Può sembrare incredibile, ma i momenti belli durante il servizio in ospedale sono tanti. Talvolta si è aspettati e questo fatto ogni volta sorprende e fa enormemente piacere. Ci si sente utili, partecipi alla sofferenza e all’ansia di chi sta lì, e la conseguente sollecitazione all’inventiva per infondere coraggio fa bene anche al nostro animo; in tal modo ci adeguiamo alla persona che abbiamo di fronte e questo ci allena perfino a meglio osservare coloro che incontriamo fuori dall’ospedale.
Ognuno ha la sua storia, spesso con un comune denominatore: la sorpresa di trovarsi lì. Sovente i pazienti descrivono la propria famiglia, il lavoro, quasi per rimuovere il pensiero della malattia. Alcuni entrano per la prima volta in un ospedale e, increduli, dicono “Ho lavorato tutta la vita, mai avuto bisogno di un medico, invece qui mi vogliono tenere, non so il perché”. Poi li rivedi la settimana dopo, e torni a rivederli, sempre più stanchi e dubbiosi, con un unico desiderio: tornare a casa.
Si incontrano vicini di casa, gente del proprio quartiere, compagni di gite domenicali, genitori di compagni di scuola che, al vederti, si sentono un po’ rassicurati, come se noi fossimo taumaturghi in grado di guarire tutti i mali. Magari!
E poi ci sono persone che hanno dimenticato il proprio nome e il nome di chi gli è più caro. Molti anziani invocano la mamma e parlano di lei come se fosse fuori dalla camera, pronta a entrare con una carezza e un dolcetto; alla carezza pensiamo noi.
Che piacere invece quando si incontra per strada un paziente guarito! Subito non lo si riconosce perché fresco di parrucchiere e senza il pigiama, ci abbraccia, si commuove. Allora si rivede quel malato con il pigiama, i capelli arruffati e con tanta
paura, e di nuovo uno sente la vicinanza e la gioia della condivisione.
Un vero guaio è quando il malato straniero non conosce la nostra lingua e noi non conosciamo la sua; un po’ ci aiutiamo con le mani ma in modo generalmente insufficiente. C’è però sempre un vicino di letto solidale che viene in soccorso poi, con grandi sorrisi, ci congediamo facendogli capire, sempre con i gesti che torneremo più tardi.
Qualche anno fa, a un malato dalla pelle un po’ scura chiesi, dopo averlo salutato in arabo se avesse bisogno di qualche cosa; mi rispose in inglese che non aveva capito: era pakistano. Che vergogna, l’avevo scambiato per un nordafricano. Il pakistano mi disse di non avere né moglie né figli e chiese il mio numero di telefono. Mentre dicevo che la nostra è una Associazione di volontariato, provvidenzialmente entrò un medico, così lo salutai e uscii, convinta di avere fatto una conquista, ma venni a sapere che chiedeva l’indirizzo a tutte le volontarie!
Qualche mese fa, un malato mi regalò un portachiavi con una bella cassa da morto. Si trattava di un impresario di pompe funebri che, in questa maniera, voleva ringraziare per il nostro servizio.
Tanti anni di volontariato mi hanno regalato una maggiore capacità di riflessione, la possibilità di partecipare e condividere le vicende di molti malati, e di meglio comprendere anche chi sta fuori dall’ospedale. Tutto questo mi ha arricchita e, pur con la partecipazione a tanto dolore, mi ha dato molta gioia.