Attraverso i campi, per la foresta e nelle valli corse subito la voce: "Domani ci sarà la grande assemblea. Domani nessuno deve mancare"
Da un albero all'altro, di ramo in ramo, di nido in nido, volavano gli uccelli a trasmettere la notizia. Dovevano riunirsi per trattare un affare molto importante… Il problema incominciò quando il colibrì, guardandosi le piume, sospirò: "Come sarebbe bello avere le piume del colore dei fiori!… " Tutto ciò accadde, naturalmente, molto ma molto tempo fa, nessuno sa quando, perché ancora non c'era un solo uomo sulla terra; quando ciò accadde gli uccelli avevano tutti lo stesso colore: il colore della terra. Invece i fiori!… Che colori vivaci avevano!… rosso, giallo, azzurro… Colori così diversi e lucenti che gli uccelli se n'erano innamorati. Per questo, quando il colibrì disse: "Che bello se io avessi le piume del colore dei fiori", tutti gli altri uccelli cominciarono a pensare: "Se io fossi rosso…" "Se io fossi azzurro…" "Se io fossi giallo…" "Io vorrei avere tutti i colori…" "Io rosso, azzurro e giallo. " "Io, verde. " "Come sarebbe bello! " Ci fu un tale pigolio e cinguettio di voci confuse che non si capì più niente. La civetta allora disse tre volte: "Cist! Cist! Cist!" Tutti zittirono. "Faremo una riunione" disse strizzando un occhio "e decideremo il da farsi. Domani, tutti qua" continuò strizzando l'altro occhio. Il giorno dopo tutti gli uccelli giunsero al bosco. Il pappagallo, il fringuello, la cutrettola e il canarino. Il cardinale, l'arara, l'usignolo e la monachella. Il picchio, la cocorita e l'uccello mosca col pettirosso e l'uccello muratore e il merlo e il tordo. Poi molti, molti ancora. C'erano tutti, nessuno mancava. Si diffuse subito un tale cicaleccio che non si capiva più nulla. Come avrebbero fatto a dipingere le loro piume? Dove trovare i colori? Alcuni dicevano una cosa, altri un'altra. Quand'ebbero espresso la loro opinione la civetta allora disse tre volte: "Cist! Cist! Cist!" e tutti zittirono. "Abbiamo deciso che la cosa migliore è metterci in viaggio verso il cielo per chiedere al dio Inti, il Sole, la grazia che dipinga le nostre piume come dipinse i fiori" disse socchiudendo tutti e due gli occhi. La proposta fu approvata da tutti: era senz'altro la decisione migliore. Come mai non ci avevano pensato prima?
Sprizzavano di gioia sognando già gli splendidi colori, e cominciarono a prepararsi per il viaggio. Sarebbe stato un viaggio difficile, molto lungo… è così lontano il cielo! All'alba, prestissimo, partirono tutti. O meglio, tutti no. Alcuni rimasero perché il loro colore della terra non era poi tanto brutto, e a qualcuno piaceva. Anche il colibrì rimase: piccolo com'è, non poteva volare così in alto. "Non importa" disse "andate voi, io resterò qui a giocare coi fiori perché non si sentano tristi per la vostra lontananza." E così spiccarono il volo; e volarono, e volarono, volarono sempre più in alto fino a stancarsi le ali. Ma continuavano lo stesso a volare, senza fermarsi mai. Fu allora che il dio Inti, sbirciando da dietro una nuvola, li vide salire affannosamente per giungere a lui. Impietosito pensò: "Poveri uccellini! Il loro desiderio è giusto e molto bello. Ma non potranno mai giungere fino a me. Non ne avranno la forza e il mio calore li ucciderà." Allora la dea Mammaquilla, la Luna, gli sussurrò: "Perché non li aiuti, potente Inti?" "Lo farò" rispose il Sole.
