Se entri in cucina conosci te stesso
Nell’era degli chef diventati maître-à-penser, due libri ne smitizzano l’arte: grandi tecnici, non geni rivoluzionari
Come diffido dei troppo magri, diffido di “C chi
non ama la tavola. è così spesso l’unico punto di contatto con gente che
ha idee politiche, filosofiche e spirituali diverse dalle tue»,
sostiene giustamente Luca Iaccarino in Dire Fare Mangiare. Un libro di storie gustose
(Add editore). La tavola esprime, ma soprattutto ci esprime: il cibo
che mangiamo ci tradisce ma va anche e soprattutto interpretato, per
capire chi siamo. Iaccarino propone un’esplorazione che parte da uno dei
più celebri ristoranti del mondo, passa per una sapida trattoria e dopo
una scorribanda nella Vucciria di Palermo approda a una cena preparata
in casa. Se da Ducasse a Montecarlo Iaccarino va senza preconcetti, con
la mente e la bocca aperta, alla taverna di Fra’ Fiusch a Revigliasco
lavora tre giorni in cucina. Imparerà che l’arte è molto più sinonimo di
fatica, improperi e orari folli, che casacca candida e sguardo maliardo
di molti chef diventati maître-à-penser, in questo presente che sta
facendo della cucina un idolo.
«Il meilleur ouvrier de France
è sempre un grande tecnico, ma non necessariamente un genio, un
innovatore, un inventore, uno che rivoluziona la storia della
gastronomia», fa eco Michel Onfray dal suo I filosofi in cucina. Critica della ragion dietetica
(traduzione di Giovanni Bogliolo per Ponte alle Grazie). Gastronomo
convinto e tendente all’eccesso, Onfray ha scritto questo trattato di
diet-etica poco dopo essere sopravvissuto a un infarto, a 28 anni. Il
cuore era stato compromesso da un’alimentazione non propriamente
equilibrata, e forse per compensazione il filosofo si è conquistato la
fama presso il grande pubblico con questo libro che esce solo oggi in
Italia, dove tenta un percorso tra filosofia e apparato digerente.
Diogene, Nietzsche, Sartre, Rousseau, Feuerbach, Kant: tutti continenti
nei propositi, tutti smodati all’atto pratico. Soprattutto nel bere.
Kant era - prevedibilmente metodico nei suoi pasti, ma capace di
spazzolarsi «tre portate, formaggio e burro. Aveva un appetito robusto e
gli piacevano molto il brodo di vitello e la minestra d’orzo con i
vermicelli... metteva della senape quasi su ogni piatto». Beveva come
una spugna, ma questo sembra essere un dato caratteristico di quasi
tutta la categoria intellettuale. Sartre, ad esempio, sublimava le sue
fobie alimentari ad esempio verso i crostacei, che poi sognava in
dimensioni spropositate - annegandole in dosi massicce di alcol.
Al
di là dell’aspetto folcloristico, per il quale si va dal polpo crudo di
Diogene ai latticini di Rousseau, alla rivoluzione futurista (per le
quale la pasta è un «cubo massiccio impiombato da una compattezza opaca e
cieca». Garantito che davanti alla sfoglia di Alfredo Russo del Dolce
Stil Novo di Venaria Marinetti si sarebbe, è il caso di dire, rimangiato
tutto), il saggio di Onfray giunge alla medesima conclusione di
Iaccarino, e cioè che non esiste una dietetica rivoluzionaria perché
tutto è già stato mangiato. L’invenzione, la cosiddetta creatività che
in cucina va tanto di moda (così come l’enigmatico «territorio», che vai
a capire cos’è, di preciso) è il più delle volte un’illusione ottica,
un flusso di memoria. Il che non significa monotonia, anzi. L’arte della
cucina è sottile, profondamente umana, fatta di misura, sfumature e
devozione.
Anche per questo, come dice Onfray, non c’è dietetica
rivoluzionaria ma non c’è nemmeno dietetica innocente: e non tanto
perché una certa etica ci ha insegnato che godere - a letto, a tavola o
fra le proprie ricchezze - è un peccato. Piuttosto, perché il cibo che
noi manipoliamo, cuciniamo e mangiamo è inevitabilmente specchio di noi
stessi, umanità antica e ormai dannatamente smaliziata.
|