Roma Ha violentato le tre figlie minorenni mentre era nel programma di protezione ed è stato condannato a 15 anni, ha poi confessato un omicidio, ma è un pentito e i suoi delitti non cancellano i diritti del suo status tutto speciale. Per il Tar del Lazio, lo Stato deve ugualmente concedergli una lauta buonuscita per favorire il suo «reinserimento sociale», qualcosa come 50-60 mila euro.
La sorprendente sentenza del 18 luglio scorso accoglie, in parte, il ricorso del collaboratore di giustizia contro il ministero dell’Interno. É solo l’ultimo atto di un braccio di ferro tra giudici amministrativi e Viminale: a giugno, sempre il Tar laziale ha annullato il provvedimento con il quale la Commissione centrale per i testimoni e collaboratori di giustizia negava un anno fa a Gaspare Spatuzza il programma di protezione. Motivazione? L’ex capomafia di Brancaccio ha fatto sì rivelazioni «a rate», ma il limite di 180 giorni previsto dalla legge vale solo per quelle su fatti conosciuti direttamente e non su quelli riferiti da altri. Ma torniamo all’ultima storia, quella del pentito pugliese Giuseppe Saccente, entrato sotto l’ala protettiva del Viminale nell’aprile 1999, dopo aver iniziato a collaborare con la Dda di Bari. Come succede sempre in questi casi, cambia identità e regione e, con tutta la famiglia, inizia una nuova vita, stipendiato dallo Stato. Nel 2003, però, la moglie lo denuncia per violenze carnali nei confronti delle figlie.
I pm indagano, si arriva al processo e 5 anni dopo, a giugno 2008, il tribunale di La Spezia lo condanna a 15 anni. Gli abusi sarebbero stati compiuti tra il 1993 e il settembre 2003, anche mentre era sottoposto al programma di protezione. Il fatto è eclatante, i reati gravissimi. E, visto che essere pentiti non vuol dire godere dell’impunità ma anzi impone una condotta esemplare, a settembre si mette in moto la macchina per togliere a Saccente lo status di pentito. L’uscita dal programma speciale di protezione appare scontata, ma la questione è: deve ugualmente avere la liquidazione prevista dalla legge per aiutarlo a reinserirsi nella società? La «capitalizzazione » prevede tra i 2 e i 5 anni di assegno di mantenimento (800 euro) più un forfait di 10 mila euro per la casa. Vuol dire tra i 30 e i 60 mila euro, a seconda di quanto è preciso il progetto per il futuro lavoro.
La Commissione centrale chiede due pareri: la Dda di Bari è per la liquidazione; la Direzione nazionale antimafia invece no, perché Saccente ha violato uno dei precisi obblighi previsti per i pentiti. Via dal programma senza buonuscita, decide il 24 giugno 2009 la Commissione Centrale. Ma Saccente ricorre al Tar e chiede l’annullamento della delibera, basata su erronee ed illegittime determinazioni ». Due anni dopo i giudici amministrativi discutono il caso e nel frattempo sono stati informati dal ministero dell’Interno, attraverso tutti i documenti del caso, che l’expentito ha aggravato e non di poco la sua posizione. A dicembre 2010, infatti, è stato condannato in via definitiva dal tribunale di La Spezia per le violenze sessuali e ha deciso di scappare, cercando di procurarsi un passaporto falso.
Il 7 gennaio è stato arrestato dalla polizia e ha confessato un omicidio volontario. Nel mezzo di una discussione ad Alghero, tra pomodori e una scatola di tonno, ha afferrato un coltello da cucina e ha ucciso con più colpi l’amico portoghese che doveva appunto procurargli i documenti per l’espatrio. Di che altro c’è bisogno, si dirà, per sbattere fuori dal programma senza una lira di gratificazione, un tipo del genere? E invece le cose non vanno così. Per il Tar del Lazio la revoca dal programma è incontestabile, mancano però le necessarie «valutazioni discrezionali » che giustifichino il no alla liquidazione. E il ricorso viene accolto parzialmente. Saccente, violentatore e omicida, avrà dunque il suo premio finale da pentito?