Susanna e i due vecchi satiri
Questa storia, un po’ boccaccesca e che dimostra come certa mentalità sia molto antica e per nulla ancora superata, si ritrova nella Bibbia, esattamente nell’Antico Testamento, nel Libro del profeta Daniele [2]. Il Libro di Daniele viene ambientato a cavallo tra gli Imperi neo-babilonese e quello Persiano, tra il VII ed il VI secolo avanti Cristo. La parte che qui interessa viene considerata apocrifa, ovvero non originale e non rivelata da Dio, ma aggiunta nella versione greca. Questo è interessante perché si collega al terzo esempio, tutto greco che farò, ovvero quello di Elena. La storia della casta Susanna e dei tre vecchi satiri voyeurs viene narrata al capitolo 13, versetti 1- 64.
Chi era Susanna? Una giovane donna, molto bella, moglie di Ioakim, e già madre. I due vivevano a Babilonia durante l’esilio. La disgrazia di questa splendida signora era di avere come vicini e confinanti due vecchi, già eletti giudici dal popolo e quindi in possesso di una certa autorità, ma piuttosto guardoni, i quali dalle loro case potevano vedere che, col caldo, la bella Susanna faceva il bagno, ovviamente nuda, nel suo giardino, aiutata da due ancelle. Guarda oggi, guarda domani, i due cominciarono a sentire il risveglio dei loro ormoni ed umori già ossidati ed alquanto arrugginiti, e cominciarono a meditare come tradurre tanta grazia dalla pura contemplazione estetica all’azione sensuale e corporea. Un giorno finsero in riunione di doversi allontanare, ma poi si ritrovarono vicini nell’atto di una più concreta progettazione. Trovandosi insieme, e convinti che l’unione faccesse la forza, e soprattutto che avrebbero potuto consolidare il loro potere attraverso la reciproca autorevolezza di giudici, passarono all’azione. I due dunque, decisero di nascondersi nel giardino di Susanna, approfittando della temporanea assenza delle ancelle, e così colsero la giovane donna nuda ed in una situazione assai imbarazzante. I due vecchi, con fare mellifluo e ricattatorio (tipico degli Inquisitori di sempre) la esortarono a cedere alle loro voglie, minacciandola in caso contrario di denunciarla per averla colta in flagrante adulterio con un giovane fuggito in loro presenza. L’accusa, per una giovane Ebrea, era estremamente grave. Dice infatti il Comandamento, che vale per tutti, uomini e donne “Non commettere adulterio” e il Deuteronomio specifica (cap. 22, v. 32): “Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che ha peccato e la donna. Così toglierai il male da Israele”.[3]
Più avanti si sostiene che, in caso di rapporto sessuale prematrimoniale, se consenziente, tanto l’uomo che la giovane, se fidanzata, devono essere lapidati; ma se la fanciulla è stata violentata e ha cercato di difendersi gridando vanamente in cerca di aiuto, doveva morire solo il violentatore. Relativamente alla testimonianza probatoria (Cap. 17, v. 6) era ordinato: “Colui che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o tre testimoni [sottinteso oculari]; non potrà essere messo a morte sulla deposizione di un solo testimonio”. Flavio Giuseppe, nelle sue “Antichità Giudaiche” dice addirittura che i testimoni dovevano essere tre o almeno due [4], e concordanti sullo stesso fatto e circostanze. Il che dovrebbe valere anche oggi, e nondimeno vediamo che ancora non si è capito quanto sia importante la presenza di più testimoni oculari, per poter avere valore probatorio in un qualche reato e, a maggior ragione, delitto di sangue. La procedura contro Susanna ha dunque carattere accusatorio, non inquisitorio, come si vedrà tra poco: non vi è alcun magistrato destinato alle indagini. Secondo Giuseppe Flavio, invece, nel caso di morte violenta con autore ignoto, si creavano degli inquirenti con funzione di indagine. Se tuttavia, nel caso che nessuno risultasse responsabile, si sacrificava una povera mucca innocentissima ad espiazione del delitto umano (una pratica che non è del tutto abbandonata, ma applicata a persone). Far pagare agli animali i vizi degli uomini era, nella mentalità antica una corretta punizione per l’intera società, in quanto - non va dimenticato - bovini, ovini e cavalli, erano fonti di vita e strumenti di lavoro, anche se forse gli animali non se ne sarebbero certo sentiti confortati.
