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De: solidea (Mensaje original) |
Enviado: 04/09/2011 08:14 |
Santa Rosalia Sinibaldi (Palermo, 1128 – Palermo, 4 settembre 1165) è venerata come santa vergine dalla Chiesa cattolica.
Secondo la tradizione, appartenne alla nobile famiglia dei Sinibaldi del XII secolo. Secondo la tradizione cattolica, nel 1624 salvò Palermo dalla peste e ne divenne la patrona, spodestando santa Cristina, santa Oliva, santa Ninfa e sant'Agata. Mentre infuriava una terribile epidemia arrivata in città da alcune navi provenienti da Tunisi (antica "Barbaria"), la santa apparve infatti in sogno ad un cacciatore (abitante dell'antico quartiere della "Panneria") indicandogli dove avrebbe potuto trovare i suoi resti in una spelonca del Monte Pellegrino, che portati in processione in città fermarono l'epidemia. Il culto della santa è tuttavia attestato da documenti (Codice di Costanza d'Altavilla depositato presso la Biblioteca Regionale di Palermo . Essendo infatti la Santa palermitana la sua memoria nel 1600 lasciava qualche residuo nelle litanie (si narra infatti che durante una delle processioni che invocavano i vari santi per liberare la città dal contagio, due diaconi pronunciassero il nome di Santa Rosalia contemporaneamente, segno che fece riaffiorare l'interesse in città per il suo culto "sopito"). La riscoperta del suo corpo glorioso sul Monte Pellegrino incastonato in un involucro di roccia cristallina ne sancì il definitivo e popolare patrocinio, ratificato a Roma sotto il pontificato di Urbano VIII Barberini. Il culto è particolarmente vivo a Palermo, dove ogni anno, il 14 e il 15 luglio, si ripete il tradizionale "Festino" che culmina nello spettacolo pirotecnico del 14 notte e dalla processione in suo onore del 15. Il 4 settembre invece la tradizionale acchianata ("salita" in lingua siciliana) a Monte Pellegrino conduce i devoti al Santuario in circa un'ora di scalata a piedi..
« Io Rosalia di Sinibaldo, figlia del Signore della Quisquina e del Monte delle Rose, per amore del mio Signore Gesù Cristo, ho deciso di abitare in questa grotta »
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De: Lelina |
Enviado: 04/09/2011 19:06 |
A Palermo , sin dal 1625 ogni anno festeggia la sua Padrona ovvero Santa Rosalia,un’importante festa popolare nota come il “festino” poiché esso è considerato “a granni festa”, la grande festa, si svolge per cinque giorni, dal 10 al 15 luglio, e rappresenta il momento più alto dell’espressione popolare delle tradizioni e del folklore palermitano.
“A Santuzza miraculusa” è riferita a quell’anno maledetto, il 1624, in cui la morte nera falciava la popolazione di Palermo. Nessun rimedio umano era giovato ad arrestare il morbo, e le quattro Sante cui in quel periodo era ufficialmente affidata la protezione della città (Agata, Cristina, Oliva e Ninfa) non riuscivano a contenere il malefico male, né tantomeno i Santi Sebastiano e Rocco, ritenuti specialisti in guarigioni da peste bubbonica.
La leggenda vuole che di Rosalia non si conoscesse nulla, tranne la sua origine, poiché essa visse in onore di santità, sfuggendo alla vita agiata della corte di Re Ruggero. Figlia di Sinibaldo di Quisquina e morta in data incerta in una grotta del Montepellegrino, successivamente trasformata in santuario, apparve ad un cacciatore, tale Vincenzo Bonello, diversi secoli dopo, gli indicò il luogo in cui giacevano le sue spoglie e gli disse di riferire all’Arcivescovo di Palermo di mettere insieme le sacre reliquie in un sacco e di portarle in processione per le strade della città.
L’Arcivescovo Giannettino Doria, il 15 luglio del 1624, insieme a tutto il clero e con la partecipazione del Senato e di alcuni cittadini eletti, portò le reliquie in processione, e avvenne che, al loro passaggio, il male regredisse. Palermo in breve fu liberata dalla peste e, in segno di riconoscenza per tanto beneficio, il Senato palermitano si votò alla nuova Santa e decretò che in suo onore, ogni anno, i giorni della liberazione fossero ricordati come il trionfo della Santa, nel frattempo divenuta protettrice della città.
