Oggi la vita dell’uomo è quanto mai dominata dalle passioni, anche per un concetto errato di libertà, che spinge molti, specialmente i giovani, ad uno sfogo incontrollato dei propri impulsi e dei propri pensieri, spesso per mettersi in mostra e godere di qualche attimo di notorietà. Dovunque è un continuo scatenarsi di passioni, di cui l’ira è la più frequente, come testimoniano le manifestazioni di piazza, gli atti di vandalismo, gli omicidi, gl’insulti e le aggressioni verbali che la televisione ci propina quotidianamente, anche nei programmi di informazione e di approfondimento.
Ebbene, la ragione, che dovrebbe presiedere al controllo delle passioni, diserta la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e persino il Parlamento e le aule di Giustizia, dove spesso i giudici mostrano di non possedere quell’equilibrio a cui si richiama la bilancia con cui la Giustizia viene appunto rappresentata.
Le passioni sono state considerate delle vere e proprie “malattie”: Aristotele le definisce “alterazioni dell’anima” capaci di coinvolgere anche il corpo, Cicerone “turbamenti dell’animo in contrasto con la ragione”, Cartesio distingue fra “passioni dell’anima”, che spingono ad agire secondo ragione, e “passioni del corpo”, che se lasciate libere portano all’anarchia e alla distruzione: sei passioni “semplici e primitive” (ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza) che dànno luogo a trentaquattro passioni più particolari.
Per Spinoza la contrapposizione non è tra passioni e ragione, ma fra passività e attività, per Rousseau le passioni non appartengono alla natura originaria dell’uomo ma derivano da errate forme di socializzazione, per Kant sono “cancri generalmente inguaribili”, per i romantici forze naturali incontrollabili e dotate di energia irresistibile, mentre Hegel le considera una determinazione unilaterale della volontà in base ad un’unica inclinazione.
L’immagine più efficace e suggestiva delle passioni la dà Platone nel Fedro, laddove dice che l’anima è come una biga condotta da due cavalli alati, uno bianco, che ne rappresenta l’aspetto irascibile e tende verso l’alto, uno nero, che ne rappresenta l’aspetto concupiscibile e tende verso il basso.
L’auriga, simbolo della ragione, frena e modera le due tendenze contrastanti, imponendo ai cavalli un equilibrio.
La psicanalisi ha dato al problema delle passioni una impostazione del tutto nuova, attribuendo all’Eros platonico la facoltà di agire anche sul piano scientifico, se è vero che l’Eros è desiderio di conoscenza e che questa è alimentata dalla passione.
La quale dunque c’insegna cose che la ragione da sola non potrebbe insegnarci: la ragione, infatti, è la legislatrice e l’ordinatrice di quel grande, ricco e complesso serbatoio di sentimenti e d’impulsi senza i quali essa non potrebbe edificare niente.
Le passioni sono al tempo stesso la forza e la debolezza dell’uomo: per uno scatto d’ira si può morire, per un eccesso di amore si può impazzire.
Le passioni ci dànno anche una percezione della realtà che se non è illusoria è certamente diversa da come la vede chi ha raggiunto l’imperturbabilità.
Ma le passioni, di per se stesse, non sono né buone né cattive, è sul piano della morale che esse assumono una connotazione positiva o negativa: bisogna dunque indirizzarle verso un fine giusto, tenendosi nel mezzo, cioè fra i due errori opposti, l’eccesso e il difetto.
Così, ad esempio, quando diciamo che uno fa una cosa con passione diamo appunto a quell’impulso una connotazione positiva.
E spesso non difendiamo la ragione stessa con tutta la forza della passione?
E quando ci adiriamo perché le necessità materiali del vivere quotidiano e i malanni del corpo c’impediscono di soddisfare pienamente o come vorremmo i bisogni dello spirito?
Non ci adiriamo, infatti, soltanto contro gli altri, molte volte ce la prendiamo con noi stessi, e a ragione.
Cos’è l’eroico furore di Bruno, che brucia il furore delle passioni e l’intero mondo sensibile realizzando il divino in un sentimento puro, in una passione celeste?
