L’aquilone non esiste più. Antenato, pure lui, lo si trova ancora come un oggetto da poesie, legato col filo ad un bambino che muore. E sempre tra quei versi si ritrova una collina verde e rosa e ancora l’aquilone ondeggia tra le nuvole, culetti di angioli che giocano con gli uccelli. Metafora della transizione, d’una infanzia che dura sempre poco, trascurata e non rispettata, ignorata nelle sue domande e nelle sue possibilità nascoste. Quel che importa è rivelare, scoprire, tirar fuori dal ventre della Terra. Lo sapevano gli Indiani, che, figlioli devoti, manco aravano, per timore di nuocere alla madre delle madri. Da noi è uno stupro, collettivo e continuato. L’aquilone non esiste più!
“Ma l’aquilone non è mica un’aquila grossa!”, sbuffa Fiorenzo che ama i dettagli.
“Forse è una specie di pallone volante…”, cerca di aiutarlo Sandra, che , essendo nata nell’età degli Sputnik e di Goldrake, non conosce il Pascoli e nemmeno i suoi rimpianti.
L’aquilone è un oggetto che varrebbe la pena rimpiangere perché, per farlo, ci vuole pazienza, carta velina, bastoncini leggeri, spago e, soprattutto, lo spazio per farlo volare. Per correre noi, per correre il vento, per correre, e farlo alzare, l’aquilone. Lo spazio è diventato denaro e per poter correre e volare ci vuole un miracolo. Il denaro mangia lo spazio, innalza a sé stesso monumenti e si copre le vergogne con piccole, tisiche aiuole, che non si possono calpestare.
L’aquilone potrebbe essere una pubblicità. Sopra, in alto, mentre sorvola le terre degli umani, sarebbe bello scriverci, in lettere grandi, PRRR… La mediterranea pernacchia benedirebbe gli operosi commercianti che entrano in Banca, i cantonieri che asfaltano i guasti sulle strade, Pippo, il cagnolino della bidella, Lucifero, il gatto paffuto e morbido di Rosa, la scuola, che reagirebbe indignata, facendo spallucce col comignolo.
“L’aquilone potrebbe far parte del clan Canassero, con il canarino, il passero e l’uccello preistorico”, propone Pinuccio. Aria, aria, aria. Desiderio di volare, d’incontrare avventure. L’aula, al contrario, è pesante e concreta. Se non si produce ti rimproverano. I prati, oggi, e le dalie che bordeggiano le ville, sono coperti di brina. Questa notte, fuori, il termometro ha segnato meno due. Se si vuole uscire in bicicletta occorre farlo in tempo. Poi diverrà duro il pedalare e i genitori mugugneranno. La strada è conosciuta. Dopo il pioppeto, girare a sinistra, passare di fianco al pino con il morbillo, sempre in fila indiana, fiancheggiare la cascina in cui abita Aldo, con i suoi fratelli, le galline ed il maiale, e poi entrare nei boschetti. Prestare attenzione quando si costeggia la fabbrica con le presse, attraversare le aie che ospitano le oche e la cappella del santo ‘scucito’, di cui si ignora il nome ma impressiona poiché stende sulle braccia la sua pelle, e poi, seguendo la puzza, si arriva a destinazione. Il fiume scorre vicino e mostra i diversi colori dell’inquinamento, il quale trasforma l’acqua in pittura velenosa, come se un folletto dispettoso ci avesse pulito dentro le sue porcherie. Ma il folletto non c’entra: non qui, almeno. Le sue terre stanno più a nord, oltre i campi di mais, oltre il cimitero. Questa è terra di nessuno: terra di morte. Di qui è passato un ciclone rabbioso, frettoloso, avido. Lo stesso che turbina dove si uccide, sui campi di sterminio, sulle risaie del Vietnam, sui ghetti dei profughi, su questi luoghi, dove, anche se ci fosse, l’aquilone non avrebbe il coraggio di volare.
