La Casta dei magistrati Toghe e doppio stipendio
Molti magistrati si mettono "fuori ruolo"
per ricoprire altri incarichi ai vertici di altre istituzioni, ma
conservano compensi e benefit. E nemmeno Monti riesce a bloccare i
privilegi
Roma - L’ennesimo attacco ai professionisti in toga del «doppio
stipendio» rischia di fare flop. Cambiano i governi, ma la «casta» si
tiene sempre stretti i suoi privilegi.
Parliamo della schiera di
magistrati, soprattutto amministrativi e contabili, ma anche ordinari o
avvocati dello Stato, che occupano posti spesso di vertice in ministeri e
authority, alla Consulta e al Csm, a Palazzo Chigi, nelle Regioni e
negli enti locali, in organismi internazionali.
Si mettono «fuori ruolo», mantengono il primo stipendio e vi
aggiungono ricche indennità, arrivando a guadagnare in media 300mila
euro lordi l’anno. Le chiamano «carriere parallele» e sono anche d’oro.
Spesso a passare da un posto di presidente di un’autorità a quello di
capo di gabinetto di un ministro o di un sindaco sono sempre i «soliti
noti». Per anni e decenni non ritornano ad indossare la toga, ma ne
conservano tutti i vantaggi e proseguono la carriera pagati il doppio.
Roberto
Giachetti, deputato del Pd, ha escogitato quest’estate un modo per
spazzare via il privilegio del cumulo degli stipendi, tanto più
insopportabile in tempo di crisi e sacrifici. Il suo emendamento prima
si è agganciato alla manovra Tremonti, poi al decreto anti corruzione:
prevede che i magistrati fuori ruolo mantengano unicamente lo stipendio
originario e che siano autorizzati solo per cinque anni consecutivi. Poi
dovranno tornare alle loro funzioni per un quinquennio e semmai essere
autorizzati ancora al «fuori ruolo» per cinque anni. Al massimo dieci
complessivi. In più, il provvedimento prevede un’immediata applicazione
anche agli incarichi già ottenuti.
Le lobby delle diverse magistrature e gli alti «papaveri» di Stato
hanno incominciato a fibrillare, quando nelle ultime settimane si è
capito che in Parlamento l’emendamento poteva anche passare.
E ad un rinvio è seguito un altro rinvio.
Poi, nella manovra Monti è comparso il provvedimento per tutti i
dirigenti della pubblica amministrazione che stabilisce il tetto pari
allo stipendio del Primo presidente della Cassazione, vale a dire
305mila euro l’anno. E invece di prendere due stipendi interi, gli
interessati potranno averne solo uno più un quarto come indennità.
Troppo severo per passare.
E infatti, ecco che spunta un
compromesso: ci potranno essere «deroghe motivate per le posizioni
apicali delle rispettive amministrazioni». In pratica, qualche doppio
stipendio si salverà reso più sontuoso dai i rimborsi spese.
Intanto,
è incerta la sorte in Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio
dell’emendamento Giachetti, che allarma molto anche per il tetto di 5
anni e 10 complessivi. Sembra che alcuni «grand commis» dello Stato si
siano mossi con forti pressioni, quando hanno capito dalle dichiarazioni
di deputati leghisti e del Pdl che la norma era vicina all’
approvazione.
Quello di SuperMario è stato anche definito il «governo del
presidente» e si pensi a che cosa succederebbe al Quirinale se il
segretario generale Donato Marra (consigliere di Stato) dovesse
sottostare alla regola dei cinque anni. Non potrebbe completare il
settennato presidenziale di Giorgio Napolitano. Stessa situazione per
altri alti magistrati impegnati qua e là e qualche maligno dice che
tutto questo si traduce in un freno all’emendamento.
A novembre era
stato il governo Berlusconi a mettere il bastone fra le ruote: si espose
direttamente il ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma (forse
il suo unico intervento in Commissione) per bloccare la norma chiedendo
una riformulazione più «soft», pochi giorni prima delle dimissioni
dell’esecutivo.
Le cose non sono cambiate con il governo Monti e la
scorsa settimana, in Commissione, è stato il rappresentante
dell’esecutivo ha chiesto un nuovo rinvio del voto sull’emendamento, per
«poter assumere nuove informazioni». Il presidente Donato Bruno, per
«garbo istituzionale», ha avallato la richiesta. Tutto fermo di nuovo.
D’altronde, stiamo parlando del governo che ha come sottosegretario
alla presidenza Antonio Catricalà, già presidente dell’Antitrust con
stipendio di 500mila euro lordi all’anno più i 9 mila netti mensili come
consigliere di Stato fuori ruolo. Lo stesso governo che ha come
ministro per la Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, anche lui
consigliere di Stato per lunghi anni capo di gabinetto e dell’ufficio
legislativo di vari ministri oltre che membro di authority, con doppia
retribuzione annuale di 150mila più 200mila euro.