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De: enricorns (Mensaje original) |
Enviado: 05/09/2012 10:17 |
L'UDIENZA
Titolo Articolo
Il Papa: «Pregare non solo per chiedere, ma per lodare»
Contenuto Articolo
La preghiera deve essere "innanzitutto ascolto e disponibilità ad ascoltare Dio che ci chiama", ma oggi, "sommersi da tante parole siamo poco disposti ad ascoltare, a metterci nella disposizione del silenzio per ascoltare quello che Dio vuole dirci". Ma è nella preghiera che la comunità "si costituisce" come comunità di fede. Lo ha detto il Papa nella udienza generale davanti a circa 7.000 persone in aula Paolo VI, spiegando ai fedeli un brano della Apocalisse, un libro "difficile" del Nuovo Testamento. Un altro elemento che Benedetto XVI ha voluto sottolineare circa la preghiera della comunità è l'invito a non pregare solo per chiedere, ma invece pregare "per dare lode al Signore". "Gesù Cristo - ha detto papa Ratzinger - ci ha portato forza, speranza e salvezza" e serve da parte della assemblea l' "impegno a coglierne la presenza nella propria vita". Papa Ratzinger, che da alcune settimane dedica le udienze generali a una scuola di preghiera fondata su testi biblici e figure di santi, ha oggi insistito sul tema dell'ascolto.
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All'udienza generale il Papa parla della preghiera nell'Apocalisse
Gesù tiene la Chiesa nella sua mano
E ai laici cattolici africani l'invito a essere ambasciatori di speranza per il continente
"Gesù tiene la Chiesa nella sua mano, le parla con la forza penetrante di una spada affilata, e le mostra lo splendore della sua divinità": l'immagine del libro dell'Apocalisse è stata riproposta da Benedetto XVI durante l'udienza generale di mercoledì 5 settembre. Giunto in Vaticano da Castel Gandolfo, il Papa ha incontrato i fedeli nell'Aula Paolo VI e ha ripreso con loro le catechesi sulla preghiera.
Cari fratelli e sorelle,
oggi, dopo l'interruzione delle vacanze, riprendiamo le Udienze in Vaticano, continuando in quella "scuola della preghiera" che sto vivendo insieme con voi in queste Catechesi del mercoledì. Oggi vorrei parlare della preghiera nel Libro dell'Apocalisse, che, come sapete, è l'ultimo del Nuovo Testamento. È un libro difficile, ma che contiene una grande ricchezza. Esso ci mette in contatto con la preghiera viva e palpitante dell'assemblea cristiana, radunata "nel giorno del Signore" (Ap 1, 10): è questa infatti la traccia di fondo in cui si muove il testo. Un lettore presenta all'assemblea un messaggio affidato dal Signore all'Evangelista Giovanni. Il lettore e l'assemblea costituiscono, per così dire, i due protagonisti dello sviluppo del libro; ad essi, fin dall'inizio, viene indirizzato un augurio festoso: "Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia" (1, 3). Dal dialogo costante tra loro, scaturisce una sinfonia di preghiera, che si sviluppa con grande varietà di forme fino alla conclusione. Ascoltando il lettore che presenta il messaggio, ascoltando e osservando l'assemblea che reagisce, la loro preghiera tende a diventare nostra. La prima parte dell'Apocalisse (1, 4-3,22) presenta, nell'atteggiamento dell'assemblea che prega, tre fasi successive. La prima (1, 4-8) è costituita da un dialogo che - unico caso nel Nuovo Testamento - si svolge tra l'assemblea appena radunata e il lettore, il quale le rivolge un augurio benedicente: "Grazia a voi e pace" (1, 4). Il lettore prosegue sottolineando la provenienza di questo augurio: esso deriva dalla Trinità: dal Padre, dallo Spirito Santo, da Gesù Cristo, coinvolti insieme nel portare avanti il progetto creativo e salvifico per l'umanità. L'assemblea ascolta e, quando sente nominare Gesù Cristo, ha come un sussulto di gioia e risponde con entusiasmo, elevando la seguente preghiera di lode: "A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen" (1, 5b-6). L'assemblea, avvolta dall'amore di Cristo, si sente liberata dai legami del peccato e si proclama "regno" di Gesù Cristo, che appartiene totalmente a Lui. Riconosce la grande missione che con il Battesimo le è stata affidata di portare nel mondo la presenza di Dio. E conclude questa sua celebrazione di lode guardando di nuovo direttamente a Gesù e, con entusiasmo crescente, ne riconosce "la gloria e la potenza" per salvare l'umanità. L'"amen" finale conclude l'inno di lode a Cristo. Già questi primi quattro versetti contengono una grande ricchezza di indicazioni per noi; ci dicono che la nostra preghiera deve essere anzitutto ascolto di Dio che ci parla. Sommersi da tante parole, siamo poco abituati ad ascoltare, soprattutto a metterci nella disposizione interiore ed esteriore del silenzio per essere attenti a ciò che Dio vuole dirci. Tali versetti ci insegnano inoltre che la nostra preghiera, spesso solo di richiesta, deve essere invece anzitutto di lode a Dio per il suo amore, per il dono di Gesù Cristo, che ci ha portato forza, speranza e salvezza. Un nuovo intervento del lettore richiama poi all'assemblea, afferrata dall'amore di Cristo, l'impegno a coglierne la presenza nella propria vita. Dice così: "Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto" (1, 7a). Dopo essere salito al cielo in una "nube", simbolo della trascendenza (cfr. At 1, 9), Gesù Cristo ritornerà così come è salito al Cielo (cfr. At 1, 11b). Allora tutti i popoli lo riconosceranno e, come esorta san Giovanni nel Quarto Vangelo, "volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto" (19, 37). Penseranno ai propri peccati, causa della sua crocifissione, e, come coloro che avevano assistito direttamente ad essa sul Calvario, "si batteranno il petto" (cfr. Lc 23, 48) chiedendogli perdono, per seguirlo nella vita e preparare così la comunione piena con Lui, dopo il suo ritorno finale. L'assemblea riflette su questo messaggio e dice: "Sì. Amen!" (Ap 1, 7b). Esprime col suo "sì" l'accoglienza piena di quanto le è comunicato e chiede che questo possa davvero diventare realtà. È la preghiera dell'assemblea, che medita sull'amore di Dio manifestato in modo supremo sulla