costume
29/08/2010 - da una lettera di «Specchio dei tempi»
Illibate nella Torino del 2010
alessandra montrucchio
Madonna, una che l’ha sempre saputa lunga, cantava: «Come una vergine, toccata per la primissima volta». Esattamente: non «vergine», ma «come una vergine».
Basta sfogliare un po' di romanzi scritti da maschi e osservarne le eroine per capire che di solito l’uomo sogna una donna che al suo cospetto sia emozionata, tremebonda e stupefatta come se lui fosse il primo e l’unico, ma che poi sfoderi doti da grande amatrice. Leggere «Teresa Batista stanca di guerra» di Amado per credere. Se però la verginità non è solo simbolica, può diventare un problema. Superare illibate i quarant’anni - come ha scritto una lettrice di «Specchio dei Tempi» lamentandosi di aver trovato un uomo cui neppure questo bastava - significa non essere mai state amate profondamente, a meno che non si sia la protagonista di una soap opera il cui promesso sposo è precipitato fra i cannibali con l'elicottero, è stato dato per morto ed è tornato con un’amnesia dopo aver subito una plastica facciale.
Non è un caso se le soap opera, alla realtà, ci assomigliano pochissimo, e un’ultraquarantenne illibata lo sa anche troppo bene. Lo sa perché, anno dopo anno, gli uomini hanno iniziato a evitarla. A vent’anni era lei a respingerli, se cercavano di convincerla. A trenta ha cominciato a incontrare uomini che balbettavano imbarazzati e si dileguavano quando scoprivano la verità. E a quaranta si è accorta che è difficile non solo conoscere single interessanti, ma interessare a quei single.
Conoscere un uomo e non saper decodificare né mandare segnali. Accorgersi che il proprio isolamento fisico diventa goffaggine negli approcci, di essere gelida o aggressiva, troppo lontana o troppo vicina, senza trovare mai la giusta misura. Assistere alla perdita della propria sensualità, di quella carica elettrica che comunica a un maschio: eccomi, sono qui, e sono una femmina. Trasformarsi in Jessica Fletcher, la scrittrice-detective del telefilm «La signora in giallo»: un’anziana in gamba, ma che sublima la vedovanza potando aiuole a Cabot Cove.
Poi, naturalmente, succede: l’ultraquarantenne illibata incontra un ultraquarantenne illibato. Si riconoscono, si innamorano, si sposano e, come si dice, consumano. È facile che sessualmente funzionino, perché si vogliono bene e non hanno termini di paragone. Ed è facile che il loro amore, condito di gratitudine e meraviglia e senso di liberazione, duri per tutta la vita. Il primo e l’unico, come nei sogni di certi romanzieri.
Non succede spesso, però. Non nel 2010, non nel mondo occidentale. Da noi è più facile che gli ultraquarantenni illibati restino tali, le donne a occuparsi dei vecchi di famiglia, gli uomini a costruire cattedrali di fiammiferi - troppo vecchi, gli uni e le altre per trasformarsi in hacker asociali ma intelligentissimi e fascinosi come nei libri di Stieg Larsson. Ed è un peccato. Perché, che si ritenga o no la verginità un valore, una virtù o un segno di moralità, aver trascorso la gioventù intera e parte della vita adulta senza sapere che cosa voglia dire smarrirsi nell’odore e nel sapore di un'altra persona è un’enorme, dolorosissima e probabilmente inutile perdita.