Riunì alcune nuvole sparse e diede loro l'ordine di piovere. La pioggia cominciò. Gli uccelli, spaventati, si lamentavano della triste sorte. "Adesso, cosa facciamo? " "Siamo così stanchi!… " "La terra è già lontana! " "E il cielo è più lontano ancora…" Ma Inti, in quel momento comandò che la pioggia cessasse e, aprendo un focherello tra le nubi, mandò qualcuno dei suoi raggi. Fu come un prodigio. Ciò che allora videro gli uccelli era così bello che stentarono a crederci. Un grande arco attraversava il cielo: un arco di sette colori che incominciava qui, percorreva il cielo con una curva perfetta e terminava là, dall'altra parte. Sì, quello era più bello di tutti i colori dei fiori. Quello era il colore del cielo! Gli uccelli impazzivano di gioia: volavano di qua e di là inzuppandosi dei colori dell'arcobaleno come in un bagno di magia, alcuni si vestivano d'azzurro, altri di rosso, altri di giallo; altri ancora passavano dal rosso all'azzurro, dal giallo all'arancione o dal verde al viola. Uno solo, quasi ubriaco, attraversò tutti i sette colori; per questo ancora oggi si chiama sette"colori. C'era chi intingeva il corpicino in un colore e il capo nell'altro; chi si spruzzava solo alcune piume di qua, altre di là… Non s'era mai vista una cosa simile. E il dio Inti sorrideva, sorrideva.
Al ritorno la gazzarra fu generale: cantarono e ballarono sette giorni in onore del dio Sole e della dea Luna. Tutti fecero festa; anche i passeri e gli altri uccelli rimasti del colore della terra. E il colibrì? Anche il colibrì. Perché i fiori, riconoscenti della sua compagnia, gli avevano regalato un poco del loro colore. Per questo ha colori così delicati, sfumati e cangianti; ma è tanto piccolo e mobile che noi appena possiamo notarli. Come dicevamo la festa durò sette giorni, cioè fino a quando la civetta, per tre volte, sentenziò: "Cist! Cist! Cist!" E strizzando prima un occhio e poi subito l'altro disse: "è già ora di andare a dormire."
Una mattina di primavera un'ape operaia andava girovagando da un fiore all'altro in cerca di polline. All'improvviso, uscendo da una corolla, cascò nella rete di un ragno. Nascosta dietro una foglia, il piccolo ragno si rallegrò ed accorse.
- Sei un traditore! - gli gridò l'ape. - Tendi le tue trappole per uccidere chi lavora! -
Il ragno si avvicinò ancora di più, e l'ape, voltandosi, cercò di colpirlo sfoderando dall'addome il lungo pungiglione.
Ma il ragno si scansò in tempo e le saltò addosso.
- Ape, con che diritto osi giudicarmi? - le rispose tenendola stretta. - Tu sei come la frode: hai il miele in bocca e di dietro il veleno. -
Nott, figlia del gigante Narfi, era una donna bellissima, scura di pelle e con i capelli corvini. Molti la volevano come moglie e lei ebbe tre mariti. L’ultimo marito fu Dellingr, sicuramente appartenente alla stirpe degli dei, e con lui ebbe Dagr, “Giorno”. Il bimbo prese dal padre la bellezza, i capelli biondi e la carnagione bianca. Gli dei diedero alla madre scura e al figlio biondo dei cavalli perché si rincorressero attorno alla terra. Il cavallo di Nott si chiamava “Criniera di brina” ed è la sua bava mentre morde il morso,a produrre la rugiada che la mattina bagna la terra.
Tanti anni fa, in un paese al confine tra le regioni dell’Arborea e del Sinis, viveva un brav’uomo di nome Antonio che aveva una piccola bottega. Una mattina, mentre si avviava al negozio per l’apertura, trovò un cadavere di fronte all’ingresso. Preso da grande spavento, e nel timore che i carabinieri potessero accusarlo di omicidio, scappò via dal paese senza neppure avvertire i suoi familiari della disgrazia.
S’incamminò in direzione di Nuoro e, giunto a metà strada, decise di fermarsi in un paesino di montagna per ricominciare daccapo. Dopo alcuni giorni gli offrirono un lavoro da servitore in una grande azienda agricola. Il padrone di quei terreni era da tutti chiamato Salomone, perché la gente del posto gli riconosceva grandi doti di equilibrio e saggezza.
Trascorsi vent’anni al servizio del padrone, Antonio decise che era giunto il momento di tornare a casa dai suoi e chiese a Salomone quanto gli spettava per i suoi servigi, visto che in tutto quel tempo non aveva mai preteso soldi: soltanto vitto e alloggio. Salomone ritenne legittima la richiesta e gli diede 300 denari. Ma Antonio, ricordando la saggezza del padrone, gli chiese: “Quanto vuoi per darmi un buon consiglio?”. “Cento denari”, rispose Salomone. Antonio accettò, e il padrone gli disse: “Non lasciare mai la strada vecchia per la nuova”.