Cos’è il folle amore di Jacopone, il “pazzo di Dio”, se non l’accendersi di una passione incontenibile, di un fuoco che tende a distruggere tutto ciò che è materiale?
Cos’è il cupio dissolvi di Agostino, l’estasi suprema dei mistici indiani che nell’improvviso e potente risveglio di Kundalini (l’energia che nella forma di un serpente raggomitolato dorme alla base della colonna vertebrale) bruciano il proprio corpo riducendolo in cenere in un fiat?
Insomma, del nostro ricco e complesso mondo interiore nulla è da buttare, perché, nel male come nel bene, tutto serve, non fosse altro che alla conoscenza. Se l’animo umano è un “guazzabuglio”, il nostro compito è quello appunto di mettervi ordine, non di eliminarne i contenuti, raggiungendo quell’equilibrio, quell’armonia, che, come dice Dante, fa l’universo simile a Dio.
Un’armonia, la quale in tanto è possibile, in tanto esiste in quanto esistono elementi diversi e contrapposti: “Diverse voci fan giù dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote”.
Le passioni sono come le note musicali: ognuna di esse ha la sua importanza e la sua funzione, e tutte insieme tendono ad uno scopo comune, l’armonia.
Le passioni, in sostanza, sono all’origine del mondo, quali forze, fisiche o energetiche, che producono i fenomeni atmosferici, i terremoti, le eruzioni vulcaniche (per gli antichi quando scoppiava un temporale era Giove che si arrabbiava e mandava fulmini e tuoni).
Ebbene, l’uomo riproduce al suo interno lo stesso processo, dando a quelle forze il nome di passioni, e in base ai loro effetti le giudica positive o negative, come i vizi e le virtù (i sette vizi capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria, e le sette virtù fondamentali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, fede, speranza e carità).
Il collante di tutte queste forze, che se abbandonate a se stesse produrrebbero il caos, è l’amore, la forza-passione più forte di tutte, che è armonia ed equilibrio.
Ciò che dobbiamo fare, dunque, è “resettare” il nostro mondo interiore, recuperando, insieme al senso dell’unione e dell’unità con l’universo e con Dio, quell’equilibrio e quell’armonia che governano il mondo, di cui l’uomo è l’espressione più alta.
Parafrasando la celebre frase di Sant’Agostino (“Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas”), possiamo dire: “Non andare a cercare fuori i rimedi ai tuoi mali, rientra in te stesso: è lì la chiave del tuo benessere, fisico e psicologico”.
Seneca nel De tranquillitate animi, attraverso il destinatario del dialogo (ma in sostanza parla di se stesso), offre un’immagine quanto mai drammatica e attuale dell’uomo, sempre in un amletico ondeggiare fra due poli, in bilico fra l’azione e la contemplazione, fra la negazione razionale e l’affermazione passionale della sua sopravvivenza dopo la morte, fra il pessimismo e l’ottimismo, fra la speranza e lo sconforto.