L’anno successivo, il 1625, per ricordare il ritrovamento dei resti mortali della vergine eremita, questi furono riposti all’interno di uno scrigno, costruito per l’occasione da alcuni maestri argentieri e vetrai, con l’interno rivestito di velluto di color rosso gentile. Le spoglie, così adornate, furono trasferite dal Palazzo Arcivescovile alla cattedrale, percorrendo alcune strade del centro tra il gran tripudio popolare che, con il passare degli anni, fece sì che la festa diventasse sempre più solenne.
( IL CARRO DI SANTA ROSALIA) (lA GROTTA DI SANTA ROSALIA AL SANTUARIO)
Strumento fondamentale per la rappresentazione del trionfo è il carro, introdotto per la prima volta nel 1686, come ci riferisce il Villabianca,preceduto da quattro piccoli carri detti “macchinette”.Celebre la “muntagnedda d’oru” che porta l’immagine della Santuzza, dalle candide vesti, dal capo coronato di roselline, dal volto raggiante di bellezza. Le origini di tale manifestazione popolare sono riferibili all’antico trionfo romano, sorto per conferire la ricompensa più onorevole ad un supremo condottiero che avesse riportato una grande vittoria. Il riferimento è chiaro: La "Santuzza” si era prodigata tanto per la sua città e, a dimostrazione della gran venerazione, doveva essere considerata una regina ed essere portata in trionfo.
Si progettò quindi una macchina scenica, nella quale l’arte barocca primeggiava, simulando un vascello, canone iconografico con cui si trasmise il morbo oscuro, decorato con pitture raffiguranti gli episodi della vita della Santa, con puttini e figure metaforiche. Esso trasportava musici e cantori ed era trainato da quaranta muli riccamente bardati, sostituiti da buoi negli anni successivi. Dopo il 1822, al centro del carro troneggiava una sorta di torre elegantemente decorata e, sul punto più alto di essa primeggiava l’effige statuaria della Santa; il tutto riccamente colorato in oro.
Nonostante gli anni che sono passati,la festa continua con la stessa devozione e uguale infervoramento anche nei nostri anni dichiaratamente più moderni.Si sparano mortaretti sin dal primo mattino con le cosiddette alborate e le campane delle tante chiese del centro suonano a festa, i rintocchi della campana senatoriale del palazzo pretorio proclamano il nuovo giorno festivo.
Davanti alle varie edicole votive, dedicate a Santa Rosalia, disseminate nei numerosi vicoli del centro, si recitano testi e canti della tradizione popolare, un omaggio in onore della Santa: “u triunfu“. Un amalgamino formato da contrabbasso, violino e mandolino accompagna i ponderati versi d’esaltazione.
(LA VOTIVA DI SANTA ROSALIA )
Anticamente questa particolare attività era praticata da una categoria di cantastorie e musicisti che venivano considerati veri e propri professionisti,. Essi erano per lo più “Orbi“, cioè ciechi, nati o divenuti tali, che sin da fanciulli venivano istruiti a suonare e cantare, per potere poi, da adulti, svolgere un’attività che procurasse loro un sostentamento.
Il fronte del foro italico funge da proscenio, gremìto da tanta gente che canta, balla, mangia e ride e che viene senza accorgersi sospinta in quel luogo per assistere ai tradizionali “botti”, fantasmagorici fuochi d’artificio, che si concludono con la fatidica “masculiata” dopo la quale è facile udire tra la gente un mormorìo: “finieru i picciuli!”, per affermare che con quello spettacolo è finita la festa. I giochi pirotecnici impegnavano ogni anno in un’appassionante gara le ditte concorrenti Napoli e Calamìa. Una sfida all’ultimo colpo, è il caso di dire! “U’ jocu di focu” i fuochi d’artificio, le magiche girandole, le improvvise fioriture di razzi, capaci di disegnare nel cielo nero della notte il volto di Rosalia, pensoso e afflitto nel vedere questa città travagliata.
(I GIOCHI PIROTECNICI DI SANTA ROSALIA)
Diversi giorni prima si approntano al foro italico le numerose bancarelle, legate al più grossolano piacere del cibo e dei dolciumi in particolare. Anche in quest’espressione è presente la gioia che i palermitani manifestano per gratificare e onorare la Santuzza.
