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Dopo una lunga vita spesa a farsi eco della Parola di Dio, era rimasto quasi senza parole. Quando gli ultimi suoni che dovevano esserci consegnati – puri respiri, quasi – sono stati consegnati, il cardinale Martini ha consegnato anche lo spirito. L’ha consegnato a Dio, certamente. Ma tutte le sue parole, fino all’ultimo respiro, le ha prima consegnate a noi. Che cosa ci dicevano queste parole? E chi le eredita? E come deve fiorire il seme, ora che ha assolto il suo compito fino a nascondersi nella terra e morire?
Le sue parole dicevano, alla fine, una cosa sola: che c’è una sola Parola veramente degna di ascolto. Non era ancora stata così semplice e così possente, nei tempi della nostra giovinezza, questa primavera della Parola di Dio. Negli anni del nostro indecifrabile scontento, del nostro conflitto civile, delle nostre nevrosi ecclesiogene, questo primato dell’ascolto della Parola sull’eccitazione dei nostri progetti rivoluzionari, ci arrivò – in un primo momento – come una pietra lunare. E poi, poco a poco, si fece domestica. Incominciò a insegnarci la differenza fra la paura e la fede. Fra il giudizio degli uomini e il giudizio di Dio. Fra la stizza per il nostro sentirci abbandonati ai giochi delle potenze mondane, e la conquista di una indomabile determinazione a custodire la fede che vince il mondo. Amandolo, persino. Di fronte alla persuasiva suggestione di questa fiducia incrollabile nella Parola di Dio, alcune coscienze stravolte dalla convinzione di dover consegnare all’odio e alla violenza la regìa di una storia diversa, consegnarono – letteralmente – le armi. E molti, che avevano archiviato lo smarrimento di Dio, imparando a convivere con il vuoto, si persuasero di poterne parlare di nuovo.
Il primo erede delle parole di Carlo Maria Martini è, di diritto, la Chiesa. Nessuno, meglio della Chiesa, sa che cosa fare di questa eredità, e con questa eredità. La Chiesa, custode della Parola di Dio, discerne la sua tradizione. E sa che c’è un solo Maestro. Anche questo rispetto e questa obbedienza ecclesiale ereditiamo da Martini. La parola “discernimento” è diventata famosa proprio come una cifra caratteristica del suo insegnamento. Essa rimanda, per definizione, alla necessità di non farci presuntuose controfigure dell’autorevolezza della Parola di Dio, fronteggiando la Chiesa. Noi siamo parte, affettuosa e solidale, del discernimento della Chiesa. Non lo rendiamo più difficile, lo agevoliamo con le mille risorse dell’intelligenza di agape (1Cor 13, 4–13).
Ma l’eredità che la Chiesa riceve dai suoi servitori fedeli non è un geloso possesso, un orgoglioso sequestro. Molti uomini e donne proprio questo impararono dallo stile evangelico e umano di Martini. Furono colpiti con loro sorpresa dall’immagine di una Chiesa che non è avara dei suoi beni, a cominciare proprio dalla Parola di Dio. Impararono – e noi fummo costretti a ricordare – che la Chiesa non ha bisogno, né intenzione, di proteggere la Parola di Dio affogandola nel gergo di un linguaggio esoterico. Scoprirono che, dalla Pentecoste sino ad ora, l’autentica predicazione cristiana si fa intendere nella lingua di ciascuno. E dunque tutti possono rendersi conto che c’è, per ciascun essere umano, una Parola buona di Dio.
Questo ci basti, per dire una buona parola – una benedizione – su questo vescovo della Chiesa, e fratello nostro, che ha faticato al “remo della parola” di Dio (Lc 1, 2), fino a quando non ebbe finite le parole per insegnarcele. Le nostre parole, passano e muoiono, come devono. La Parola di Dio, però, se ne riscalda e vive. (Caro Cardinale Martini, tu sai che io sono stato il tuo teologo arruffaparole, al confronto con te, impareggiabile narratore della Parola. Eppure, non mi hai mai tolto la parola. Dio sa se non è un buon esempio di agape, questo. Dio ti benedica, indimenticabile fratello vescovo).