Sotto le macerie della conclusione repentina della legislatura finisce, tra le altre, anche la legge sulle Dat, ovvero le "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento". Legge arenata a un passo dal voto definitivo nell’aula del Senato. Dopo quattro anni e mezzo di lavori, dozzine di sedute che hanno impegnato varie Commissioni parlamentari, e poi audizioni, atti, proposte, emendamenti discussi e votati, tutto si dissolve sui titoli di coda di un Parlamento che in questo disegno di legge ha profuso una quantità di energie che ha pochi precedenti.
Il dibattito, dentro e fuori il Palazzo, è stato aperto e serrato, l’esame di ogni tema, ogni articolo, ogni singolo comma non ha omesso alcun argomento favorevole o contrario, per tacere di convegni, libri, confronti sui media, editoriali e cronache (Avvenire, come i lettori ben sanno, ha contribuito non poco). Sul disegno di legge hanno avuto modo di argomentare e pronunciarsi deputati e senatori, medici, giuristi e scienziati, associazioni e malati, famiglie, accademici, volontari. La legge ha incassato due approvazioni a larga e trasversale maggioranza da entrambi i rami del Parlamento. Merito di una parte significativa della classe politica, capace di reagire al primo caso di eutanasia ottenuta col beneplacito dello Stato (la tragica morte procurata di Eluana Englaro) con uno slancio che ha dovuto però scontare i tatticismi di una stagione politica a tal punto caotica da far perdere il progetto di legge nel labirinto di veti strumentali, alleanze mutevoli, dilazioni premeditate, e una costante ostilità del clima mediatico prevalente. Né ha sortito un concreto effetto l’appello lanciato a luglio e, poi, a settembre per serrare i tempi e salvare la legge sulle Dat dalle secche di fine legislatura.
Non siamo tanto ingenui da credere che sia mancato solo il colpo di reni dell’ultimo metro, ha piuttosto agito la scelta di adottare l’illusoria neutralità valoriale che minaccia di svuotare le riserve etiche degli italiani: ognuno faccia come crede, e lo Stato si disinteressi. Dentro la stanza degli specchi in cui la legge sul "fine vita" si è persa abbiamo capito molto chiaramente cosa c’è oggi in gioco, e con quali teorie della "scelta" bisogna fare i conti. è infatti decisivo capire in che Italia vogliamo vivere: un Paese che ritiene la vita umana meritevole di essere strenuamente difesa come bene assoluto, oppure indifferente al suo destino condiviso, pronto a lasciarla alla deriva, in balìa di volontà subitanee e malinconie e presunzioni, un "oggetto biologico disponibile". Quella sulle Dat sembrava soltanto una legge, mentre era anzitutto una scelta di civiltà. La liquidazione di una norma così accuratamente meditata e calibrata, e invece irresponsabilmente gettata al vento, è uno spreco imbarazzante di un limpido percorso democratico al quale c’è chi non ha concesso la possibilità di compiersi, per negligenza, calcolo, viltà, o semplice ostinazione ideologica. Non si può tacere davanti a questo spettacolo, così come non si può dimenticare chi si è battuto per un’intera legislatura perché all’eutanasia mascherata da autotederminazione fosse opposto il bastione di una legge seria e umana.
Che libertà è quella di farsi dare, e persino di costringere a dare, la morte? Dicono che non hanno voluto la legge sulle Dat nel nome dei "diritti civili". Sì, ma quali diritti? Il diritto è per un bene dell’uomo, mai per spegnerne la vita: e una società che lascia dire e fare ai teorici del suicidio assistito cede campo senza accorgersene al nichilismo antiumano che erode le coscienze e rende tutti più fragili di fronte a una crisi che sta aggredendo alle fondamenta la dignità, la speranza, l’elementare umanità che ci accomuna. Parlano di "diritto mite". Ma le forze politiche, culturali e persino le alte cariche istituzionali che sapendosi in minoranza hanno fatto di tutto per sottrarre la legge sul "fine vita" al libero voto del Parlamento sono le stesse che, in decine di Comuni italiani, dove sono maggioranza stanno invece imponendo di forza registri per la raccolta dei testamenti biologici di più che dubbia legittimità e di opaca eticità, orientati come sono ad accogliere ogni sorta di volontà sulle scelte individuali relative alla propria morte. La si chiama «libertà di scelta»: ma quando l’oggetto della scelta sono la vita e la morte bisogna sapersi fermare. Prima che a finire rottamata sia la persona umana.