Si consumano quintali di calia e simienza (ceci abbrustoliti e semi di zucca salati). Vediamo u’ siminzaro, cioè il rivenditore, la sua coloratissima bancarella apparata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, orifiamma, frange, cartoncini, festoni di carta d’ogni colore e stagnola luccicante, e ovunque, immancabilmente, troneggia l’effige della Santa nelle diverse immagini. Scompartite e ammucchiate sono esposte: ceci, simienza con le sue varianti: con sale e senza o poco, come la preferiscono i clienti, noccioline americane (arachidi), nocciole tostate, pistacchi, castagne secche (cruzzitieddi), carrube secche, favi atturrati (fave tostate) e i lupini tenuti a bagno nell’acqua salata in un recipiente di rame (quarara).
Immancabile il deschetto dello sfincionaro, che con abilità taglia grosse parti di sfincione (focaccia di pasta molliccia lievitata, con salsa di pomodoro e cipolla a fette, pan grattato, cacio cavallo a pezzettini e acciughe salate) dalla teglia appena riscaldata, aggiungendo olio e origano; lo sfincionello variante di dimensione più piccola è messo in vista a pile e venduto a chi ne fa richiesta.
IL BANCONE DI CALIA E SIMENZA) ( U' SFINCIUNI) (LE PANELLE)
Il loro pezzo forte è il tradizionale “gelato di campagna”, sorta di torrone tenero, fatto di zucchero, pistacchi e coloranti, che ammicca dai ripiani delle bancarelle con i colori del tricolore italiano. Nonostante il passare degli anni, resiste alla tradizione e si presenta come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana.
Il panellaro, oltre a preparare i classici panini con le panelle (con o senza crocché), si è adattato al presente, offrendo gustose pagnottelle con salsiccia di maiale arrostita alla brace, mozzarella e pomodoro e cartocci con wurstel impiastricciati da salse, accompagnati da un buon fresco bicchiere di vino o birra.
Continuo e ritmato è il gesto di colui il quale vende il pane “ ca’ meusa”. Dal recipiente di rame dove cuoce milza e polmone spezzettati in strutto (saimi) con la forchetta distende su una pagnotta appositamente preparata, le parti di milza coprendole di scannaruzzato e fettine di polmone, strizzando poi la pagnottella e accompagnandola con una manciata di formaggio (caciocavallo) o ricotta, la celebre “schetta” o “maritata”.
Per il palermitano doc, non è Festino se gli vengono a mancare i “babbaluci e u’ muluni”. Il naso all’insù verso il cielo, seduto comodamente su una seggiola, mentre guarda i botti, gusta quasi infastidito i babbaluci (lumache) e non ha importanza se sono conditi con aglio soffritto e spolverate con il prezzemolo o “a’ picchi pacchi” (salsetta di cipolla e pomodoro fresco e ar omatizzare da pepe nero), l’importante che non manchino, comprati nella bancarella occasionale allestita per l’evento oppure portati da casa. La porzione tipo è il “piattino”: quanti di questi…. i palermitani possano far fuori nella notte del festino non si sa ma è sicuro che ne saranno consumate a tonnellate.
(LA MEUSA) (PANINO CA MEUSA) ( I BABBALUCI)
La postazione di “muluna” (anguria) è riconoscibile dalla “montagna” d’angurie accatastate che, a richiesta del cliente, vengono palpate dalla parte del deretano per verificarne la maturazione. Poi vengono tagliate a grosse fette e di traverso in modo da ottenere parti allungate: Nel mangiarle la caratteristica è
(CHIOSCO CHI MILUNA) ( U'MILUNE)
di: “manci, vivi e ti lavi a facci”, un unicum per questo tipo dì frutto.
In quest’elenco non possiamo trascurare il gelato, una delle principali glorie dolciarie del palermitano e della Sicilia, presente in una gran varietà di tipi e di sapori. Dal semplice cono gelato, ai gelati imbottiti, ai gelati a pezzo consumati nelle varie gelaterie disseminate al foro italico tra cui l’antica gelateria Ilardo. Fra le essenze più tipiche troviamo il gelato di gelsomino, di scorzonera e cannella, il gelato di fichi d’india e l’ottimo caffè con la panna.
(U'GELATO DI CAMPAGNA) (GELATO AL GELSOMINO) (CAFFE' CON PANNA)
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