Croce e chiede di vivere con coerenza da discepoli di Cristo. E c'è la risposta di Dio: "Io sono l'Alfa e l'Omèga, Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!" (1, 8). Dio, che si rivela come l'inizio e la conclusione della storia, accoglie e prende a cuore la richiesta dell'assemblea. Egli è stato, è, e sarà presente e attivo con il suo amore nelle vicende umane, nel presente, nel futuro, come nel passato, fino a raggiungere il traguardo finale. Questa è la promessa di Dio. E qui troviamo un altro elemento importante: la preghiera costante risveglia in noi il senso della presenza del Signore nella nostra vita e nella storia, e la sua è una presenza che ci sostiene, ci guida e ci dona una grande speranza anche in mezzo al buio di certe vicende umane; inoltre, ogni preghiera, anche quella nella solitudine più radicale, non è mai un isolarsi e non è mai sterile, ma è la linfa vitale per alimentare un'esistenza cristiana sempre più impegnata e coerente. La seconda fase della preghiera dell'assemblea (1, 9-22) approfondisce ulteriormente il rapporto con Gesù Cristo: il Signore si fa vedere, parla, agisce, e la comunità, sempre più vicina a Lui, ascolta, reagisce ed accoglie. Nel messaggio presentato dal lettore, san Giovanni racconta una sua esperienza personale di incontro con Cristo: si trova nell'isola di Patmos a causa della "parola di Dio e della testimonianza di Gesù" (1, 9) ed è il "giorno del Signore" (1, 10a), la domenica, nella quale si celebra la Risurrezione. E san Giovanni viene "preso dallo Spirito" (1, 10a). Lo Spirito Santo lo pervade e lo rinnova, dilatando la sua capacità di accogliere Gesù, il Quale lo invita a scrivere. La preghiera dell'assemblea che ascolta, assume gradualmente un atteggiamento contemplativo ritmato dai verbi "vede", "guarda": contempla, cioè, quanto il lettore le propone, interiorizzandolo e facendolo suo. Giovanni ode "una voce potente, come di tromba" (1, 10b): la voce gli impone di inviare un messaggio "alle sette Chiese" (1, 11) che si trovano nell'Asia Minore e, attraverso di esse, a tutte le Chiese di tutti i tempi, unitamente ai loro Pastori. L'espressione "voce ... di tromba", presa dal libro dell'Esodo (cfr. 20, 18), richiama la manifestazione divina a Mosè sul monte Sinai e indica la voce di Dio, che parla dal suo Cielo, dalla sua trascendenza. Qui è attribuita a Gesù Cristo Risorto, che dalla gloria del Padre parla, con la voce di Dio, all'assemblea in preghiera. Voltatosi "per vedere la voce" (1, 12), Giovanni scorge "sette candelabri d'oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d'uomo" (1, 12-13), termine particolarmente familiare a Giovanni, che indica Gesù stesso. I candelabri d'oro, con le loro candele accese, indicano la Chiesa di ogni tempo in atteggiamento di preghiera nella Liturgia: Gesù Risorto, il "Figlio dell'uomo", si trova in mezzo ad essa e, rivestito delle vesti del sommo sacerdote dell'Antico Testamento, svolge la funzione sacerdotale di mediatore presso il Padre. Nel messaggio simbolico di Giovanni, segue una manifestazione luminosa di Cristo Risorto, con le caratteristiche proprie di Dio, che ricorrono nell'Antico Testamento. Si parla dei "capelli candidi, simili a lana candida come neve" (1, 14), simbolo dell'eternità di Dio (cfr. Dn 7, 9) e della Risurrezione. Un secondo simbolo è quello del fuoco, che, nell'Antico Testamento, viene spesso riferito a Dio per indicare due proprietà. La prima è l'intensità gelosa del suo amore, che anima la sua alleanza con l'uomo (cfr. Dt 4, 24). Ed è questa stessa intensità bruciante dell'amore che si legge nello sguardo di Gesù Risorto: "I suoi occhi erano come fiamma di fuoco" (Ap 1, 14a). La seconda è la capacità inarrestabile di vincere il male come un "fuoco divoratore" (Dt 9, 3). Così anche "i piedi" di Gesù, in cammino per affrontare e distruggere il male, hanno l'incandescenza del "bronzo splendente" (Ap 1, 15). La voce di Gesù Cristo poi, "simile al fragore di grandi acque" (1, 15c), ha il frastuono impressionante "della gloria del Dio di Israele" che si muove verso Gerusalemme, di cui parla il profeta Ezechiele (cfr. 43, 2). Seguono ancora tre elementi simbolici che mostrano quanto Gesù Risorto stia facendo per la sua Chiesa: la tiene saldamente nella sua mano destra - un'immagine molto importante: Gesù tiene la Chiesa nella sua mano - le parla con la forza penetrante di una spada affilata, e le mostra lo splendore della sua divinità: "Il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza" (Ap 1, 16). Giovanni è talmente preso da questa stupenda esperienza del Risorto, che si sente venire meno e cade come morto. Dopo questa esperienza di rivelazione, l'Apostolo ha davanti il Signore Gesù che parla con lui, lo rassicura, gli pone una mano sulla testa, gli dischiude la sua identità di Crocifisso Risorto e gli affida l'incarico di trasmettere un suo messaggio alle Chiese (cfr. Ap 1, 17-18). Una cosa bella questo Dio davanti al quale viene meno, cade come morto. È l'amico della vita, e gli pone la mano sulla testa. E così sarà anche per noi: siamo amici di Gesù. Poi la rivelazione del Dio Risorto, del Cristo Risorto, non sarà tremenda, ma sarà l'incontro con l'amico. Anche l'assemblea vive con Giovanni il momento particolare di luce davanti al Signore, unito, però, all'esperienza dell' incontro quotidiano con Gesù, avvertendo la ricchezza del contatto con il Signore, che riempie ogni spazio dell'esistenza. Nella terza ed ultima fase della prima parte dell'Apocalisse (Ap 2-3), il lettore propone all'assemblea un messaggio settiforme in cui Gesù parla in prima persona. Indirizzato a sette Chiese situate nell'Asia Minore intorno ad Efeso, il discorso di Gesù parte dalla situazione particolare di ciascuna Chiesa, per poi estendersi alle Chiese di ogni tempo. Gesù entra subito nel vivo della situazione di ciascuna Chiesa, evidenziandone luci e ombre e rivolgendole un pressante invito: "Convertiti" (2, 5.16; 3, 19c); "Tieni saldo quello che hai" (3, 11); "compi le opere di prima" (2, 5); "Sii dunque zelante e convertiti" (3, 19b)... Questa