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Non cerca le stelle l’uomo con la barba mal rasata e un uncino che pare una chela. Qui non ci sono aule, corridoi, quaderni. Qui ci sono piante, sozzure a mucchi, acqua viscidamente colorata, come un lumacone schiacciato, muscoli delle gambe doloranti, dopo il percorso in bicicletta, cielo, fiume e…l’uomo con l’uncino. L’individuo suscita curiosità. è pure lui, a suo modo, un archeologo: del rifiutato, del gettato via. Anche lui ha un territorio, con i suoi tesori. E li sa valutare con un colpo d’occhio. Per i bambini che sono qui, oggi, la logica della TV che ti invita ad acquistare l’ultimo prodotto che ‘costa di più ma lo vale’, non regge. Per loro le immondezze sono una montagna di curiosità, l’altra faccia della luna. Le forme si sfaldano, si ricompongono in insiemi di colori. Decine di oggetti, tabù per i bambini, stanno lì a portata di mano, ridimensionati, ammaccati, bitorzoluti, vissuti, e più umani. Stanno in esposizione come bambole disarticolate, come i cadaveri di Mauthausen, come una pittura esposta alla pioggia. Solo il rapido movimento di un topone ridà loro, per un attimo, un fremito di vita, ma poi tutto ritorna massa inerte, da pianeta abbandonato sotto un sole smorto. Mentre l’uomo con l’uncino ricava dal mucchio la sua quota di vita, che cosa avranno percepito i bambini? Il cimitero degli oggetti, lo spurgo d’una società ricca e sprecona, urta con l’immagine frescolina e briosa del fiume libresco. Nemmeno corrisponde a ciò che i maestri ‘moderni’, legati a doppio filo con la scuola, che li succhia come un vampiro, spiegano ai loro ragazzi, con le ricerche d’ambiente, con dosi massicce di scienza. Così, un’eventuale escursione nel mondo reale è pagata con studi e controstudi, scritti e controscritti, quasi un obolo all’istituzione, quasi chiedendo scusa d’essersi permessi di dare un’occhiatina. La realtà, per tanti, è un vizio da guardoni. La si spia, dal buco della serratura, nell’inquadratura d’una finestra.
Pepy propone di individuare un posto che abbia un senso.
“Qui c’è puzzo, i topi e qualche malattia, di certo”, si lamenta.
“Questo fiume va a finire nel Po?”, chiede Sandra.
“E il Po non va a finire in mare?”, continua Daniele. “Il mare non sta tra l’Italia e l’Africa dove ci abita l’antenato dei Leofanti?”, conclude Gianfranco. Doveva essere una semplice passeggiata, prima che la neve complichi le uscite, ma i bambini hanno preso in mano la faccenda, la loro storia. Raggiungere il papà antico significa ricongiungersi con sé stessi, non aver più bisogno d’essere violenti, aggressivi. Pacificati, e non più soli, si può guardare al mondo in modo nuovo. Se il fiumino va nel fiumone e questo nel mare ed il mare tocca l’Africa…
“E dopo una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane, alla fine il naviglio navigò ò ò…”, intona Agnese e la banda la segue, perché ognuno è ognuno ma unito agli altri, come un pugno. Paiono i fratelli di Pollicino. Gli adulti li hanno abbandonati alla scuola e, vigliacchi, hanno sentenziato essere bene che i bambini stiano tra di loro, dimenticando, però, di aggiungere che così se li tolgono dai piedi. La solitudine dei bambini è pari a quella di eventuali extra-terrestri capitati per caso qui, accanto al fiume sozzo ed alle colline di rifiuti. Fin che rimangono tra di loro, bambini e alieni, sono una forza ma quando cercano di stabilire un dialogo, allora diventano un disturbo. Chi intona il canto si sottrae all’immobilismo, all’ipnosi della spazzatura, al pus industriale che contamina le piante. Si ritorna in sella. L’unica cosa certa è che questo fiume va a finire in Po ed il Po va a finire in mare. Magra consolazione. Traballando sulle biciclette, bambini e maestro, solidali, pedalano, emettendo nuvolette di fiato. Non incidono, con le biro, innocenti pagine di quaderno, ma lasciano orme di pneumatici sul sentiero lungo il fiume, astronauti alla ricerca del territorio perduto, dove ci sia un posto anche per loro e per tutti coloro che vogliono vivere. Li lega alla più grande tribù, come un tubo per l’ossigeno, la sacca di tela con dentro le briciole del panino già divorato, il mastice da gomma, i tondini adesivi per eventuali fori nelle ruote. La cucitura stretta delle sacche è opera delle mamme che, sotto forma di evocazione affettuosa, possono partecipare all’avventura dei bimbi, mentre brucia il pentolino con il latte od inciampano nel gatto che dorme. La fila procede, tra squilli, inutili, di campanelli. Non c’è nessuno, per via. Le lepri sono scomparse, complici i cacciatori. Tutt’al più si possono incontrare le galline ‘oche’, come le definiscono, a scuola, le maestre burbere.
