad arrossare la terra al posto del
sangue degli alessandrini.
Intorno all'assedio posto da Federico I ad Alessandria
negli anni 1174 - 1175, sorsero tra il popolo varie tradizioni, le quali
finirono per comporre una storia dell'assedio ben diversa dalla vera.
I fatti storici fanno riferimento alla quinta discesa in
Italia dell'imperatore Federico I, che, dopo aver sottomesso Susa e Asti, si accampò attorno ad Alessandria, confidando di
entrarne in possesso in poco tempo, giacché era sorta solo sei anni prima.
La città, sorta sugli aneliti di libertà della Lega
Lombarda, aveva molti nemici: Pavia ne temeva l'espansione, il Marchese del
Monferrato voleva tornare in possesso di quei territori e l'imperatore era
deciso a distruggerla per eliminare uno dei simboli della rivolta della Lega
contro l'impero. I fatti decisivi si svolsero durante il periodo di Pasqua: il Barbarossa
temendo di essere chiuso tra l'esercito degli assediati e l'esercito della
Lega, che stava arrivando in soccorso della città, tentò di ottenere il
successo per mezzo di un tradimento. Stipulò una tregua con gli Alessandrini
valevole per i tre giorni santi della Pasqua, ma usò questo tempo per far
scavare un tunnel che sbucava dentro la città. Nella notte del venerdì
santo tentò la sortita, ma le sentinelle riuscirono ad avvertire in tempo la
popolazione: fu sventato l'attacco proditorio e, anzi, gli Alessandrini
spalancarono la città e attaccarono l'esercito nemico, che si disperse per le
campagne, ponendo così fine alle mire dell'imperatore.
Questa la storia vera, che va d'accordo con la tradizione
sino al punto in cui la città, soffrendo per mancanza di viveri, era decisa a
cercare una salvezza solo col proprio valore. Ed ecco che, mentre gli Alessandrini
si apprestavano all'ultimo sacrificio, arriva a portare il suo aiuto un uomo
del popolo, vecchio d'anni e di senno, di nome Gagliaudo, che ideò uno
stratagemma per confondere il nemico.
Una mattina uscì dalla città assediata e si diresse verso
il campo nemico, facendo finta di condurre al pascolo l'unica mucca rimastagli,
ben foraggiata di tutte le granaglie che era riuscito a trovare in città. I
nemici, non appena lo scoprirono, lo catturarono e uccisero la bestia, ma alla
vista di quanto era nutrita ne furono tanto meravigliati, che riferirono la
cosa all'imperatore. Questi interrogò Gagliaudo, che fu ben felice di
raccontare come la città fosse fornita di viveri sufficienti per resistere
ancora parecchi mesi. Federico, che in questa storiella "di parte"
appare abbastanza sciocco, disperando di conquistare Alessandria si ritirò.
Così la città fu salva, senza lottare, grazie all'astuzia di Gagliaudo.
Ad Alessandria, sulla facciata del duomo,
all'angolo con la via che costeggia l'edificio, vi è un'antica cariatide
medioevale, che la tradizione identifica con Gagliaudo. All'inizio del
Novecento si sparse la voce, probabilmente uno scherzo ben architettato, che la
statua era stata vista muoversi e addirittura urlare nelle notti di luna piena.
Federico
Barbarossa, San Pietro e i cavalieri fantasma
Questa leggenda integra quella più famosa di Gagliaudo,
il salvatore di Alessandria, durante l'assedio alla città portato dall'imperatore
Federico I nel 1174 - 1175.
La vicenda parla di un inganno ordito dai nemici di
Alessandria, per porre fine al lungo assedio: scavarono un tunnel fin dentro
le mura per cogliere di sorpresa l'esercito degli assediati. A svelare
l'inganno fu nientemeno che San Pietro, che, quando i soldati stavano per
sbucare dal tunnel, scese dal cielo, avvolto in una fulgida luce, sopra un
cavallo bianco, nelle mani una spada e le chiavi del paradiso, destò tutta la
città e la avvertì del mortale pericolo. I cavalieri alessandrini riuscirono,
in tal modo, a contrastare la sortita nemica e, anzi, guidati da San Pietro,
uscirono dalla città e misero in fuga tutto l'esercito dell'imperatore, il
più potente sovrano d'Europa.
