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De: enricorns (Mensaje original) |
Enviado: 03/09/2012 12:00 |
Squalllide operazioni sulla morte del cardinal Martini
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Neppure di fronte alla morte di una personalità eminente, il cardinale Carlo Maria Martini, testimone appassionato e credibile di un profondo amore alla vita propria e di tutti coloro che incontrava nel suo ministero culturale, magistrale e pastorale, si sono fermati i soliti innescatori di baruffe mediatiche, sempre alla caccia di presunte incoerenze tra l’insegnamento ufficiale della Chiesa in materia morale e le posizioni personali di alcuni suoi membri. La morte, mysterium tremendum, è strappata al riguardoso silenzio, alla commozione della mente e del cuore, forma laicissima di contemplazione del culmine dell’esistenza dell’uomo, che incute reverenziale timore ed esige rispetto incondizionato. Così è per tutti, credenti e no, per il naturale trasudare di una sensibilità umana limpida e vivace. O, più precisamente, dovrebbe essere, se il dibattito pubblico su questioni delicate e decisive della vita non fosse inquinato da istanze ideologiche e revansciste che accecano gli occhi e l’intelligenza e portano a vedere ovunque distinzioni e divisioni, creando contrapposizioni che non hanno riscontro nella realtà dei fatti, né fondamento nell’argomentazione ragionevole.
Paragonare la lucida e umanissima decisione del cardinale e dei suoi medici di fronte all’ultima crisi parkinsoniana, di metà agosto, che ha segnato il breve epilogo della sua esistenza terrena (circa due settimane), segnato dalla «incapacità a deglutire cibi solidi e liquidi» – come affermato dal suo medico curante – con le scelte del padre di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby è una operazione strumentale priva di ogni realistico riferimento clinico ed etico. L’arcivescovo emerito di Milano soffriva di una malattia neurodegenerativa, quella di Parkinson, che gli ha consentito di idratarsi e nutrirsi ordinariamente per via orale fino a poco prima della sua morte. La libera accettazione dell’ineludibile avvicinarsi della morte gli ha fatto chiedere, come fece anche il beato Giovanni Paolo II (che soffriva di una patologia simile), che non si procedesse a manovre di posizionamento di sonde per l’alimentazione enterale o ad altri interventi sproporzionati e incongruenti con la decisione di accogliere i tempi e i modi con i quali il Signore gli è venuto incontro nell’ultimo, definitivo abbraccio. Per questo «è rimasto lucido fino all’ultimo e ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico», ha dichiarato il dottor Pezzoli.
Ben diversa di fatto, e opposta di valore, è stata la decisione arbitraria di sospendere l’idratazione e l’alimentazione di Eluana, da 17 anni in stato vegetativo persistente, una condizione patologica stazionaria che non l’aveva portata, sino a quel momento, alle soglie della morte. Non era in agonia né stava per entrarvi. La donna avrebbe continuato a vivere ancora per parecchio tempo (non possiamo sapere quanto) e, per il suo stato clinico, la nutrizione enterale era perfettamente appropriata, condizione necessaria per supportare la fisiologica necessità di acqua e cibo. Infine, la decisione venne presa da altri, non da lei stessa.
Welby, invece, venne colpito all’età di 16 anni dalla distrofia muscolare di Becker, una malattia neuromuscolare a progressione generalmente assai più lenta della malattia di Parkinson. Su sua richiesta, il respiratore gli venne staccato 45 anni dopo, anche in questo caso non in prossimità della morte (la vita di pazienti affetti da questa forma particolare di distrofia muscolare può durare a lungo). Una scelta di eutanasia volontaria, in un momento della propria malattia, che nulla ha a che vedere – né clinicamente, né moralmente – con la decisione di rinunciare a forme di «accanimento terapeutico» alle soglie della morte.
Non vi è spazio per chi vuole ignobilmente speculare sulla morte dignitosissima ed evangelica di un tenace difensore della dignità della vita umana e di «generoso servitore del Vangelo», come lo ha chiamato Benedetto XVI.
Roberto Colombo
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De: haiku04 |
Enviado: 04/09/2012 14:25 |
Ben diversa di fatto, e opposta di valore, è stata la decisione arbitraria di sospendere l’idratazione e l’alimentazione di Eluana, da 17 anni in stato vegetativo persistente, una condizione patologica stazionaria che non l’aveva portata, sino a quel momento, alle soglie della morte. Non era in agonia né stava per entrarvi. La donna avrebbe continuato a vivere ancora per parecchio tempo (non possiamo sapere quanto) e, per il suo stato clinico, la nutrizione enterale era perfettamente appropriata, condizione necessaria per supportare la fisiologica necessità di acqua e cibo. Infine, la decisione venne presa da altri, non da lei stessa.