“Le ho io le oche ed anche la maiala che ha fatto i piccoli!”, urla Aldo. Anche lui, finalmente, è importante. Anche lui ha qualcosa che vale: i maialini rosatelli! Salveranno il mondo: i maialini rosatelli che piacciono ai bambini, i quali vorrebbero portarseli a casa, prenderli in braccio ma la scrofa non è d’accordo… La mamma di Aldo offre bicchieri di aranciata. Mentre tutti bevono, dalla cappelletta votiva, a lato della casa di Aldo, san Giuseppe, col bastone fiorito, sembra voler dire qualcosa. A lui, il figlio l’hanno ammazzato. Che non succeda con questi, di figli! Che non ci sia più bisogno di veli neri sulla testa delle donne, di lapidi ai partigiani! San Giuseppe, però, con tutta la sua disponibilità, non protegge le mani dai geloni, e a star fermi e senza guanti va a finire che qualcuno comincia a lamentarsi che il freddo morde le dita. L’aria è frizzante. I contadini non hanno costruito, e fatto dipingere, la cappella per proteggersi dalle basse temperature ma per combattere le paure che, tenendosi per mano, come in un macabro girotondo, quando l’inverno si approssima, calano come cornacchie sui campi e sulle case isolate. Il nonno raccontava che le ‘masche’ non avvertono nessuno, fanno morire i vitelli e a nulla serve che il prete faccia la ‘fisica’ ed agisca, a distanza, sugli oggetti. San Giuseppe non preserva dai geloni ma sta lì, come un piccolo totem. Grassottello e basso, con una veste verde ed un mantello marrone, fissa i passanti con occhi rotondi e buoni. Potrebbe anche lui far parte della banda e pedalare in bici! Dalla casa di Aldo alla scuola c’è una diritta strada sterrata, coi sassolini che schizzano da ogni parte. Le bambine gridano, incerte se aver paura o ridere, mentre un cane, alla catena, abbaia. “Stupido”, gli rinfaccia il maestro ed i bambini sanno che è come lo spaventapasseri che difende il mais del padrone, stupido come i corvi, dipinti in prima, che hanno paura dello spaventapasseri, stupido come un servo che non spezzi la catena. Se il cane fosse libero, agiterebbe la coda, verrebbe dietro alle bici e l’ingresso a scuola sarebbe trionfale. Il maestro con il berretto di lana rossa, i bambini, san Giuseppe che pedala incerto e il cane liberato, che salta a destra e a sinistra!
Attraversato lo stradone, uno dietro l’altro, ecco il pino con il morbillo, al quale occorre fare un saluto. Gli hanno mozzato la sommità ma adesso sembra star bene. Dopo l’albero convalescente, vicino al campo dove i fusti di mais ammassati paiono cappelli di briganti d’una volta, la strada è più stretta, corre tra le prime abitazioni. La mamma di Andrea grida dal balcone: ”Andrea, ricordati di prendere il latte…”. Si incrociano i fratelli minori, che razzolano nel pioppeto, sfruttando una piccola buca nel terreno, ed infine, rallentando, frenando con i piedi, si entra, dal cancelletto, nel cortile della scuola. Lo squillo del campanello che annuncia la fine delle lezioni ed il dolce sciogliersi delle responsabilità. Il ritorno a casa pare un galleggiamento.
GIANNI MILANO
(da “L’alfabeto e i giorni”) - 1977