“Sembri una fata, moglie mia!”, disse l’uomo osservando la sua donna che stendeva i panni.
Il vento d’autunno smuoveva le fronde e alla sera già si accendeva la stufa, per poco, è vero, ma l’umidità filtrava all’interno.
I bambini, tornati da scuola, avevano terminato i compiti ed ora bighellonavano attorno alla mamma. La più grande delle bimbe l’aiutava porgendole le mollette mentre gli altri due osservavano i colori della biancheria lavata contro il cielo.
“Papà che cos’è questa storia della fata?”.
Era il maschio che chiedeva, come al solito e, come al solito, il padre si accinse a raccontare.
“Le fate, le fate…”, diceva.
“E allora le fate?”, insistevano i bambini ed anche la donna si arrestò per ascoltare.
Pensava che, a differenza di altre storie che il marito trasmetteva ai figli, questa, delle fate, potesse essere d’aiuto, potesse renderli meno discoli.
“Dovete sapere che anche il papà è stato giovane, prima di sposare mamma e della vostra nascita. Dovete anche sapere che, oltre alla nostra valle, altre ce ne sono, più a sud, dove succedono cose meravigliose. Non c’è il nostro Spirito del Bosco, il Neh, ma altre creature un po’ folli, gentili ed allegre”.
Il papà prese fiato, la mamma si asciugò le mani ed i bambini si accucciarono meglio.
La storia aveva l’aria di diventare interessante.
Teresina stava riponendo quaderni e matite.
Pareva una donnina ma era una ragazza ed anche lei ambiva a diventare una persona grande, magari con poteri di bellezza e dolcezza come si diceva le fate avessero in abbondanza.
Massimino, al contrario, stava attraversando la fase della timidezza nei riguardi di tutto ciò che sapeva di femminile. Non gli erano ancora spuntati i brufoli ma percepiva che nelle donne c’era un grande mistero. Però sarebbe cresciuto pure lui, come il papà, e magari avrebbe incontrato una fata per sentieri ed allora avrebbe dovuto trattarla da galantuomo, comme il faut.
L’uomo riprese a parlare.
“Dovete sapere”, riprese come faceva di solito quando narrava, “ che papà era, da giovane, un vagabondo. Aveva tanti amici, strani, che parevano folletti, girava per le valli e parlava con tutti. Lo conoscevano come Gioan d’la piuma, a causa delle penne che portava sul cappello”.
Era già entrato nel racconto.
Parlava di sé come fosse un’altra persona e, si capiva, stava rivelando segreti della sua vita. Il cappello ce l’aveva ancora e pure le penne stavano al loro posto ma non gli era più capitata l’occasione di porselo sulla testa. Ora i capelli erano grigi, forse lo avrebbero preso per un vagabondo, ma lui, in fondo, vagabondo lo era veramente, anche se, da quando aveva famiglia, si era mosso raramente. Si trasportava con la fantasia, con la mente, con il cuore, con le storie che raccontava ai piccoli. Viaggiava in sogno come, si narrava, facevano i ‘benandanti’, quelli che erano venuti al mondo con la placenta attorno e si diceva fossero ‘nati con la camicia’.
“Durante i suoi vagabondaggi gli capitò di arrivare in una Valle, percorsa da un fiume, il Varaita, che la gente del posto chiamava Val Varacho…Scoprì che vi abitava un amico, o forse più di uno…Gli amici, è noto, sono come i funghi, li trovi camminando…. Seppe che c’erano feste, balli… Il papà di allora sapeva anche danzare con gli scarponi ai piedi.
Gli ci volle poco per inserirsi nella cricca. Pastis, musicanti e ballerini…. una miscela che scaldava il cuore. Fu così che…”, s’interruppe il papà.
I bambini attendevano.
Sapevano che rientrava nelle abitudini del loro padre fare le pause teatrali per stuzzicare di più la curiosità.
“Fu così che il vostro papà scoprì l’esistenza delle fate.
Erano tre.
Erano le fate della Val Varacho”.
“Com’erano le fate, papà…facevano le magìe…volavano?”, chiesero insieme Carlotta e Massimino.
“Vi spiego.