parola di Gesù, se ascoltata con fede, inizia subito ad essere efficace: la Chiesa in preghiera, accogliendo la Parola del Signore viene trasformata. Tutte le Chiese devono mettersi in attento ascolto del Signore, aprendosi allo Spirito come Gesù richiede con insistenza ripetendo questo comando sette volte: "Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese" (2, 7.11.17.29; 3, 6.13.22). L'assemblea ascolta il messaggio ricevendo uno stimolo per il pentimento, la conversione, la perseveranza, la crescita nell'amore, l'orientamento per il cammino. Cari amici, l'Apocalisse ci presenta una comunità riunita in preghiera, perché è proprio nella preghiera che avvertiamo in modo sempre crescente la presenza di Gesù con noi e in noi. Quanto più e meglio preghiamo con costanza, con intensità, tanto più ci assimiliamo a Lui, ed Egli entra veramente nella nostra vita e la guida, donandole gioia e pace. E quanto più noi conosciamo, amiamo e seguiamo Gesù, tanto più sentiamo il bisogno di fermarci in preghiera con Lui, ricevendo serenità, speranza e forza nella nostra vita. Grazie per l'attenzione.
(©L'Osservatore Romano 6 settembre 2012)
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Il Papa: l'onnipotenza del male è solo apparente
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Nel mondo "vi sono i mali che l'uomo compie, come la violenza, che nasce dal desiderio di possedere, di prevalere gli uni sugli altri, tanto da giungere ad uccidersi; oppure l'ingiustizia, perché gli uomini non rispettano le leggi che si sono date". Ed "a questi si aggiungono i mali che l'uomo deve subire, come la morte, la fame, la malattia". Ma, afferma Benedetto XVI nella catechesi all'Udienza Generale di oggi, tenuta nell'Aula Nervi gremita da 8 mila fedeli, "davanti a queste realtà, spesso drammatiche, la comunità ecclesiale è invitata a non perdere mai la speranza, a credere fermamente che l'apparente onnipotenza del Maligno si scontra con la vera onnipotenza che è quella di Dio".
Per il Papa teologo, "nella storia dell'uomo è entrata la forza di Dio che non solo è in grado di bilanciare il male ma addirittura di vincerlo". Per questo, spiega, "come cristiani non possiamo mai essere pessimisti. "Nel cammino - infatti - incontriamo spesso odio e violenza, e persecuzione, ma questo non ci scoraggia e soprattutto la preghiera ci aiuta a vedere la presenza e l'azione di Dio, e le luci di bene che diffondono speranza e indicano che la vittoria è di Dio". "La Chiesa - afferma ancora il Pontefice che dopo l'Udienza Generale ha fatto rientro a Castel Gandolfo - vive nella storia, non si chiude in se stessa, ma affronta con coraggio il suo cammino in mezzo a difficoltà e sofferenze, affermando con forza che il male in definitiva non vince il bene, che il buio non offusca lo splendore di Dio". "Soprattutto la preghiera - ha poi scandito citando l'Apocalisse - ci educa a vedere i segni di Dio, la sua presenza e azione, anzi ad essere noi stessi luci di bene, che diffondono speranza e indicano che la vittoria è di Dio".
"L'Apocalisse - ricorda Papa Benedetto ai fedeli giunti in Vaticano da una ventina di paesi - ci dice che la preghiera alimenta in ciascuno di noi e nelle nostre comunità questa visione di luce e di profonda speranza: ci invita a non lasciarci vincere dal male, ma a vincere il male con il bene, a guardare al Cristo Crocifisso e Risorto che ci associa alla sua vittoria". E "questa prospettiva porta ad elevare a Dio e all'Agnello il ringraziamento e la lode", come testimoniano nel libro di San Giovanni Evangelista "i ventiquattro anziani e i quattro esseri viventi che cantano insieme il 'cantico nuovo' che celebra l'opera di Cristo Agnello, il quale renderà 'nuove tutte le cose' ". "Ma - precisa Joseph Ratzinger - questo rinnovamento è anzitutto un dono da chiedere. E qui troviamo un altro elemento che deve caratterizzare la preghiera: invocare dal Signore con insistenza che il suo Regno venga, che l'uomo abbia il cuore docile alla signoria di Dio, che sia la sua volontà ad orientare la nostra vita e quella del mondo". "Nella visione dell'Apocalisse questa preghiera di domanda - rileva ancora Benedetto XVI nella sua catechesi di oggi - è rappresentata da un particolare importante": insieme alla cetra che accompagna il canto ci sono "delle coppe d'oro piene di incenso" che "sono le preghiere dei santi", di coloro, cioè, che hanno già raggiunto Dio, ma anche di tutti noi che ci troviamo in cammino. E vediamo che davanti al trono di Dio, un angelo tiene in mano un turibolo d'oro in cui mette continuamente i grani di incenso, cioè le nostre preghiere, il cui soave odore viene offerto insieme alle preghiere perché salga al cospetto di Dio". Per il Pontefice, "è un simbolismo che ci dice come tutte le nostre preghiere, con tutti i limiti, la fatica, la povertà, l'aridità, le imperfezioni che possono avere, vengono quasi purificate e raggiungono il cuore di Dio. Dobbiamo essere certi, cioè, che non esistono preghiere superflue, inutili; nessuna va perduta". "Ed esse - conclude l'anziano Papa tedesco - trovano risposta, anche se a volte misteriosa, perché Dio è Amore e Misericordia infinita
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«Liturgia, scuola di preghiera»
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Cari fratelli e sorelle,
in questi mesi abbiamo compiuto un cammino alla luce della Parola di Dio, per imparare a pregare in modo sempre più autentico guardando ad alcune grandi figure dell’Antico Testamento, ai Salmi, alle Lettere di san Paolo e all’Apocalisse, ma soprattutto guardando all’esperienza unica e fondamentale di Gesù, nel suo rapporto con il Padre celeste. In realtà, solo in Cristo l’uomo è reso capace di unirsi a Dio con la profondità e la intimità di un figlio nei confronti di un padre che lo ama, solo in Lui noi possiamo rivolgerci in tutta verità a Dio chiamandolo con affetto “Abbà! Padre!”. Come gli Apostoli, anche noi abbiamo ripetuto in queste settimane e ripetiamo a Gesù oggi: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1).