Ad Antonio parve troppo poco, e pagò altri 100 denari per ricevere un secondo consiglio. “Non immischiarti mai nei fatti altrui”, disse il suo padrone. Stava per andare via, quando decise di investire in un’altra perla di saggezza i residui 100 denari. Salomone gli disse: “La rabbia e le preoccupazioni dell’oggi, lasciale al domani”. Antonio si sentì appagato. Abbracciò Salomone ma questo, prima di congedarlo, gli diede un grosso pane e gli disse di mangiarlo soltanto una volta seduto a tavola con i suoi familiari. “Non toccarlo prima di allora, per nessun motivo”, gli raccomandò calorosamente. Poi Antonio partì verso casa: non vedeva l’ora di riabbracciare i suoi cari, dopo tanti anni di lontananza.
A metà strada incontrò una comitiva che si recava ad un matrimonio su una tracca (carro a buoi addobbato a festa). Gli dissero di montare sul carro, per fare un po’ di strada insieme, ma Antonio si ricordò le parole di Salomone: “Non lasciare mai la strada vecchia per la nuova”. Così ringraziò e declinò l’invito.
Percorsi pochi chilometri, udì degli spari poco lontano. E poi delle urla. Preso da grande spavento, attese un po’. Poi, fatte poche centinaia di metri, trovò in mezzo alla strada il carro della comitiva: erano stati tutti ammazzati da briganti di passaggio, forse a scopo di rapina. Antonio si ricordò del suggerimento di Salomone e tirò un sospiro di sollievo.
Riprese il cammino verso casa e, al calar delle tenebre, si fermò in un casolare per chiedere ospitalità. Gli aprì un vecchio pastore, che gli offrì da mangiare. Finita la cena, il padrone di casa aprì una porticina e, dalla stanza buia, si udirono i lamenti di un uomo molto anziano, magrissimo e senza occhi, che chiedeva da mangiare. Il pastore gli porse sgarbatamente una ciotola con un po’ di minestra, poi richiuse la porta. Antonio rimase allibito ma non chiese spiegazioni, ricordandosi del secondo suggerimento di Salomone.
Il vecchio pastore rimase sorpreso dall’atteggiamento dell’ospite, il quale gli spiegò: “Ciò che accade in questa casa non sono affari miei”. “Bravo, dici bene – disse il pastore – Devi sapere che quell’uomo era il mio migliore amico e un giorno mi tradì, facendomi arrestare dai carabinieri dopo una rapina. Quando uscii di prigione, tornai a casa e non trovai più la mia famiglia: erano tutti morti di stenti. Così acciuffai il mio ex amico, gli cavai gli occhi e lo rinchiusi in quella stanza, dove resterà sino al giorno della sua morte. Se tu avessi fatto qualche domanda, ti avrei ammazzato come ho fatto con altri viandanti di passaggio”. Antonio tremò di paura, poi andò a dormire.
Poco prima dell’alba, fuggì da quella casa: per la seconda volta in poche ore, i suggerimenti di Salomone si erano rivelati preziosi. Finalmente giunse alla sua vecchia casa vicino a Oristano. Ma, una volta arrivato a pochi passi dal cancello, vide luci e addobbi e udì musica e un vociare festaiolo. Poi vide la moglie, vestita a festa, allegra e attorniata da tanti bei ragazzi. Antonio si ingelosì, l’ira gli fece passare brutti pensieri per la testa. Ma si ricordò del terzo consiglio di Salomone, così decise di chiedere ospitalità ai suoi vicini almeno per la notte.
Gli aprì una donna, che lo riconobbe subito e gli spiegò i motivi di tanta gioia in casa sua: gli indicò uno dei ragazzi che stava a fianco alla madre e gli disse che era il suo figlio maggiore, il quale era appena diventato padre. Antonio ci rimase un po’ male, si vergognava di aver avuto cattivi pensieri. Ringraziò la vicina e corse a casa, dove la moglie e i suoi cari furono sorpresi di rivederlo dopo tanti anni, ma felici di riabbracciarlo.
