Spesso crediamo che lamentarsi significhi liberarsi di quel che non va; al contrario in questo modo non facciamo che confermarlo; ci salva lo sguardo interiore

Il vittimismo si nasconde nei lamenti

Ci sono tante forme di scontentezza di sé; fra queste l'autocommiserazione è forse quella più diffusa. Ma anche la più insidiosa perché si presta a essere occultata in mille maniere. Capita di frequente di incontrare persone che si lamentano della loro attività, o della loro solitudine, che rimpiangono una relazione d'amore conclusa o un'occasione perduta.  Comunicano tutte l'impressione di trarre quasi una certa soddisfazione dal presentarsi come vittime della sorte maligna, della fatalità, dell'imprevisto, dell'ottusità del mondo, dell'ostilità della gente o di quant'altro. Con questi espedienti difensivi, in realtà, tentano di combattere la loro inquietudine e cercano il nostro consenso. Si tratta, in fondo, di un tipo inconsapevole di superbia che rafforza l'ego, poiché giustifica con mezzi razionali il disagio. Ma questo si avvita su se stesso e procura infelicità. Non a caso, il filosofo Eraclito esortava a "spegnere la superbia, più della vampa che incendia". Lamentarsi del proprio destino, infatti, conduce a vedere il mondo come uno specchio che rimanda sempre l'immagine della propria infelicità. Una strada a fondo cieco...

L'alternativa esiste:  l'osservazione interiore

Come quando siamo abbagliati da una luce intensa e cerchiamo di riposare lo sguardo fissandolo sulle foglie degli alberi, sui fiori o sull'erba di un prato, così dobbiamo distogliere la nostra attenzione dall'insoddisfazione che impedisce di vedere il nostro essere e dirigerla su ciò che siamo in grado di fare. Ma anche sugli aspetti positivi, pur nascosti, di ciò che ci succede, sugli affetti che ci circondano. Che fare, dunque? Bisogna dunque apprendere l'arte di vedere il mondo dal lato giusto. Un cattivo insegnamento ci viene offerto dalla speranza che le cose cambieranno da sole, prima o poi. Giuseppe Rensi, filosofo italiano del Novecento, ci mette invece sull'avviso quando afferma che è "l'uomo infelice che mette nella speranza la sua passione e la sua vita, che spera freneticamente". La speranza, in effetti, ci proietta in un mondo immaginario che ha la consistenza delle nuvole. Procura soltanto gioie effimere e ci espone al dolore di nuove delusioni. Dobbiamo, invece, far leva su noi stessi, trasformare ogni nostro stato di frustrazione in stimolo a rivolgerci alla nostra intimità per riattivare la fonte di quell'energia interiore che ora sembra offuscata. Seguiamo pertanto il suggerimento dei filosofi buddisti: sospendiamo la nostra razionalità e facciamo il vuoto dentro di noi. Allora vedremo zampillare il gusto della vita, la curiosità, il piacere del nuovo, il coraggio di inventare e affrontare nuove esperienze
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Confesso che anche io spesso sono preda dei lamenti
vorrei non farlo ma appena qualcuno mi dà lo spunto
inizio a lamentarmi
cercerò di seguire i consigli letti sopra
non si sa mai magari miglioro