Giorgio Ballario
Dai fasti delle Olimpiadi invernali del 2006 ai tempi bui della militarizzazione di un’intera valle. è la triste parabola della Val di Susa, a due passi da Torino, da secoli storico canale di comunicazione e passaggio tra la Francia e il Nord Italia, ora più semplicemente simbolo dei No Tav, oppure “Val di Susistan”, per usare un felice neologismo coniato da Marco Cedolin, economista, blogger e scrittore valligiano, da sempre in prima fila contro il Treno ad Alta Velocità. Perché tale definizione dal sapore vagamente afghano? Perché nei prossimi giorni in valle, a difesa dei cantieri che la Lyon Turin Ferroviaire sta aprendo nei pressi di Chiomonte, verranno dispiegati circa 300 alpini della brigata Taurinense, la stessa che ha già svolto alcune missioni a Kabul e dintorni, versando anche il sangue dei proprio soldati in nome della nebulosa e ambigua “missione di pace” Enduring Freedom. Centocinquanta militari per ogni turno di 12 ore, con il compito di far da guardia “h24” ai cantieri e di pattugliare strade e boschi circostanti.
Dai talebani ai “black bloc”. Dalle mine e dai kalashnikov alle meno preoccupanti sassaiole degli antagonisti. Nel cambio i ragazzi in divisa ci hanno senz’altro guadagnato in sicurezza, ma chissà fino a che punto saranno fieri di schierarsi contro i propri concittadini, contro migliaia di persone che in montagna ci vivono per davvero, contro gente che il cappello con la penna nera l’ha portato in gioventù e ancora oggi lo indossa con orgoglio, inquadrata nella protezione civile? Perché se è vero che i disordini di un paio di settimane fa sono stati provocati da alcune centinaia di facinorosi, professionisti del tafferuglio e partigiani dello scontro fine a se stesso (fra gli arrestati e i denunciati, non a caso, non c’era un solo valsusino); è altrettanto vero che il 90 per cento della popolazione locale il supertreno non lo vuole e lo sta dimostrando da anni con metodi più pacifici: manifestazioni, cortei, assemblee, pubblicazioni, studi tecnici, pressing sugli amministratori locali.......
Che cosa passerà per la testa di quei giovani che hanno scelto di servire nelle forze armate il proprio Paese? Che cosa proveranno nel sentirsi quasi un “esercito occupante” in patria? In Piemonte gli alpini sono molto amati e a Torino sono stati apprezzati, negli anni scorsi, anche quando sono stati impiegati in attività di controllo dei quartieri caldi della città, a sostegno di polizia e carabinieri. Ma questa volta potrebbe essere diverso. Stavolta non si preannunciano sorrisi e pacche sulle spalle.
«Dopo le missioni di guerra al soldo degli americani, Bosnia, Iraq, Afghanistan, Libano, Libia – ha scritto con sarcasmo Cedolin sul suo blog Il corrosivo – inizia la stagione delle missioni militari al servizio della mafia del tondino e del cemento, e quale teatro potrebbe essere più consono ad inaugurarle della Val Susa ribelle, dove i “talebani” No Tav rifiutano il treno veloce, le gallerie scavate a dinamite e la didascalia del progresso? (Gli alpini) saliranno a Chiomonte per liberare le donne valsusine dal burqa della bandiera con il treno crociato, per bonificare il terreno dalle mine anti–talpa e per dare la caccia al Mullah Perino (il leader del movimento, ndr), accusato d’incitazione alla rivolta contro ruspe, talpe, contractors che le manovrano e poliziotti che ne proteggono l’operato…».
Gli alpini sono militari e i militari devono obbedire agli ordini dei superiori e alle istituzioni nazionali, su questo c’è poco da discutere. Così come non è in discussione la professionalità e il senso di responsabilità della Taurinense, una delle brigate di punta dell’esercito italiano. I suoi uomini (e ora anche le sue donne) hanno sempre agito bene in qualsiasi contesto si siano trovati ad operare (Mozambico, Bosnia, Kosovo e Afghanistan). E lo faranno anche questa volta.