La giovane, infatti, benché terrorizzata dalla prospettiva di dover sostenere un infamante accusa, rigetta il ricatto dei due sordidi vecchiacci e affronta il processo sostenuta moralmente dalla famiglia e dai suoi servitori, che ne conoscevano l’onestà.
“Il giorno dopo, tutto il popolo si adunò nella casa di Ioakim, suo marito, e andarono là anche i due anziani piene di perverse intenzioni per condannare a morte Susanna… mandarono a chiamarla, ed essa venne con i genitori, i figli e tutti i suoi parenti. Susanna era assai delicata d’aspetto e molto bella di forma; aveva il velo e quei perversi ordinarono che le fosse tolto per godere almeno così della sua bellezza. Tutti i suoi familiari ed amici piangevano…” (Cap. 13, vv. 28 - 33).
I due vecchi sudicioni (non certo per il loro naturale desiderio verso una bella donna, ma per l’intenzione di prenderla col ricatto, per poi vendicarsene al rifiuto) formulano dunque pubblicamente l’accusa, sostenendo che, mentre essi passeggiavano nel giardino, Susanna aveva allontanato le ancelle e aveva fatto arrivare clandestinamente un giovane, il quale era poi riuscito a fuggire quando i due avrebbero gridato al peccato. Essi dunque si presentano come gli accusatori ed insieme i testimoni del fatto; il che per il Diritto moderno sarebbe una scorrettezza, ma nel rito accusatorio originale ciò era ammissibile: si accusava e si testimoniava sulla verità del fatto, senza altre prove. Susanna non potè difendersi altro che con una sorta di giuramento pubblico davanti a Dio e al popolo:
“Dio eterno, che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, tu lo sai che hanno deposto il falso contro di me. Io muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me. E il Signore ascoltò la sua voce”.
Ormai Susanna era condannata, perché vi erano due persone contro una, la quale non aveva testimoni a discarico, essendo lei sola in quel momento. Daniele che allora era ancora giovanetto, ispirato da Dio, gridò di essere innocente del sangue della donna e rimproverò la gente lì attorno per una condanna affrettata, senza aver eseguito un’accurata indagine, secondo i dettami del tempo. Allora, i presenti invitarono Daniele a dimostrare che quei due sostenevano il falso; e il giovanetto profeta, sempre su ispirazione di Do, li interrogò separatamente, con un procedimento che diremmo molto moderno, al fine di cogliere le contraddizioni fra i due. Vi è dunque, nel procedimento accusatorio, il fondamento dialettico di confronto tra fatti, circostanze e dettagli che, nel primo momento, erano stati trascurati solo sulla base di una parvenza di accordo tra i due testimoni. Preso il primo e accusatolo di una carriera poco corretta in tutta la sua vita giudiziaria [5], gli chiede davanti al popolo: “Sotto quale pianta del gardino Susanna peccava col suo amante?”. Il primo vecchio risponde “Un lentisco”. Chiamato poi il secondo ed interpellatolo in modo non meno rude e, diremmo, intimidatorio, ripete la domanda, alla quale il secondo risponde: “Sotto un leccio”. Ecco: il processo si risolve con l’assoluzione di Susanna e la condanna dei due biechi giudici, perché il “locus commissi delicti” non era lo stesso per i due calunniatori. Delle due l’una, direbbero i nostri avvocati: o Susanna ha peccato sotto il lentisco, oppure ha peccato sotto il leccio; non può nello stesso momento aver peccato con lo stesso giovane sotto due piante diverse. In tal modo, con razionalità e determinazione, il giovane profeta salva Susanna (altro che i moderni avvocati!!) dall’infamante condanna a morte e viceversa fa pagare ai due sozzoni la pena capitale prevista per i calunniatori di adulterio, ovvero la lapidazione.
La storia di Susanna dimostra come non si debba mai giudicare