A memoria dell'evento prodigioso, nella cattedrale di
Alessandria è conservato un dipinto che raffigura San Pietro a cavallo con le
chiavi e la spada, nell'atto di spronare i soldati contro uno sbigottito
Barbarossa.
Il mistero, però, non termina qui, perchè si narra di
viaggiatori che, attraversando di notte le campagne alessandrine, abbiano
visto strane figure simili ai cavalieri medioevali girovagare furtive e
silenziose. I contadini narravano che si trattasse degli spiriti degli
antichi cavalieri che avevano sconfitto il Barbarossa, secoli addietro, anime
che vanno alla ricerca dei tesori che nascosero da vivi o con una missione
speciale da compiere.
Attorno a queste "presenze" sono sorti molti
racconti. Si narra di una fanciulla aggredita da due delinquenti e salvata
dall'improvvisa apparizione di un cavaliere dalle sembianze spaventose;
oppure di un guerriero che si aggira di notte nelle zone dove si svolse la
battaglia e di tanto in tanto si inginocchia a terra: sarebbe il capitano
dell'esercito alessandrino che ringrazia i suoi valorosi soldati morti per la
salvezza della città.
Fra i fitti boschi di Rosia, in un piccolo torrente vi sorge un ponticello fatto ad arco senza alcun pilastro che lo sorregge. E' l'antico ponte della Pia Tolomei un vedova di un cavaliere che si risposò con un certo Nello d'Inghiramo signore di Castel di Pietra. Ma purtroppo il fatto volle che la Pia non potesse fare figli con d'Inghiramo che quest'ultimo invaghito la uccise dandole traccia d'infedele. Si dice che la Pia avesse detto, prima di morire, di percorrere il ponte per andare in Maremma a scontare il suo esilio. La gente del luogo ha conservato la memoria di questa emblematica donna di cui si racconta la bianca visione sopra al ponte, immobile e tranquilla nella notte, un pallido chiarore che alcuni giurano di aver visto nelle notti senza luna. Non sappiamo se è stata la letteratura o le memorie dantesche abbiano influenzato in qualche modo le sue apparizioni, in cui sembrerebbe che appaia pensierosa invece che spaventata. Si crede che la Pia non sia stata una Tolomei né da fanciulla né da signora ma una Malavolti e vittima di interessi e di accuse politiche anziché d'amore. Quando si sposò con Nello fu fatta morire nel Castel di Pietra per infondate accuse di tradimento. L'apparizioni della Pia starebbe a significare la vendetta per quella morte assurda indossando l'abito del candore. Infatti sarebbe stata vista tutta bianca, con un velo che copre il volto, vagare senza toccare il terreno, senza il minimo gesto finche qualcuno incuriosito non la fa fuggire via. Il fantasma sembrerebbe molto triste e sembra volerci comunicare il suo crudo ricordo della morte, ma purtroppo non ci comunica nulla, anzi scompare proprio quando potrebbe mostrarci il suo vero segreto. Inspiegabile invece è la sua apparizione, che invece di apparire nelle rovine del Castel di Pietra, dove è morta, appare su quel ponte come se volesse ascoltare il vento.
La leggenda di Aleramo e la nascita del Monferrato
La leggenda narra di una nobile coppia di Sassonia che si impegnò a compiere un pellegrinaggio fino a Roma, qualora le fosse donata la gioia di un figlio. Aleramo nacque durante il pellegrinaggio, nei pressi di Acqui Terme e subito rimase orfano dei genitori, assaliti da una delle bande di briganti che infestavano la zona.
Il giovane divenne un coraggioso cavaliere al servizio dell'imperatore Ottone I di Sassonia e si innamorò di sua figlia Alasia. I due innamorati, non avendo il consenso dell'imperatore, furono costretti a fuggire e andarono nei luoghi natii di Aleramo, che si adattò a fare il carbonaio.
Il cavaliere, però, attratto dalle imprese di coraggio, tornò a prestare servizio presso l'esercito imperiale, durante alcune rivolte scoppiate nel Nord Italia. Venuto a conoscenza della cosa, Ottone decise di perdonare i due giovani, concesse ad Aleramo il titolo di marchese e gli promise tanta terra quanta fosse riuscito a percorrere in soli tre giorni di sfrenata cavalcata. Quella terra è il Monferrato: durante la prova, infatti, Aleramo usò un mattone (mun, in dialetto) per ferrare (frà, in dialetto) il cavallo, dando, così, il nome a quel territorio.