Inoltre, per apprendere a vivere ancora più intensamente la relazione personale con Dio abbiamo imparato a invocare lo Spirito Santo, primo dono del Risorto ai credenti, perché è Lui che «viene in aiuto alla nostra debolezza: da noi non sappiamo come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26), dice san Paolo, e noi sappiamo come abbia ragione.
A questo punto, dopo una lunga serie di catechesi sulla preghiera nella Scrittura, possiamo domandarci: come posso io lasciarmi formare dallo Spirito Santo e così divenire capace di entrare nell'atmosfera di Dio, di pregare con Dio? Qual è questa scuola nella quale Egli mi insegna a pregare, viene in aiuto alla mia fatica di rivolgermi in modo giusto a Dio? La prima scuola per la preghiera - lo abbiamo visto in queste settimane - è la Parola di Dio, la Sacra Scrittura. La Sacra Scrittura è un permanente dialogo tra Dio e l'uomo, un dialogo progressivo nel quale Dio si mostra sempre più vicino, nel quale possiamo conoscere sempre meglio il suo volto, la sua voce, il suo essere; e l'uomo impara ad accettare di conoscere Dio, a parlare con Dio. Quindi, in queste settimane, leggendo la Sacra Scrittura, abbiamo cercato, dalla Scrittura, da questo dialogo permanente, di imparare come possiamo entrare in contatto con Dio.
C’è ancora un altro prezioso «spazio», un’altra preziosa «fonte» per crescere nella preghiera, una sorgente di acqua viva in strettissima relazione con la precedente. Mi riferisco alla liturgia, che è un ambito privilegiato nel quale Dio parla a ciascuno di noi, qui ed ora, e attende la nostra risposta.
Che cos’è la liturgia? Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica - sussidio sempre prezioso, direi indispensabile – possiamo leggere che originariamente la parola «liturgia» significa «servizio da parte del popolo e in favore del popolo» (n. 1069). Se la teologia cristiana prese questo vocabolo del mondo greco, lo fece ovviamente pensando al nuovo Popolo di Dio nato da Cristo che ha aperto le sue braccia sulla Croce per unire gli uomini nella pace dell’unico Dio. «Servizio in favore del popolo», un popolo che non esiste da sé, ma che si è formato grazie al Mistero Pasquale di Gesù Cristo. Di fatto, il Popolo di Dio non esiste per legami di sangue, di territorio, di nazione, ma nasce sempre dall’opera del Figlio di Dio e dalla comunione con il Padre che Egli ci ottiene.
Il Catechismo indica inoltre che «nella tradizione cristiana (la parola “liturgia”) vuole significare che il Popolo di Dio partecipa all’opera di Dio» (n. 1069), perché il popolo di Dio come tale esiste solo per opera di Dio.
Questo ce lo ha ricordato lo sviluppo stesso del Concilio Vaticano II, che iniziò i suoi lavori, cinquant’anni orsono, con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, approvato poi solennemente il 4 dicembre del 1963, il primo testo approvato dal Concilio. Che il documento sulla liturgia fosse il primo risultato dell’assemblea conciliare forse fu ritenuto da alcuni un caso. Tra tanti progetti, il testo sulla sacra liturgia sembrò essere quello meno controverso, e, proprio per questo, capace di costituire come una specie di esercizio per apprendere la metodologia del lavoro conciliare. Ma senza alcun dubbio, ciò che a prima vista può sembrare un caso, si è dimostrata la scelta più giusta, anche a partire dalla gerarchia dei temi e dei compiti più importanti della Chiesa. Iniziando, infatti, con il tema della «liturgia» il Concilio mise in luce in modo molto chiaro il primato di Dio, la sua priorità assoluta. Prima di tutto Dio: proprio questo ci dice la scelta conciliare di partire dalla liturgia. Dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento. Il criterio fondamentale per la liturgia è il suo orientamento a Dio, per poter così partecipare alla sua stessa opera.
Però possiamo chiederci: qual è questa opera di Dio alla quale siamo chiamati a partecipare? La risposta che ci offre la Costituzione conciliare sulla sacra liturgia è apparentemente doppia. Al numero 5 ci indica, infatti, che l’opera di Dio sono le sue azioni storiche che ci portano la salvezza, culminate nella Morte e Risurrezione di Gesù Cristo; ma al numero 7 la stessa Costituzione definisce proprio la celebrazione della liturgia come «opera di Cristo». In realtà questi due significati sono inseparabilmente legati. Se ci chiediamo chi salva il mondo e l’uomo, l’unica risposta è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si rende attuale per noi, per me oggi il Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? La risposta è: nell’azione di Cristo attraverso la Chiesa, nella liturgia, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale del Figlio di Dio, che ci ha redenti; nel Sacramento della Riconciliazione, in cui si passa dalla morte del peccato alla vita nuova; e negli altri atti sacramentali che ci santificano (cfr Presbyterorum ordinis, 5). Così, il Mistero Pasquale della Morte e Risurrezione di Cristo è il centro della teologia liturgica del Concilio.