Fu festa grande, per il doppio evento. Andati via gli invitati, Antonio convocò i suoi familiari a tavola, prese il pane di Salomone e lo spezzò: dentro ci trovò 300 denari. Una lacrima di commozione gli scese sul viso, ricordando i tre consigli del vecchio e saggio padrone. Versò del vino a tutti i commensali e brindò alla salute di Salomone: i suoi suggerimenti gli sarebbero serviti per i restanti anni della sua vita.
Era un gran signore tanto ricco che li qutrini je daveno in testa. E llui, per ammazzà' er tempo, se divertiva come poteva, facènno scherzi, bburle e ddispetti a cchi je capitava. L'aveva speciarmente co' queli poveri disgraziati de li ggiudii.
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Dice che quanno prese moje, la prima notte de lo sposalizio, siccome forse la moje se sarà vvergognata, se n'agnede a lletto co' la camicia, la polacca, insomma, come dicheno le signore, fece la toletta da notte. Er Marchese der Grillo, vedenno quela funzione, fece: "Aspetta!" E ppuro lui s'agnede a vvestì' e dde ppiù sse messe li stivali, li speroni, er frustino, e vvestito accusì sse n'agnede a lletto.
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V'ho ggià ddetto ch'er Marchese der Grillo aveva preso de mira li ggiudii. Defatti come je passaveno a ttiro sotto le finestre der su' palazzo, lui pijava e je tirava sur cocciòlòne la prima cosa che je capitava in mano. Sassi, tavole, mattoni e orinalate de tutte sorte de grazziededdio. Queli poveracci se lamentonno tanto, infinenta ch'er Cacàmme de Ghetto agnede a ricramà' ar Guverno. Er papa allora mannò subbito a cchiama er Marchese der Grillo, che ffussi schizzo-fatto ito su a ppalazzo. Lui ciagnéde; nun negò de tiené' sur naso li ggiudii, e nnemmanco de li dispetti che je faceva. E allora er papa, lo pregò che li lassasse perde una bbôna vorta e nu' li molestasse, quanno passaveno de sotto ar su' palazzo, cor tiraje tutte quelle porcherie che je tirava. Er Marchese promise ar papa da ubbidillo in tutto e pper tutto. Però pprima d'annassene fece ar papa: "Santità, vojo una grazia." "Sentimo" "Siccome quanno vedo li ggiudii nun me posso propio trattené' de nun faje quarche ccosa, me permetti armeno, V. S. de' tiraje un frutto." Er papa, arzanno le spalle, fece: "Vadi per un frutto" e je diede la santa bbenedizione. E er Marchese, fedele a la promessa fatta ar papa, a 'gni ggiudio che je capitava a cciccio je tirava un frutto. Ma le lagnanze se feceno ppiù fforte; e er papa se trovò ccostretto de rimannà' a cchiama er Marchese. "Ma insomma, Marchese, nu' la volemo finì'co' l'accoppà' queli poveri cani arinnegati de li ggiudii?" "Eppuro, Santità, nun faccio antro che 'seguì' ll'ordine de la S. V.. Ppiù che un frutto pe' vvorta nu' je tiro." "Ma io nun v'ho mmica detto de tiraje le pigne." "Eppuro è un frutto come un antro" Er papa se mozzicò e' llabbro pe' nu' ride, e lo mannò a quer paese; intanto co' quer matto, era tutto tempo perso e ffiato bbuttato.
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Una vorta er Marchese der Grillo prese un bigónzo lo empì dde piastre d'oro e sse n'agnede a ppiazza de la Ritónna. Arivato llì sse fermò vvicino a ll'antri vennitori de frutti, e dda casa pazzaja com'era, se messe a strillà: "A ddu' sordi un marengo d'oro, a ddu' sordi un marengo!" Piano, piano, tutti je s'incominciorno a affollà attorno e a ddì': "Ma cche sse sarà ammattito?" "Ma cchi ssarà?" "Ma ssaranno d'oro bbôno?" E llui seguitava a strillà': "A ddu' sòrdi un marengo d'oro! a ddu' sòrdi?" E ttutti s'affollaveno intorno a ccomprà'; quanto sur mejo se fa strada tra la folla un burino, e ddice ar Marchese: "Me ne dènghi dua pe' ddu' bbaòcchi e mmezzo?" E er Marchese tutt'arabbiato je fece: "Va a ffa' bbene a li somari! Nun giova manco de venne li marenghi pe' du' sordi l'uno, vonno puro e' ribbasso!" E ner di' accusì se caricò ssu le spalle er bigonzo e taroccànno taroccànno, se n'aritornò ar su' palazzo, che sarebbe quello che incora sta ssu a la salita der Grillo.