Ogni anno, dal 1985, questa leggenda rivive attraverso una gara ippica, che ripercorre il tracciato di Aleramo lungo tutto il Monferrato Alessandrino.
Il passato della Calabria può essere letto anche sfogliando
tutta quella lunga serie di tradizioni, credenze e superstizioni popolari
tramandatesi nel corso dei secoli. Negli usi e costumi calabresi sono
ravvisabili, infatti, estremi storici e culturali di epoche diversissime tra
loro; le vestigia del passato si sono conservate intatte soprattutto in quelle
aree meno esposte alle influenze esterne: i paesi montani, ad esempio, e alcuni
centri maggiormente isolati, tuttora rivivono – in taluni periodi – feste,
sagre e avvenimenti nati tantissimi secoli fa; o, ancora, non vengono
dimenticati, dalle minoranze etniche, gli eventi e le manifestazioni tipiche di
quella specifica popolazione. Infine, anche nei centri più moderni, più esposti
alle influenze di altri popoli, le famiglie hanno tramandato piccole
superstizioni che accompagnano il fare quotidiano di ciascun calabrese.
In questa sede, si cerca di recuperare quel grande patrimonio di tradizioni e
di cultura che la Calabria possiede, e che spesso ha conquistato anche grazie
all'alternarsi di numerosi popoli e di diversissime culture provenienti da
tutto il bacino del Mediterraneo.
Sotto il
castello di Graines è sepolto un tesoro; nessuno mai è riuscito a portarlo alla
luce, anche se molti ci hanno provato. Tra gli altri un giovane mandriano.
In sogno, una voce gli aveva indicato il punto dove avrebbe dovuto scavare,
ammonendolo a lasciare il nascondiglio prima che il gallo cantasse tre volte.
La notte successiva, l'uomo fece come gli era stato detto e, scoperta una
botola, penetrò nella stanza del tesoro.
Abbagliato dallo sfavillio dell'oro e delle gemme che a mucchi riempivano la
grotta, indugiò a contemplare quelle favolose ricchezze, affondandovi
cupidamente le mani. Il gallo cantò: una, due, tre volte. La botola si chiuse
senza far rumore: e l'uomo restò prigioniero nella caverna incantata, nè alcuno
seppe più nulla di lui.
Il giorno di Santa Cecilia e' un giorno
speciale per i tarantini: questa ricorrenza segna infatti, prima che in tante
altre zone d'italia, l'inizio delle festività natalizie.
All'alba per le strade buie e silenziose suonando le novene natalizie le bande
girano suonando le novene dei compositori locali, prima fra tutte la dolcissima
Novena di Paisiello, grande musicista tarantino prediletto alla corte della
zarina.
Nelle Pastorali tarantine si interseca tradizione e melodia popolare, le
pastorali più famose sono datate dalla prima metà dell'ottocento all'inizio del
secolo scorso. La più antica è quella del Maestro Giovanni Ippolito.
Sul perche' sia
proprio questo giorno a dare il via ai festeggiamenti c'e' una storia. pare
che, tanto tempo fa, la banda della citta' uscì suonando all'alba del 22
novembre per onorare Santa Cecilia, protettrice della musica. E da quel giorno
inizio' la tradizione.
In
questo giorno si addobba l'albero, si prepara il presepe e soprattutto ...si
friggono le PETTOLE, dolcetti poveri, frittelle di pasta lievitata condite con
zucchero, o miele o vincotto oppure salate con verdure o baccalà.
Attorno alle origini della pettola (dal
latino pitta, ovvero piccola focaccia) la
frittella che si prepara durante le festività natalizie a Taranto girano alcune
leggende.
Si narra che una donna mentre stava
preparando il pane fu distratta da un gran rumore all'esterno: gli zampognari
suonavano marce natalizie e lei prese a seguire il corteo.
L'impasto del pane, dimenticato,
lievito' eccessivamente fino a diventare inutilizzabile.
La donna prese a fare pezzetti di
quella pasta e a gettarla con rabbia nell'olio caldo. Ed ecco che la pasta si
gonfio' dorandosi...cosi', si dice, siano nate le pettole!