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Se un ricatto contro Giorgio Napolitano è stato tentato, il ricatto è finito nel vuoto. Lo dimostra, oltre alla serena e ferma replica della Presidenza della Repubblica, la (quasi) corale risposta della politica e delle istituzioni all’ultima fase dell’attacco al Colle imperniato sull’esistenza di "impossibili" intercettazioni di telefonate da e per il Quirinale. Ma ancor prima l’ha dimostrato l’assai ridotta presa della campagna firmaiola avviata formalmente "per" sostenere un gruppo di pm palermitani, ma in realtà mirata – come in anni ormai lontani e non rimpianti – "contro" precise (e decisive) figure delle istituzioni e della politica. E l’ha sottolineato la vacuità infelice di talune "rivelazioni" scagliate a orologeria. Un insieme di torbide manovre, s’è detto ieri. Esatto.
Eppure se scandalo c’è – ed eccome se c’è... – si nutre (checché si sia detto e scritto) non di penombre e di carte «secretate» o di strani retroscena, ma di solari e amarissime evidenze. Su queste colonne, sfidando anche l’opinione prevalente nella nostra categoria, ne scriviamo da anni. Come cittadini che rispettano i magistrati (e in tantissimi di essi ammirano competenza ed equilibrio) e che tengono integralmente cari i princìpi di garanzia della nostra civiltà.
E come cronisti che si sforzano di lavorare ricordando sempre che le inchieste di giornale non possono diventare quasi solo l’eco di quelle di qualche procura. Giudichiamo insopportabile la duplice, disastrosa, deriva che ha portato di fatto ad abrogare l’articolo 15 della Costituzione («La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge») e ci ha ridotti a veder celebrare troppi processi soprattutto mediaticamente e con feroce rito sommario. Ne sanno qualcosa le vittime delle diverse macchine del fango che si sono alternate nella caccia al nemico (o al semplice bersaglio) di turno e si sono applicate con entusiasmo alla produzione di (possibilmente pruriginosi) "danni collaterali". Ne sa qualcosa – di nuovo, ma con inedita intensità – persino il capo dello Stato. E la ferita e lo squilibrio sono sempre più gravi.
In morte di Loris D’Ambrosio, il 27 luglio scorso, su questa prima pagina avevamo espresso una dolente speranza. Oggi formuliamo qualcosa di più di un auspicio, perché c’è un dovere da onorare nei confronti dei cittadini di questo Paese. Ed è un dovere incalzante. La speciale, e giusta, tutela politica e normativa riservata alla Presidenza della Repubblica non è un privilegio avulso dalla vicenda della nostra democrazia, ne è un presidio.
È il massimo livello della difesa della libera segretezza delle nostre comunicazioni di liberi cittadini. Ma ha forza e senso, appunto, perché c’è una basilare libertà che è di tutti e che solo per giustizia e difesa della legalità (non per il loro contrario) può essere toccata. Dovere del legislatore è ripristinare ciò che è stato compromesso, perché la nostra non diventi una Repubblica fondata sulle intercettazioni e con esse (s)governata. A ciascuno il suo diritto e il suo dovere, a ciascuno il giusto potere: toghe e cronisti, Presidente e cittadini semplici.