Facciamo un altro passo in avanti e chiediamoci: in che modo si rende possibile questa attualizzazione del Mistero Pasquale di Cristo? Il beato Papa Giovanni Paolo II, a 25 anni dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, scrisse: «Per attualizzare il suo Mistero Pasquale, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, soprattutto nelle azioni liturgiche. La liturgia è, di conseguenza, il luogo privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con colui che Egli inviò, Gesù Cristo (cfr Gv 17,3)» (Vicesimus quintus annus, n. 7). Sulla stessa linea, leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica così: «Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole» (n. 1153). Pertanto la prima esigenza per una buona celebrazione liturgica è che sia preghiera, colloquio con Dio, anzitutto ascolto e quindi risposta. San Benedetto, nella sua «Regola», parlando della preghiera dei Salmi, indica ai monaci: mens concordet voci, « la mente concordi con la voce». Il Santo insegna che nella preghiera dei Salmi le parole devono precedere la nostra mente. Abitualmente non avviene così, prima dobbiamo pensare e poi quanto abbiamo pensato si converte in parola. Qui invece, nella liturgia, è l'inverso, la parola precede. Dio ci ha dato la parola e la sacra liturgia ci offre le parole; noi dobbiamo entrare all'interno delle parole, nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio. Come ricorda la Sacrosanctum Concilium, per assicurare la piena efficacia della celebrazione «è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione di animo, pongano la propria anima in consonanza con la propria voce e collaborino con la divina grazia per non riceverla invano» (n. 11). Elemento fondamentale, primario, del dialogo con Dio nella liturgia, è la concordanza tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che portiamo nel cuore. Entrando nelle parole della grande storia della preghiera noi stessi siamo conformati allo spirito di queste parole e diventiamo capaci di parlare con Dio.
In questa linea, vorrei solo accennare ad uno dei momenti che, durante la stessa liturgia, ci chiama e ci aiuta a trovare tale concordanza, questo conformarci a ciò che ascoltiamo, diciamo e facciamo nella celebrazione della liturgia. Mi riferisco all’invito che formula il Celebrante prima della Preghiera Eucaristica: «Sursum corda», innalziamo i nostri cuori al di fuori del groviglio delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angustie, della nostra distrazione. Il nostro cuore, l’intimo di noi stessi, deve aprirsi docilmente alla Parola di Dio e raccogliersi nella preghiera della Chiesa, per ricevere il suo orientamento verso Dio dalle parole stesse che ascolta e dice. Lo sguardo del cuore deve dirigersi al Signore, che sta in mezzo a noi: è una disposizione fondamentale.
Quando viviamo la liturgia con questo atteggiamento di fondo, il nostro cuore è come sottratto alla forza di gravità, che lo attrae verso il basso, e si leva interiormente verso l’alto, verso la verità, verso l’amore, verso Dio. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La missione di Cristo e dello Spirito Santo che, nella Liturgia sacramentale della Chiesa, annunzia, attualizza e comunica il Mistero della salvezza, prosegue nel cuore che prega. I Padri della vita spirituale talvolta paragonano il cuore a un altare» (n. 2655): altare Dei est cor nostrum.
Cari amici, celebriamo e viviamo bene la liturgia solo se rimaniamo in atteggiamento orante, non se vogliamo “fare qualcosa”, farci vedere o agire, ma se orientiamo il nostro cuore a Dio e stiamo in atteggiamento di preghiera unendoci al Mistero di Cristo e al suo colloquio di Figlio con il Padre. Dio stesso ci insegna a pregare, afferma san Paolo (cfr Rm 8,26). Egli stesso ci ha dato le parole adeguate per dirigerci a Lui, parole che incontriamo nel Salterio, nelle grandi orazioni della sacra liturgia e nella stessa Celebrazione eucaristica. Preghiamo il Signore di essere ogni giorno più consapevoli del fatto che la Liturgia è azione di Dio e dell’uomo; preghiera che sgorga dallo Spirito Santo e da noi, interamente rivolta al Padre, in unione con il Figlio di Dio fatto uomo (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2564). Grazie.
da avvenire
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«Pregare è stare con Dio come con un amico»
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Benedetto XVI, durante l’udienza generale in Piazza San Pietro, è tornato a soffermarsi nella catechesi su una delle fonti privilegiate della preghiera cristiana: la sacra liturgia, “partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo”. La Chiesa – ha detto il Papa - si rende visibile in molti modi: nell’azione caritativa, nei progetti di missione, nell’apostolato. Però il luogo in cui la si sperimenta pienamente come Chiesa è nella liturgia, “atto nel quale crediamo che Dio entra nella nostra realtà e noi lo possiamo incontrare, lo possiamo toccare”.
Nella liturgia “ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine”. Ma nella nostra vita – domanda il Papa - riserviamo uno spazio sufficiente alla preghiera? “La preghiera è la relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo (cfr ibid., 2565). Quindi la vita di preghiera consiste nell’essere abitualmente alla presenza di Dio e averne coscienza, nel vivere in relazione con Dio come si vivono i rapporti abituali della nostra vita, quelli con i familiari più cari, con i veri amici; anzi quella con il Signore è la relazione che dona luce a tutte le nostre altre relazioni”. La preghiera cristiana – ricorda il Santo Padre – consiste nel “guardare costantemente e in maniera sempre nuova a Cristo, parlare con Lui, stare in silenzio con Lui, ascoltarlo, agire e soffrire con Lui”.
Il cristiano “riscopre la sua vera identità in Cristo”. E trovare la propria identità in Cristo significa giungere a una comunione con Lui. Pregare – aggiunge il Papa – significa “elevarsi all’altezza di Dio” e partecipando alla liturgia, “facciamo nostra la lingua madre della Chiesa”: “Naturalmente questo avviene in modo graduale, poco a poco. Devo immergermi progressivamente nelle parole della Chiesa, con la mia preghiera, con la mia vita, con la mia sofferenza, con la mia gioia, con il mio pensiero. È un cammino che ci trasforma”.