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Una vorta, invitò ddu' ggiudii a ccena; li fece magnà' bbene, bbeve mejo e ddrento ar da magnà', sur fine de la cena, je ce fece mette la scialappa. Poi, siccome se faceva notte, e queli du' poveracci fra er da magnà' e er da bbeve nun s'areggeveno in piedi, er Marchese je fece: "E' inutile mó che vve ne ritornate a ccasa; qui cciò ttante cammere spicce; arimanete puro senza comrimenti." Queli dua l'aringrazionno de tanto incommido che sse' pijava, e agnedeno appresso ar servitore che j'insegnò la stanzia da letto. Se spojonno, smorzonno è' llume, e sse messeno a sloffe. Er Marchese, ch'aveva tutto carcolato, fece co' le corde tirà ssu li letti indove dormiveno queli du' disgraziati, quasi infinenta su ar solaro. Ecchete che ssur mejo der sonno, a uno de quelli poveracci, je fece affetto la scialappa. Se svéja co' ccerti dolori che llèvete cérca la colonnetta pe' ttrovà' li prosperi e la cannela, e nun trova ni l'una ni ll'antri. "Che robbi è questa?!" E nun potènnone ppiù da li gran dolori, zzompa da lletto e ttùnfete fa un sarto mortale ch'a mmomenti ciaresta. Se mette a urlà' ccom'un addannato; a li strilli sui, se sveja er su' paranza, puro lui co' li dolor de panza. "Chi robbi è questa?!" E zzompa da' lletto puro lui per annà' a soccorre er su' compagno, e a mmomenti se roppe la noce der collo. A li strilli de queli du' disgrazziati, s'opreno le porte e apparischeno li servitori co' li lumi accesi e fra de loro quer matto der Marchese. "Cos'è stato? Che sono questi urli? Sete matti, a svejà' a quest'ora chi vv'ha ddato ricetto, bbrutti somari?!" Li ggiudii, nun sapéveno ppiù cche ddì'; la cammera stava tutt'a ll'ordine; li letti staveno vicino a le su' colonnette, (che lloro però a ttastóni nun aveveno trovate). Aveveno dormito a occhi uperti o ss'ereno insognati? Er fatto sta pperò cche ll'ossa se le sentiveno rotte, e sse l'inteseno pe' pparecchi ggiorni. Quer boja der Marchese, quann'ebbe inteso che ttutt'e ddue li ggiudii aveveno fatto tommola, aveva fatto ricalà' li letti ar posto de loro, senza che quelli se n'accorgessino.
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Una vorta fece empì', ppiene zzéppe, du' bbotte de schértro. Poi mannò a cchiama du' ggiudii e je fece: "Si vve' spojate ignudi e vve mettete drento a 'ste du' bbótte, v'arigalo tanti quatrini per uno." Queli du' poveracci se guardonno in faccia bbene bbene, come a ddì': cce volemo provà'? Se messeno d'accordo tra dde loro e ppoi disseno ar Marchese: "Ve ciannamo drento a un patto." "Sentimo quale." "Che cce stamo insinenta ar collo: la testa e la faccia la volemo sarva" "La testa e la faccia ve prométto de favvela tienè' dde fôra." E li ggiudii, in du' battuta, arimaseno ignudi come l'aveva fatti la madre. Poi co' l'avidità de pijasse queli sòrdi, bbrutti sporcaccioni, se schiaffonno drento a quela cantera, uno in d'una bbótte e uno in d'un antra, infinenta ar collo. Ma ppoteva sta ch'er Marchese nu' ne facesse quarc'un'antra de le sue? Defatti appena vidde queli du' disgraziati, drento a quela puzza, senza movésse, che ffece? Serio serio, ner mentre li stava a gguardà' fissi, cacciò la spada, e a uno pe' vvorta, tzaf!, fece infinta de tajaje er collo. Queli dua, pe' ssarvasse, naturarmente, aritirorno er capo drento, e ppaff!, l'ariccacciorno tutt'e ddua che faceveno pietà. Lo schértro j'aveva atturato l'occhi, er naso, la bbocca, l'orecchia che pareveno du' pupazzi de créta. Allora er Marchese der Grillo se fece 'na risata che ddurò mmezz'ora. Poi li fece lavà' bbene, vestì', j'arigalò dde ppiù de quello che j'aveva promesso, e li mannò a ll'erba.