Ecco cosa scrive nel primo capitolo:
“Esplorando l’animo mio vi ho trovato molti difetti, alcuni talmente evidenti da potersi, per così dire, toccare con mano, altri invece rintanati come in un nascondiglio, altri ancora saltuari, riemergenti a tratti, ad intervalli, e che sono forse i più molesti di tutti, simili a nemici sparpagliati qua e là che ti assalgono all’improvviso, quando gliene viene l’estro, per cui tu vivi sempre in uno stato ambiguo, che non è di guerra ma nemmeno di pace, ed io mi sono scoperto appunto in un’analoga condizione, quella, cioè, di non essere né completamente libero dai miei rancori e dalle mie paure, né di trovarmi in loro balìa, sicché, pur riconoscendo che la mia situazione non è delle peggiori, avverto un senso di malessere quanto mai sgradevole, che mi rende lunatico e lagnoso: insomma, non sono malato, ma non sto neppure bene. Non so di che genere sia questo strano malessere dell’animo, oscillante fra due estremi, la salvezza e la perdizione. Io amo la vita semplice, mi accontento di un letto modesto, di un vestito modesto, di un cibo cucinato alla buona, che non abbia niente di ricercato o di eccezionale, amo essere servito senza tante cerimonie da un domestico semplice e naturale, mi piace una tavola che serva solo allo scopo a cui è destinata. Ebbene, dopo che ho apprezzato tutte queste cose semplici e modeste, ecco che resto affascinato da una sfarzosa schiera di paggetti o di servi ornati d’oro, da una casa con pavimenti pregiati, piena di ricche suppellettili disseminate in tutti gli angoli, da soffitti meravigliosi e dalla folla di gente che sempre segue e s’accompagna in mezzo a tutto quel diluviante sperpero di denaro. Il cuore allora mi si stringe in un tormento segreto e mi s’insinua il dubbio se non sia meglio vivere nel lusso che nella sobrietà. Quando poi, non abituato a scontrarmi con le cose e con le persone, ricevo qualche spintone, mi capita un fatto sconveniente o che contrasta col mio temperamento, che mi va storto o che non scorre liscio come vorrei, allora pianto tutto e corro a ritirarmi nella mia quiete privata, affrettando il passo come gli animali che tornano stanchi all’ovile. E nuovamente mi compiaccio, come se fosse la cosa migliore, di consumare la vita fra le pareti domestiche, sì che nessuno mi rubi anche una sola giornata. Ma appena una bella lettura mi titilla l’animo e piena com’è di nobilissimi esempi mi sprona ad imitarli, allora ecco, di nuovo, mi vien voglia di lanciarmi nel foro, di rintuzzare al cospetto di tutti la tracotanza di coloro che il successo ha reso ancora più insolenti. Per farla breve, in tutte le cose mi accompagna questa debolezza di buoni propositi, sì che temo di allontanarmene sempre di più, o, peggio ancora, ho il terrore di non riuscire a decidermi né per un verso né per l’altro, ma di restarmene in bilico, come uno che sia sempre lì lì per cadere e tuttavia non cade, e che il mio male sia ancora più grave di quanto penso”.
Ed ecco un brano, sempre di Seneca, tolto dal De ira:
“Per capire che uno preso dall’ira è uscito di senno basta guardarlo, poiché presenta gli stessi e indubitabili sintomi della follia: come il pazzo ha un’espressione insolente e minacciosa, la fronte accigliata, lo sguardo torvo, il passo nervoso, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro affannoso e frequente, così l’adirato ha gli occhi accesi e fiammeggianti, il viso arrossato per via del sangue che sale e ribolle fin dai precordi, le labbra tremanti, i denti serrati, ispidi e dritti i capelli, il respiro faticoso e stridente, le articolazioni contorte e scricchiolanti, la voce spezzata e confusa mista di gemiti e brontolii, frequenti colpi delle mani, un pestar la terra coi piedi, mentre dal corpo tutto eccitato “schizzano grandi e minacciosi segnali”: turpe e orrendo è l’aspetto di un uomo sfigurato dall’ira. Tu non puoi sapere se questo vizio sia più detestabile o più vergognoso: gli altri si possono nascondere e coltivare in segreto, l’ira, invece, si mostra, prorompe sul viso, e quanto più è grande tanto più palesemente avvampa. Guarda gli animali: prima di assalire la preda mandano dei cenni, il corpo perde il consueto atteggiamento tranquillo, la loro bestialità tocca le punte più alte. I cinghiali schiumano dalla bocca e aguzzano i denti affilandoli, i tori dànno cornate nel vuoto e con lo zoccolo raspano e spargono la sabbia, i leoni fremono, i serpenti, irritati, gonfiano il collo, le cagne, rabbiose, assumono un aspetto malvagio: non c’è insomma animale, fra quelli terribili e pericolosi, che quando è in preda all’ira non manifesti un ulteriore aumento di ferocia. So bene che anche le altre passioni si fa fatica a tenerle nascoste, che la libidine, la paura, l’audacia hanno anch’esse i loro sintomi e si possono prevedere: non c’è infatti emozione, quando sia viva ed intensa, che non alteri i lineamenti del volto. Qual è allora la differenza? Le altre passioni si vedono, l’ira risalta”.
Prof. Mario Scaffidi Abbate