«E adesso chi glielo dice che avevano ragione loro?». L’epigramma è dell’ex direttore del “Manifesto”, Riccardo Barenghi, in arte “Jena”: gli bastano poche parole, sulla “Stampa” del 13 luglio, per archiviare la contestatissima linea Tav dopo la sortita del ministro del bilancio francese, Jerome Cahuzac, rilanciata il giorno prima da “Le Figaro”: troppi progetti faraonici di dubbia utilità, ormai proibitivi in tempi di crisi. In cima alla lista nera di Parigi c’è proprio la Torino-Lione: solo a fine anno, ha annunciato il ministro, una speciale commissione parlamentare appositamente costituita valuterà se ha davvero senso che la Francia si indebiti fino al collo per spendere i 12 miliardi di euro previsti per la tratta transalpina dell’alta velocità italo-francese. E se le diplomazie tentano di spegnere la polemica (nessun problema con Parigi, dice il ministro Passera: la Torino-Lione si farà) il secondo round della doccia fredda arriva da Bruxelles: Francia e Italia non sperino che l’Europa finanzi la Torino-Lione.
Il commissario europeo Siim Kallas è esplicito: «La Commissione Europea ha un ruolo limitato, la Tav è un progetto di Italia e Francia e da questi due Paesi devono venire i finanziamenti principali». Il tabù che ha tormentato per vent’anni la valle di Susa sta perdendo i pezzi: l’Europa fa sapere che non è certo Bruxelles a premere sulla “grande opera inutile”, mentre Parigi annuncia che il piano vagheggiato da Sarkozy – 260 miliardi di euro per 2000 chilometri di alta velocità distribuiti in 14 progetti da qui al 2020 – è ormai destinato ad andare in soffitta. Torino-Lione, Nizza-Marsiglia e Rennes-Brest sono i primi tre tagli praticamente sicuri, anche se non ancora ufficiali. Niente di così strano, peraltro: Spagna e Portogallo hanno appena rinunciato al collegamento tra le due capitali, che doveva essere il capolinea occidentale dell’ex “corridoio 5” Kiev-Lisbona, demolito dalla crisi finanziaria prima ancora che dalla sua inconsistenza assoluta, come spiega Luca Rastello in un recente reportage su “Repubblica”. In Spagna le merci continueranno a viaggiare lentamente come negli Usa e nel resto del mondo, mentre la Slovenia blocca persino il collegamento ordinario con l’Italia, l’Ungheria opta per le autostrade e in Ucraina nessuno ha mai neppure sentito parlare di una leggenda chiamata Kiev-Lisbona.
Mistero inglorioso: nel caso si decidesse ugualmente di procedere coi cantieri, le uniche a guadagnarci davvero sarebbero le banche, che accumulerebbero interessi stellari sui prestiti concessi a Italia e Francia per una maxi-opera la cui presunta utilità è stata regolarmente smentita dai No-Tav e dai migliori tecnici dell’università italiana. Solo a Chiomonte, per l’ipotetico cunicolo esplorativo interamente finanziato dal governo di Roma, secondo il Viminale la militarizzazione dell’area è finora costata 27 milioni di euro: che senso aveva trasformare un prato di montagna in una specie di fortino, nel quale – in un anno intero – nessuna ruspa ha cominciato a scavare? Impensabile ottenere una retromarcia immediata: sarebbe una sconfitta troppo imbarazzante per chi ha sempre cercato di criminalizzare la protesta, senza però mai riuscire a motivare seriamente la necessità di un’opera-fantasma, il cui beneficio si limita al fatturato della cantieristica, con ingenti danni collaterali ammessi dallo stesso progetto preliminare realizzato dalla Ltf, la Lyon-Turin Ferroviaire.
Amianto, uranio, polveri, rumore: vent’anni di cantieri, paragonabili a un insediamento industriale ad altissimo impatto, che – leggi alla mano – nessun Comune potrebbe mai autorizzare, dati i rischi troppo elevati per la salute e la vita stessa degli abitanti, condannati a convivere con un inferno di macchinari e camion. Risultato certo: crollo dell’economia locale e del valore degli immobili, migliaia di famiglie rovinate. Dalla maggiore opera pubblica della storia italiana sarebbe immediatamente compromesso un territorio su cui vivono centomila persone, ma poi il rischio-catastrofe minaccerebbe direttamente Torino: secondo un tecnico della Regione Piemonte, citato da Luca Rastello, il “passante” attorno alla città taglierebbe la falda idropotabile che serve un milione di abitanti. «Quando i torinesi se ne accorgeranno – avverte la professoressa Marina Clerico, docente del Politecnico di Torino e assessore della Comunità Montana valsusina – il sindaco Fassino smetterà di dormire sonni tranquilli».
Forse quel giorno non arriverà mai: se la Francia non “correggerà” il neo-ministro del governo Hollande, la Torino-Lione potrebbe essere messa in standby, in attesa di essere dimenticata. Avevano ragione loro, i No-Tav: da Grillo a Vendola, dall’Idv ai Verdi, in Italia si è levato un coro. In prima fila politici come Paolo Ferrero, da sempre in trincea al fianco dei valsusini, insieme a dirigenti della Fiom come Airaudo e Cremaschi. Dall’altra parte della barricata, il gruppo di potere del Pd torinese, Fassino e Chiamparino, con la benedizione di Bersani. Tutti spiazzati da Parigi e poi da Bruxelles, costretti a spiegare per quale motivo indebitare generazioni di italiani. La Torino-Lione non è in discussione, recita a memoria l’ex banchiere Passera, vedendo traballare l’affare del secolo. Muto il premier Monti, così come il presidente Napolitano, che finora non hanno risposto all’appello di 360 autorevoli accademici italiani. Mentre la cronaca europea della Torino-Lione oggi parla di soldi che non ci sono e non ci saranno, si evita – una volta di più – di confrontarsi coi tecnici indipendenti. Secondo gli esperti, infatti, la vera questione non è neppure finanziaria, ma trasportistica: dati i volumi di traffico tra Italia e Francia, paesi già serviti dalla linea internazionale Torino-Modane appena rimodernata proprio in valle di Susa, la faraonica Torino-Lione non servirebbe assolutamente a niente.