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Un'antra vorta er Marchese, che ppare che ffussi un bello sporcaccione, se fece vienì' ddavanti du' ggiudii e je feca a uno: "Fa un bisogno." Quer poveraccio, ssi che nu' je scappasse davero, ssi che sse ne vergognasse, nu' lo voleva fa a qualunque costo. Allora quer prepotente der Marchese, je fece: "O ffallo, o preparate a mmorì'. Defatti cacciò la spada e agnede p'infizallo." A quello fu ttanta la pavura che je prese, che nun fece manco a ttempo a ccalasse li carzoni che sse la fece sotto. Finito ch'ebbe, quer porco der Marchese, s'arivortò a quell'antro ggiudio e je disse: "Mo' ttu mmagnatela." Quer povero ciorcinato troppo fece, troppo s'ariccomann&ogravve;, ma nun ce furno santi, er Marchese, co' la spada i' mmano, l'obbrigò a ubbidillo. E ar giudio je toccò, per avé' ssarva la pelle, de fa come dice quello: o mmagna 'sta minestra o zzompa 'sta finestra. E sse dovette magnà' quela minestra.
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Er fatto der calzolaro. Un giorno er Marchese der Grillo mannò a cchiama uno de li ppiù bbravi carzolari de Roma. 'Sto carzolaro se presenta su ar palazzo der Marchese der Grillo, domanna der Marchese e lo fanno entrà'. "E' llei sor Marchese che mm'ha mmandato a cchiama?" "Per l'appunto." "In che ccosa posso servillo?" "M'avete da fare un per de stivaloni musi, come li sapete fa' vvoi senza abbadà' a la spesa." Er Marchese se messe a ssede, er carzolaro je prese la misura, lo salutò, e sse n'agnede p'er vantaggio suo. Ecchete che ddoppo, nun m'aricordo bbene, si una duzzina o 'na quindicina de ggiorni er carzolaro annò su ar palazzo der Grillo, e je lassò li stivaloni, che nun so bbene sì ne voleva dieci o dodici scudi. Pàsseno quindici giorni, passa un mese, ne passeno dua, tre, e er calzolaro nun vedeva ni er Marchese, ni li bbajòcchi. Voi ch'averessivo fatto? Er calzolaro un ber giorno prese su er portante, e sse n'agnede dar Marchese. "Suono venuto, sor Marchese a sentire si je so' iti bbene queli stivaloni che je lassai, insieme a li miei doveri qui a ppalazzo in de le mane der su' servitore?" "Sicuro l'ho avuti e vve ne ringrazio" "Anzi lei! Ecco: siccome ciavrei da fa' quarche spesetta, je volevo dì' si mme faceva er favore de sardamme er conto" "Quale?" "Quello de li stivali" "Ma io, caro mio, nun pago mai gnisuno." "Vor dì' che si nun me li vô dà' oggi, me li darà un antro ggiorno." "Ni oggi, ni mmai!" "Ma queste so' pprepotenze che mme fa specie che un signore come che llei..." "Non m'insultare, mascalzone..." "Mejo mascarzone che imbrojone..." "Esci da qui..." "Se la vederemo davanti a li tribbunali..." "Indove te pare, abbasta che mme te levi d'avanti." Defatti quer povero carzolaro se n'agnede via che ffaceva fieno pe' ccento cavalli! Agnede su dar Guverno e je diede quarela. Er Marchese, che vvoleva pe' fforza avé' raggione lui, agnede da l'avvocato suo e ttanto intrigò, bbrigò e ppagò li ggiudici che doveveno decide de la cavusa, ch'er giorno che ffu disbattuta, indovinate un po'? er Marchese der Grillo -pare impossibile- vinse la