Ma come si impara a pregare, come crescere nella preghiera? “Guardando al modello che ci ha insegnato Gesù, il Padre nostro, noi vediamo che la prima parola è ‘Padre’ e la seconda è 'nostro'. La risposta, quindi, è chiara: apprendo a pregare, alimento la mia preghiera, rivolgendomi a Dio come Padre e pregando-con-altri, pregando con la Chiesa, accettando il dono delle sue parole, che mi diventano poco a poco familiari e ricche di senso”.
La liturgia - spiega il Papa - non è una “specie di auto–manifestazione della comunità”, ma è invece l’uscire dal semplice "essere-se-stessi" ed entrare “nella grande comunità vivente, nella quale Dio stesso ci nutre”. La liturgia implica universalità: “La liturgia cristiana è il culto del tempio universale che è Cristo Risorto, le cui braccia sono distese sulla croce per attirare tutti nell’abbraccio dell’amore eterno di Dio. E’ il culto del cielo aperto. Non è mai solamente l’evento di una comunità singola, con una sua collocazione nel tempo e nello spazio. E’ importante che ogni cristiano si senta e sia realmente inserito in questo ‘noi’ universale, che fornisce il fondamento e il rifugio all’’io’, nel Corpo di Cristo che è la Chiesa”. "Non si può pregare Dio in modo individualista". "La liturgia non è un nostro 'fare', ma è azione di Dio in noi e con noi. Non è il singolo – sacerdote o fedele – o il gruppo che celebra la liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa": “Anche nella liturgia della più piccola comunità è sempre presente la Chiesa intera. Per questo non esistono ‘stranieri’ nella comunità liturgica. In ogni celebrazione liturgica partecipa assieme tutta la Chiesa, cielo e terra, Dio e gli uomini”. La liturgia cristiana, “anche se si celebra in un luogo e uno spazio concreti, ed esprime il ‘sì’ di una determinata comunità, è per sua natura cattolica: proviene dal tutto e conduce al tutto, in unità con il Papa, con i Vescovi, con i credenti di tutte le epoche e di tutti i luoghi. Quanto più una celebrazione è animata da questa coscienza, tanto più fruttuosamente in essa si realizza il senso autentico della liturgia”.
Nelle riflessioni sulla liturgia – conclude il Santo Padre – l’attenzione è centrata spesso sul come renderla attraente, interessante ma si rischia di "dimenticare l’essenziale: la liturgia si celebra per Dio e non per noi stessi", è opera del Signore. Dobbiamo lasciarci guidare da Dio e dal suo Corpo che è la Chiesa.
Al termine dell'udienza generale, Benedetto XVI ha ricordato che domani si recherà in visita al Santuario di Loreto, nel 50esimo anniversario del celebre pellegrinaggio del Beato Papa Giovanni XXIII in quella località mariana, avvenuto una settimana prima dell’apertura del Concilio Vaticano II. “Vi chiedo di unirvi alla mia preghiera nel raccomandare alla Madre di Dio i principali eventi ecclesiali che ci apprestiamo a vivere. L’Anno della fede e il Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione. Possa la Vergine Santa accompagnare la Chiesa nella sua missione di annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo”.
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UDIENZA
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«Nella chiesa nessuno è straniero»
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Cari fratelli e sorelle,
nella scorsa catechesi ho iniziato a parlare di una delle fonti privilegiate della preghiera cristiana: la sacra liturgia, che - come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica - è «partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. Nella liturgia ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine» (n. 1073). Oggi vorrei che ci chiedessimo: nella mia vita, riservo uno spazio sufficiente alla preghiera e, soprattutto, che posto ha nel mio rapporto con Dio la preghiera liturgica, specie la Santa Messa, come partecipazione alla preghiera comune del Corpo di Cristo che è la Chiesa?
Nel rispondere a questa domanda dobbiamo ricordare anzitutto che la preghiera è la relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo (cfr ibid., 2565). Quindi la vita di preghiera consiste nell’essere abitualmente alla presenza di Dio e averne coscienza, nel vivere in relazione con Dio come si vivono i rapporti abituali della nostra vita, quelli con i familiari più cari, con i veri amici; anzi quella con il Signore è la relazione che dona luce a tutte le altre nostre relazioni. Questa comunione di vita con Dio, Uno e Trino, è possibile perché per mezzo del Battesimo siamo stati inseriti in Cristo, abbiamo iniziato ad essere una sola cosa con Lui (cfr Rm 6,5).
In effetti, solo in Cristo possiamo dialogare con Dio Padre come figli, altrimenti non è possibile, ma in comunione col Figlio possiamo anche dire noi come ha detto Lui: «Abbà». In comunione con Cristo possiamo conoscere Dio come Padre vero (cfr Mt 11,27). Per questo la preghiera cristiana consiste nel guardare costantemente e in maniera sempre nuova a Cristo, parlare con Lui, stare in silenzio con Lui, ascoltarlo, agire e soffrire con Lui. Il cristiano riscopre la sua vera identità in Cristo, «primogenito di ogni creatura», nel quale sussistono tutte le cose (cfr Col 1,15ss). Nell’identificarmi con Lui, nell’essere una cosa sola con Lui, riscopro la mia identità personale, quella di vero figlio che guarda a Dio come a un Padre pieno di amore.
Ma non dimentichiamo: Cristo lo scopriamo, lo conosciamo come Persona vivente, nella Chiesa. Essa è il «suo Corpo». Tale corporeità può essere compresa a partire dalle parole bibliche sull’uomo e sulla donna: i due saranno una carne sola (cfr Gn 2,24; Ef 5,30ss.; 1 Cor 6,16s). Il legame inscindibile tra Cristo e la Chiesa, attraverso la forza unificante dell’amore, non annulla il «tu» e l’«io», bensì li innalza alla loro unità più profonda. Trovare la propria identità in Cristo significa giungere a una comunione con Lui, che non mi annulla, ma mi eleva alla dignità più alta, quella di figlio di Dio in Cristo: «la storia d’amore tra Dio e l’uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più» (Enc. Deus caritas est, 17). Pregare significa elevarsi all’altezza di Dio, mediante una necessaria graduale trasformazione del nostro essere.