Dipende da cosa si intende per vita: 17 anni in stato vegetativo persistente può definirsi vita?
La decisione venne presa dal padre (Eluana non poteva certo esprimersi), da un padre amorevole che, avendo conosciuta la figlia e quindi al corrente delle sue opinioni in proposito, dopo ben 17 anni ha scelto di porre fine a un qualcosa che era tutto, tranne vita. A volte è per amore che si prendono certe sofferte decisioni, mentre è per egoismo che se prendono altre. O almeno questo, come sempre, è il mio parere. |
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Il rifiuto della Chiesa di eutanasia e accanimento terapeutico
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Quella cristiana testimonianza della dignità del morire
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La dichiarazione – «ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico» – fatta da Gianni Pezzoli, il medico che aveva in cura il cardinal Martini, ha indotto non pochi a una lettura strumentale, fuorviante e pretestuosa, fino a ravvisare in essa una legittimazione dell’eutanasia ed equipararla alla morte di Eluana e di Welby. Sorprende in particolare – e infatti su queste colonne la questione è già stata autorevolmente e acutamente commentata – la lettura in termini di contrapposizione alla dottrina della Chiesa. Il che non è assolutamente vero né in linea di principio, né in linea di fatto.
Non in linea di principio, perché il rifiuto dell’accanimento terapeutico è legittimato dal magistero bioetico della Chiesa, come insegna il Catechismo: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire». La Chiesa è certamente per la vita, ma non per la vita a ogni costo. C’è un "costo" clinico umanamente e teologicamente inaccettabile. Umanamente perché gravoso, non atto a curare, non dignitoso e rispettoso della persona. Teologicamente perché volto a contrastare il disegno di Dio su ognuno, che abbraccia anche il morire, da accogliere e vivere in naturale libertà.
La scelta del cardinal Martini è conforme alla dottrina della Chiesa anche in linea di fatto. Essa distingue i mezzi terapeutici in proporzionati e sproporzionati rispetto ai loro effetti. I primi sono doverosi perché, anche se non guariscono, curano. Essi sono un valido sostegno al vivere della persona malata. Rinunciare a essi è atto soppressivo della vita: è eutanasia omissiva. Ai mezzi straordinari invece si può e, per non cadere nell’accanimento terapeutico, si deve rinunciare. Essi infatti danno luogo a un prolungamento forzoso e penoso della vita. In situazione clinica come quella dell’arcivescovo emerito di Milano – ha spiegato il medico – «si possono usare vari dispositivi come la peg» (gastrostomia endoscopica percutanea). Ma nella fase degenerativa estrema raggiunta dalla malattia, «la peg – ha precisato il medico – sarebbe un accanimento terapeutico e l’accanimento terapeutico non va mai applicato in nessuna terapia medica, quindi anche in questo caso».
Dunque il cardinal Martini ha fatto una scelta clinicamente ed eticamente legittima: ha rinunciato alla peg in una fase della malattia nella quale essa non costituiva più un atto curativo (proporzionato) ma un intervento eccessivo e inutile (sproporzionato), un’ostinazione terapeutica medicalmente e moralmente inammissibile. Non c’è stato dunque nessun atto soppressivo della vita, né per omissione di cure proporzionate e dovute né per azione volta a interromperla. Non sono stati messi in atto protocolli di "dolce morte". Si è semplicemente consentito alla vita di fare il suo decorso, fino al suo atto ultimo, il morire. L’ha detto espressamente il medico: «La malattia è evoluta nel modo più naturale possibile».
Perché allora speculare sulla morte di un grande testimone del Vangelo della Vita, tirarlo dalla propria parte per usarlo a testimonial della propaganda pro-eutanasia? Perché rifiutarsi di tener conto della ragionevole distinzione del magistero bioetico della Chiesa tra eutanasia (la morte a ogni costo) e l’accanimento terapeutico (la vita a ogni costo): entrambi (non solo la prima) delegittimati dalla dottrina cattolica? Perché equiparare il rifiuto dell’accanimento terapeutico a una scelta eutanasica? Perché far passare la delegittimazione dell’eutanasia come la privazione di un diritto? La morale cattolica, come ogni etica centrata sul valore indisponibile e inviolabile della persona, non può ammettere un diritto a morire. Ma un diritto a morire con dignità umana e cristiana sì. È quanto fa la Chiesa con la delegittimazione dell’eutanasia da una parte e dell’accanimento terapeutico dall’altra. Di questa dignità umana e cristiana del morire sono stati testimoni il cardinal Martini e il Beato Giovanni Paolo II, anche la sua morte assoggettata a una strumentalizzazione pro-eutanasica. Il modo come hanno affrontato la malattia e la loro rinuncia all’accanimento terapeutico sono un brano di quel Vangelo della vita che hanno insegnato e vissuto.
Mauro Cozzoli
da avvenire |
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