cavusa. Era quello che vvoleva lui. Quanto ecchete ch'er giorno appresso, a una data ora, una, dua, tre, quattro, cinque, dieci, cento campane de Roma, tutte le campane de le cchiese, incomìnceno a ssônà' a mmorto. "Ched'è? Ch'è stato?" "Chi è mmorto er papa?" Tutta Roma nun faceva che ddomannasse accusì. Er Guverno puro, e insinenta er papa arimase meravijato de quer sônà' a mmorto che ffaceveno tutte la campane de Roma. Mannò subbito a ttutta le parocchie a ssentì' cchi j'aveva dato quell'ordine. E ttutti li curati arisposeno che aveveno ricevuto l'ordine e li quatrini dar Marchese der Grillo. "Sempre 'sto bbenedetto matto de 'sto Marchese!" E diede ordine che lo fussino annato a ccerca in sur subbito, e je l'avessino portato davanti a la su' presenza. E er papa aveva raggione da' esse fôra de la grazzia de Ddio, contro quer matto che nun je faceva avé' antro che ricrami sopra ricrami. Quanno se lo vedde comparì' ddavanti je fece: "Ma Mmarchese, quando la finimo? Perchè avete fatto sônà' a mmorto tutte le campane de Roma?" "Santità, perchè è mmorta la ggiustizia?!" "Come, è mmorta la ggiustizia?!" "Sicuro. Senta si è vvero. Io avevo da pagà' una somma a un carzolaro che mm'aveva servito. Nu' l'ho voluto pagà': lui m'ha ffatto la cavusa, e cco' ttutto che aveva mille raggione, io l'ho avuta vvinta." Dice ch'er papa, allora se grattò la cirignòccola e j'arispose: "Eh, nun me fa gnente specie!"
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Una vorta er Marchese stava in d'un su' castello de campagna. L'agnede a ttrova un prete de llà vvicino, a ccavallo a una somara. Er Marchese lo ricevette a bbraccia uperte e lo pregò de trattienesse a ddormì' ar castello. Lo scagnozza, co' la speranza de fasse 'na bbôna pappata a ccéna, accettò l'invito, e smontato da cavallo fece ar Marchese: "Senta, però je devo fa pprima una riccomandazione." "Dichi puro." "Lo prego di dare ordine che 'sta povera bbestiola de la mia somara, sii trattata con cura, e je sii dato un bon pasto e un bon ricovero." "Nun si dubbiti, reverendo, che ssarà contento de me." Accusì ddicènno er Marchese accompagnò er prete drento ar castello, e lo lassò un momentino solo. Quanno poi fu ll0ora de la cena, l'invitò a entrà' in de la sala da pranzo indove c'era una tavola piena de grazziadeddio. Che vvôi! Quer povero prete, fece: panza mia fatte capanna! E quanno ebbeno magnato bbene e bbevuto mejo, se messeno a ffa' cconversazione fino verso quattr'ora de notte. Allora er Marchese chiamò un servitore e je diede ordine d'accompagnà' in de la su' cammera da letto er prete che je diede la bbôna notte. Ma immaginateve come arimase quer povero disgraziato, quanno in de l'entrà' cche ffece in de la su' stanzia, in de lletto a ddu piazze che cc'era, a mmano manca, ce vidde corcata a zzampe per aria, la su' somara! Aveva da curàjela mejo d'accusì? Traménte staveno a cc´na quer matto der Marchese, tenenno conto de la gran riccommannazione der prete, j'aveva fatto legà' la somara pe' le zampe e cco' le corde je l'aveva fatta tirà' insinenta in de la su' cammera, facennola passà' dda la finestra.