Così, partecipando alla liturgia, facciamo nostra la lingua della madre Chiesa, apprendiamo a parlare in essa e per essa. Naturalmente, come ho già detto, questo avviene in modo graduale, poco a poco. Devo immergermi progressivamente nelle parole della Chiesa, con la mia preghiera, con la mia vita, con la mia sofferenza, con la mia gioia, con il mio pensiero. E’ un cammino che ci trasforma.
Penso allora che queste riflessioni ci permettano di rispondere alla domanda che ci siamo fatti all’inizio: come imparo a pregare, come cresco nella mia preghiera? Guardando al modello che ci ha insegnato Gesù, il Padre nostro, noi vediamo che la prima parola è «Padre» e la seconda è «nostro». La risposta, quindi, è chiara: apprendo a pregare, alimento la mia preghiera, rivolgendomi a Dio come Padre e pregando-con-altri, pregando con la Chiesa, accettando il dono delle sue parole, che mi diventano poco a poco familiari e ricche di senso. Il dialogo che Dio stabilisce con ciascuno di noi, e noi con Lui, nella preghiera include sempre un «con»; non si può pregare Dio in modo individualista. Nella preghiera liturgica, soprattutto l’Eucaristia, e - formati dalla liturgia - in ogni preghiera, non parliamo solo come singole persone, bensì entriamo nel «noi» della Chiesa che prega. E dobbiamo trasformare il nostro «io» entrando in questo «noi».
Vorrei richiamare un altro aspetto importante. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo: «Nella liturgia della Nuova Alleanza, ogni azione liturgica, specialmente la celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra Cristo e la Chiesa» (n. 1097); quindi è il «Cristo totale», tutta la Comunità, il Corpo di Cristo unito al suo Capo che celebra. La liturgia allora non è una specie di «auto-manifestazione» di una comunità, ma è invece l’uscire dal semplice «essere-se-stessi», essere chiusi in se stessi, e l’accedere al grande banchetto, l’entrare nella grande comunità vivente, nella quale Dio stesso ci nutre. La liturgia implica universalità e questo carattere universale deve entrare sempre di nuovo nella consapevolezza di tutti. La liturgia cristiana è il culto del tempio universale che è Cristo Risorto, le cui braccia sono distese sulla croce per attirare tutti nell’abbraccio dell’amore eterno di Dio. E’ il culto del cielo aperto. Non è mai solamente l’evento di una comunità singola, con una sua collocazione nel tempo e nello spazio. E’ importante che ogni cristiano si senta e sia realmente inserito in questo «noi» universale, che fornisce il fondamento e il rifugio all’«io», nel Corpo di Cristo che è la Chiesa.
In questo dobbiamo tenere presente e accettare la logica dell’incarnazione di Dio: Egli si è fatto vicino, presente, entrando nella storia e nella natura umana, facendosi uno di noi. E questa presenza continua nella Chiesa, suo Corpo. La liturgia allora non è il ricordo di eventi passati, ma è la presenza viva del Mistero Pasquale di Cristo che trascende e unisce i tempi e gli spazi. Se nella celebrazione non emerge la centralità di Cristo non avremo liturgia cristiana, totalmente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice. Dio agisce per mezzo di Cristo e noi non possiamo agire che per mezzo suo e in Lui. Ogni giorno deve crescere in noi la convinzione che la liturgia non è un nostro, un mio «fare», ma è azione di Dio in noi e con noi.
Quindi, non è il singolo - sacerdote o fedele - o il gruppo che celebra la liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. Questa universalità ed apertura fondamentale, che è propria di tutta la liturgia, è una delle ragioni per cui essa non può essere ideata o modificata dalla singola comunità o dagli esperti, ma deve essere fedele alle forme della Chiesa universale.
Anche nella liturgia della più piccola comunità è sempre presente la Chiesa intera. Per questo non esistono «stranieri» nella comunità liturgica. In ogni celebrazione liturgica partecipa assieme tutta la Chiesa, cielo e terra, Dio e gli uomini. La liturgia cristiana, anche se si celebra in un luogo e uno spazio concreto ed esprime il «sì» di una determinata comunità, è per sua natura cattolica, proviene dal tutto e conduce al tutto, in unità con il Papa, con i Vescovi, con i credenti di tutte le epoche e di tutti i luoghi. Quanto più una celebrazione è animata da questa coscienza, tanto più fruttuosamente in essa si realizza il senso autentico della liturgia.
Cari amici, la Chiesa si rende visibile in molti modi: nell’azione caritativa, nei progetti di missione, nell’apostolato personale che ogni cristiano deve realizzare nel proprio ambiente. Però il luogo in cui la si sperimenta pienamente come Chiesa è nella liturgia: essa è l’atto nel quale crediamo che Dio entra nella nostra realtà e noi lo possiamo incontrare, lo possiamo toccare. È l’atto nel quale entriamo in contatto con Dio: Egli viene a noi, e noi siamo illuminati da Lui. Per questo, quando nelle riflessioni sulla liturgia noi centriamo la nostra attenzione soltanto su come renderla attraente, interessante bella, rischiamo di dimenticare l’essenziale: la liturgia si celebra per Dio e non per noi stessi; è opera sua; è Lui il soggetto; e noi dobbiamo aprirci a Lui e lasciarci guidare da Lui e dal suo Corpo che è la Chiesa.
Chiediamo al Signore di imparare ogni giorno a vivere la sacra liturgia, specialmente la Celebrazione eucaristica, pregando nel «noi» della Chiesa, che dirige il suo sguardo non a se stessa, ma a Dio, e sentendoci parte della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Grazie.
da avvenire
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BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro Mercoledì, 24 ottobre 2012
L'Anno della fede. Che cosa è la fede?