All’inizio il papà osservava i ballerini. C’erano giovani e anziani. I primi saltavano come grilli, i secondi un po’ meno ma avevano stile. I balli in parte li conosciamo perché anche qui, da noi… Ad un certo punto il papà osservò che, tra i giovani, c’erano tre ragazze, tre fanciulle, come si diceva una volta, le quali erano circondate sempre da valligiani, con gli scarponi, il vestito bello ed un grande sorriso sulla faccia. Le ragazze portavano abiti di tutti colori, a strati, uno sull’altro, almeno tre a persona. Sembravano prati in fiore. Chiese, il papà, chi fossero e lì seppe che erano le fate…”.
“Perché erano fate, papà?”.
“Mi raccontarono che tempo prima era capitato nel loro paese un uomo, vecchio, con i capelli lunghi e bianchi ed anche con la barba che gli toccava il petto e pareva d’argento. Si chiamava come me, o quasi: Jouan le Blanc.
La gente si era incuriosita. Non si sapeva donde venisse e perché fosse giunto fin là.
Dopo poco, però, la diffidenza era sparita. Jouan le Blanc aveva un sorriso che avrebbe sciolto la neve delle cime. Fu così che lo invitarono all’osteria a bere un pastis e poi a pranzo a mangiare la polenta. Anche le ragazze con le gonne sovrapposte erano curiose. Poteva essere il loro nonno oppure un uomo antico, di quelli che vivevano ancora nelle storie. Fatto sta che Jouan le Blanc conobbe le tre fanciulle ed iniziò a raccontare loro di quanto fossero belle con i capelli sciolti, gli occhi ridenti e gli abiti color di primavera. Disse loro che gli ricordavano le fate, di quelle che ballano anche da noi su al Col delle Finestre. Le ragazze si sentirono attratte dal vecchio ed anche dall’idea di sembrare delle fate.
E se lo fossero state veramente?
Jouan sorrise e confermò.
Sì, sarebbero state le fate della Val Varacho, loro tre, fino a quando fosse scorso nelle vene il sangue dell’allegria, parola e giuramento di Jouan le Blanc.
Il vecchio scomparve il giorno dopo, finita la festa, ma le fate rimasero e ci sono ancora”.
“Papà, è tutto vero?”.
“Giuro!”.
“Saranno sempre fate?”.
“Questo è un problema. Tempo fa, e c’era anche mamma, una di queste fate è capitata dalle nostre parti con musicanti della Val Varacho. L’abbiamo incontrata e siccome anche il vostro papà incomincia ad invecchiare e ad assomigliare a Jouan le Blanc ha bisogno ogni tanto di far due salti, con la mia fata preferita, la vostra mamma.
C’era una delle tre. Sempre con le gonne sovrapposte ma con gli scarponcini perché nella Valle iniziava a far freddo. La fata era, come al solito, allegra e salterina. Anche papà ci ballò assieme mentre mamma lo faceva con un altro ballerino. Allora la fata spiegò che stava invecchiando, ma aveva sì e no una trentina d’anni. Disse che le sarebbero spuntati un porro sul naso ed uno peloso sul mento. Sarebbe diventata una masca. C’era un po’ di malinconìa nella sua voce…”.
“è così?”, chiese Massimino.
“Non lo so ma di certo le fate ci saranno ancora, a partire da mamma e poi con Carlotta e poi… e poi Teresina che ha già l’età per prepararsi…”.
I bambini stavano in silenzio, ora.
La mamma sorrideva, come per rimproverare il marito che le aveva fatto quei complimenti.
Gioan d’la piuma diede un bacio sulla guancia alla sposa.
Una nuvola passò.
Per un attimo.
Il sole riapparve e riscaldò la famiglia.
“Adess ‘l pasaròt a l’è volasne via,
‘d fam a cherperà, purtròp, lo sai,
ma voi l’eve pa vist ‘n pasaròt
ca l’abia mai butase ‘na cruvata ?”
(Ora il passero se n’è volato via –
morirà di fame
lo so
ma hai mai visto un passero in cravatta?)
Versi uditi, ricordati e riportati, in occasione del primo incontro con le fate.
Gianni Milano