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Un antro ggiorno, sempre in campagna, invitò pe' la sera a una gran festa da bballo, tutti li ppiù ricchi signori der paese. Er governatore, er curato, er segretario, er medico lo speziale, er drughire eccetra, eccetra; se capisce che ognuno ciagnéde co' ttutta la famija. Je fece trovà' tutte le mejo sale illuminate, e, ar sôno d'una musica sciccheria, li fece divertì' bballà' e ccantà' a ppiù nun posso. De ppiù je passò una magnifica cena, e quanno li vidde mezzi lustri, li ringraziò e je diede la bbônanotte. Queli signori se sprofonnorno in baciamani e in ringraziamenti e uscirno dar palazzo. Ma poteva sta' che quer boja der Marchese nu' je n'avessi fatta quarcuna de le sue?! Sentite. Dunque, come dicevo, tutti quelli signori, uscino dar palazzo e ognuno se diresse verso casa sua. Ma cch'ed'era che nun era, in un momento tutti s'aritrovorno su' la piazzetta der paese. Ch'era successo? Ah gnente! Gnentedemeno che gnisuno aritrovava ppiù er portone de casa. Nun esisteveno; ereno spariti pe' vvirtù der diavolo. E ttutti queli poveracci arimaseno, senza potesse spiegà' quer felomeno, infinenta all'arba a guardasse in faccia, tremanno come foje dar freddo e dda la gran pavura. Ecco lo bello scherzo che j'aveva fatto er Marchese. Intratanto che lloro bballaveno aveva dato ordine a una squadra de muratori, d'annà' in gran segretezza, a le case de tutti queli signori che staveno a bballà' dda lui, e dd'ammuraje tutte le porte, i' mmodo che nun ce n'arimanesse manco er segno. E li muratori, ubbidienti, accusì' aveveno fatto. (*) Del Marchese del Grillo ha pubblicato anche parecchi aneddoti il prof. Raffaello Giovagnoli, e molti altri inediti ne possedeva il bravo, quanto modesto, scrittore in dialetto, prof. Chiappini. Io però tenni conto solo di quei pochi che generalmente si raccontano nel popolo. La storiella del Carbonaio Baciccia, resa popolare dopo la pubblicazione del Giovagnoli, non era conosciuta dal popolo, e quindi non ho creduto di riportarla qui. Ho poi trovato parecchie di queste storielle attribuite al Marchese del Grillo altri ne fanno autore un altro originale di quell'epoca, certo Marchese Ghigi di Siena. Il nostro Marchese è sepolto a' SS Quirico e Giolita, all'Arco de' Pantani.
Il grande Zeus era il re di tutti gli dei greci. Era così potente e iroso, sempre impegnato a lanciare fulmini a destra e a manca, che tutti ne avevano paura. In occasione del suo matrimonio, Zeus invitò tutti gli animali a un grande banchetto. Il giorno della cerimonia gli animali si presentarono al suo cospetto, abbaiando e miagolando, ruggendo e sibilando per la contentezza. Durante tutto il giorno gli animali si deliziarono con i loro cibi preferiti, divertendosi a non finire. Zeus li guardò e sorrise. Poi aggrottò le sopracciglia. "Ma dov'è la tartaruga?" chiese a Era, sua moglie. "Perché non è qui?" Era, anche lei una dea, si rese conto immediatamente dell' assenza della tartaruga. "Glielo chiederò domani", disse Zeus. Il giorno dopo, Zeus trovò la tartaruga che riposava sulla riva fangosa di un fiume. "Tartaruga, perché non sei venuta al mio matrimonio?" le chiese gentilmente. La tartaruga cercò di nascondersi sotto una grande foglia e non rispose. "Perché non sei venuta al mio matrimonio? Rispondimi!", le ordinò Zeus. La tartaruga sollevò il capo e con una vocina spaventata e quasi inudibile: "Perché ho preferito restare a casa". Zeus era furibondo. Urlò così forte che tutti gli uccelli si spaventarono e volarono via schiamazzando nella foresta. "In tal caso, ti porterai sempre dietro la tua casa, ovunque tu vada". Poi scomparve, nel rumore e nel fulgore di lampi e tuoni. Improvvisamente, la tartaruga sentì un grande peso sulla schiena. Era un guscio, duro e pesante, che le copriva tutto il corpo. Solo la testa, la coda e le zampe erano visibili. Da allora, tutte le tartarughe del mondo portano la loro casetta sulla schiena.
La lepre un giorno si vantava con gli altri animali del bosco:
"Nessuno può battermi in velocità nella corsa" - diceva - "Sfido chiunque a correre come me."
La tartaruga, con la sua solita calma, disse: "Accetto la sfida." "Questa è buona!" - esclamò la lepre e scoppiò a ridere. "Non vantarti prima di aver vinto," - replicò la tartaruga - "vuoi fare questa gara o no?"
Così fu stabilito un percorso e dato il via.
La lepre partì come un fulmine, quasi non si vedeva più perché era già lontana. Poi si fermò, e per mostrare il suo disprezzo verso la tartaruga si sdraiò a fare un sonnellino.
La tartaruga intanto camminava con fatica, un passo dopo l'altro e quando la lepre si svegliò la vide vicina al traguardo. Allora si mise a correre con tutte le sue forze, ma ormai era troppo tardi per vincere la gara.
La tartaruga sorridendo disse: "Non serve correre, bisogna partire in tempo."