Cari fratelli e sorelle,
mercoledì scorso, con l'inizio dell'Anno della fede, ho cominciato con una nuova serie di catechesi sulla fede. E oggi vorrei riflettere con voi su una questione fondamentale: che cosa è la fede? Ha ancora senso la fede in un mondo in cui scienza e tecnica hanno aperto orizzonti fino a poco tempo fa impensabili? Che cosa significa credere oggi? In effetti, nel nostro tempo è necessaria una rinnovata educazione alla fede, che comprenda certo una conoscenza delle sue verità e degli eventi della salvezza, ma che soprattutto nasca da un vero incontro con Dio in Gesù Cristo, dall’amarlo, dal dare fiducia a Lui, così che tutta la vita ne sia coinvolta.
Oggi, insieme a tanti segni di bene, cresce intorno a noi anche un certo deserto spirituale. A volte, si ha come la sensazione, da certi avvenimenti di cui abbiamo notizia tutti i giorni, che il mondo non vada verso la costruzione di una comunità più fraterna e più pacifica; le stesse idee di progresso e di benessere mostrano anche le loro ombre. Nonostante la grandezza delle scoperte della scienza e dei successi della tecnica, oggi l’uomo non sembra diventato veramente più libero, più umano; permangono tante forme di sfruttamento, di manipolazione, di violenza, di sopraffazione, di ingiustizia… Un certo tipo di cultura, poi, ha educato a muoversi solo nell’orizzonte delle cose, del fattibile, a credere solo in ciò che si vede e si tocca con le proprie mani. D’altra parte, però, cresce anche il numero di quanti si sentono disorientati e, nella ricerca di andare oltre una visione solo orizzontale della realtà, sono disponibili a credere a tutto e al suo contrario. In questo contesto riemergono alcune domande fondamentali, che sono molto più concrete di quanto appaiano a prima vista: che senso ha vivere? C’è un futuro per l’uomo, per noi e per le nuove generazioni? In che direzione orientare le scelte della nostra libertà per un esito buono e felice della vita? Che cosa ci aspetta oltre la soglia della morte?
Da queste insopprimibili domande emerge come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non basta. Noi abbiamo bisogno non solo del pane materiale, abbiamo bisogno di amore, di significato e di speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani. La fede ci dona proprio questo: è un fiducioso affidarsi a un «Tu», che è Dio, il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza. La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un «Tu» che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti: con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è fatto realmente vicino a ciascuno di noi. Anzi, Dio ha rivelato che il suo amore verso l’uomo, verso ciascuno di noi, è senza misura: sulla Croce, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, ci mostra nel modo più luminoso a che punto arriva questo amore, fino al dono di se stesso, fino al sacrificio totale. Con il mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, Dio scende fino in fondo nella nostra umanità per riportarla a Lui, per elevarla alla sua altezza. La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani.
Attorno a noi, però, vediamo ogni giorno che molti rimangono indifferenti o rifiutano di accogliere questo annuncio. Alla fine del Vangelo di Marco, oggi abbiamo parole dure del Risorto che dice : «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16), perde se stesso. Vorrei invitarvi a riflettere su questo. La fiducia nell’azione dello Spirito Santo, ci deve spingere sempre ad andare e predicare il Vangelo, alla coraggiosa testimonianza della fede; ma, oltre alla possibilità di una risposta positiva al dono della fede, vi è anche il rischio del rifiuto del Vangelo, della non accoglienza dell’incontro vitale con Cristo. Già sant’Agostino poneva questo problema in un suo commento alla parabola del seminatore: «Noi parliamo - diceva -, gettiamo il seme, spargiamo il seme. Ci sono quelli che disprezzano, quelli che rimproverano, quelli che irridono. Se noi temiamo costoro, non abbiamo più nulla da seminare e il giorno della mietitura resteremo senza raccolto. Perciò venga il seme della terra buona» (Discorsi sulla disciplina cristiana,13,14: PL 40, 677-678). Il rifiuto, dunque, non può scoraggiarci. Come cristiani siamo testimonianza di questo terreno fertile: la nostra fede, pur nei nostri limiti, mostra che esiste la terra buona, dove il seme della Parola di Dio produce frutti abbondanti di giustizia, di pace e di amore, di nuova umanità, di salvezza. E tutta la storia della Chiesa, con tutti i problemi, dimostra anche che esiste la terra buona, esiste il seme buono, e porta frutto.
Ma chiediamoci: da dove attinge l’uomo quell’apertura del cuore e della mente per credere nel Dio che si è reso visibile in Gesù Cristo morto e risorto, per accogliere la sua salvezza, così che Lui e il suo Vangelo siano la guida e la luce dell’esistenza? Risposta: noi possiamo credere in Dio perché Egli si avvicina a noi e ci tocca, perché lo Spirito Santo, dono del Risorto, ci rende capaci di accogliere il Dio vivente. La fede allora è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e sono necessari gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (Cost. dogm. Dei Verbum, 5). Alla base del nostro cammino di fede c’è il Battesimo, il sacramento che ci dona lo Spirito Santo, facendoci diventare figli di Dio in Cristo, e segna l’ingresso nella comunità della fede, nella Chiesa: non si crede da sé, senza il prevenire della grazia dello Spirito; e non si crede da soli, ma insieme ai fratelli. Dal Battesimo in poi ogni credente è chiamato a ri-vivere e fare propria questa confessione di fede, insieme ai fratelli.
La fede è dono di Dio, ma è anche atto profondamente libero e umano. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo dice con chiarezza: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo» (n. 154). Anzi, le implica e le esalta, in una scommessa di vita che è come un esodo, cioè un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze, dai propri schemi mentali, per affidarsi all’azione di Dio che ci indica la sua strada per conseguire la vera libertà, la nostra identità umana, la gioia vera del cuore, la pace con tutti. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno provvidenziale di Dio sulla storia, come fece il patriarca Abramo, come fece Maria di Nazaret. La fede allora è un assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro «sì» a Dio, confessando che Gesù è il Signore. E questo «sì» trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile.
Cari amici, il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che narra l’esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine. Grazie.
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