Gli ordini, come detto, si eseguono, ma i militari sono i primi sapere che non sempre gli ordini sono giusti. E se in questi giorni, in Val di Susistan, terranno gli occhi aperti e manterranno il cuore puro, anche loro si renderanno conto che in questo caso verranno impiegati in una causa sbagliata. Questione di punti di vista, per carità! Ma anche questione di fatti: un cantiere che nasce in mezzo alla montagna protetto da reticolati, recinzioni e barriere di cemento, difeso da uomini in armi e mezzi blindati con gli idranti, ha poco a che fare con una normale opera di ingegneria civile. Ricorda più una caserma dell’esercito britannico nella Belfast degli Anni Settanta e Ottanta. E a Belfast sappiamo tutti chi sono (o quanto meno chi erano, a quel tempo) gli occupanti.
Ma oltre ai fatti ci sono pure i numeri, che dovrebbero far riflettere ogni italiano. Anche chi vive lontanissimo dalla Val di Susistan e del Tav non gliene frega nulla. Perché i soldi con i quali vogliono costruire quest’opera, ciclopica e sostanzialmente inutile, sono nostri, cioè di tutti i cittadini italiani. Ecco un po’ di cifre a casaccio, che però rendono abbastanza bene il quadro.
Fine opera prevista non prima del 2025. Per realizzare la Tokyo-Osaka ci sono voluti 9,3 milioni di euro al chilometro, per la Madrid-Siviglia 9,8 e per la Parigi-Lione 10,2. Il costo della Napoli-Torino, invece, è stato di 60,7 milioni di euro a chilometro e per la Torino-Lione si parla di 120 milioni di euro a chilometro. Costo complessivo 15 miliardi di euro nella migliore delle ipotesi (c’è chi dice che saranno più di 20).
Tutto ciò a fronte di un traffico passeggeri che negli ultimi anni è calato (il Torino-Lione è stato soppresso nel 2004); di una linea già esistente usata attualmente solo al 38 per cento della sua capacità; di un traffico merci che negli ultimi dieci anni si è ridotto in tutti i valichi alpini, come conferma un recente studio del Dipartimento Federale dei Trasporti svizzero, e che comunque – secondo gli esperti, come Francesco Ramella – continuerà a privilegiare il trasporto su gomma perché più rapido ed economico (uno dei problemi dell’Alta Velocità sono appunto gli elevatissimi costi, sia per le merci che per i passeggeri).
Senza contare i costi in termini di salute: è stato calcolato che solo l’emissione di ossidi di azoto e polveri sottili e sottilissime, immessi in atmosfera nel corso dei lavori, potrebbero portare in Val Susa un incremento di 20 morti all’anno, oltre all’aumento del 10 per cento di patologie cardiorespiratorie per soggetti già a rischio e per quelli più deboli, cioè anziani e bambini.
L’Ue ha finanziato l’opera con 670 milioni di euro (da dividere con la Francia), ma anche se la società costruttrice è a capitale prevalentemente privato, per realizzare l’opera chiederà prestiti alle banche. E, a parte il fatto che lo Stato ha già erogato miliardi di finanziamenti a fondo perduto, gli enormi interessi da restituire alle banche saranno garantiti dal Ministero del Tesoro. «Siccome non ci sono margini di guadagno sufficienti, non c’è nessun privato disposto a investire – spiega Ramella, membro dell’Istituto Bruno Leoni ed esperto di trasporti – Per questo, il costo deve essere coperto interamente dallo Stato, che lo farà in due modi: aumentando il debito pubblico o aumentando il carico fiscale ai danni del cittadino».
In pratica con il Tav ci stanno ipotecando il futuro. Soprattutto il futuro dei più giovani, visto che gli interessi matureranno nei prossimi decenni. Quindi anche l’avvenire di quei giovani alpini che nei prossimi giorni dovranno fare la guardia al bidone.
Il Fondo di miro renzaglia