|
De: Ver@ (Mensagem original) |
Enviado: 24/02/2013 23:25 |
L'omino di panspeziato
C’era una volta una vecchina che sapeva fare dolci meravigliosi. Un giorno, mancava poco a Natale, preparò un bellissimo e dolcissimo omino di panspeziato. Per occhi aveva due uvette marroncina, per naso una ciliegina candita, per bocca una mandorla. Tutta soddisfatta mise l’omino di panspeziato in una teglia e lo infilò nel forno. Ma subito dopo sentì bussare insistentemente alla porticina del forno e una vocina che gridava: “Fammi uscire !! Fammi uscire!!” La vecchina si precipitò ad aprire il forno e immediatamente saltò fuori l’omino di panspeziato che corse in punta di piedi verso la porta di casa. “Fermati!! Resta con me!!” gli gridò la vecchina, ma l’omino dopo averla squadrata ben bene, gli disse: “Restare con te? Per essere mangiato? No, no, e no, qui non resterò!” E corse via a gambe levate, lasciando la vecchina gridare. Nel cortile l’omino di panspeziato incontrò un gatto che, vedendolo, si leccò i baffi. “Fermati! Resta con me! “ miagolò il gatto, ma l’omino dopo averlo squadrato ben bene, gli disse “Restare con te? Per essere mangiato? No, no, e no, qui non resterò!!” E corse a gambe levate, lasciando la vecchia gridare e il gatto miagolare. Al cancello l’omino di panspeziato incontrò un cane, che lo guardò con l’acquolina in bocca “Fermati!! Resta con me!” abbaiò il cane, ma l’omino, dopo averlo squadrato ben bene, gli disse: “Restare con te? Per essere mangiato?” no, no e no, non resterò con te” E corse via, lasciando la vecchina gridare, il gatto miagolare, il cane abbaiare. In cima a una collina tutta bianca di neve, l’omino di panspeziato incontrò una pecora che lo guardò con molto interesse. “Fermati!! Resta con me!!” belò la pecora, ma l'omino dopo averla squadrata ben bene, rispose: “Restare con te? Per essere mangiato? No. No. E no, qui non resterò” E se ne andò lasciando la vecchia gridare, il gatto miagolare, il cane abbaiare, la pecora belare. Nel bosco l’omino di panspeziato incontrò una volpe che subito mostrò i suoi denti aguzzi. “Fermati!! Resta con me!!” guaì la volpe “Restare con te per essere mangiato? No, no, e poi no qui non resterò!” Andò via lasciando la vecchia gridare, il gatto miagolare, il cane abbaiare, la pecora belare e la volpe guaire. Lungo il sentiero l’omino di panspeziato incontrò due bambini poveri soli soletti. Appena lo videro lo salutarono con le manine e gli dissero: Per favore, per favore, fermati qui, omino di panspeziato, abbiamo tanta fame”!. A queste parole, l’omino di si fermò immediatamente e con un salto si infilò nel loro cestino vuoto. E da due bambini affamati l’omino di panspeziato si fece mangiare volentieri.
|
|
|
Primeira
Anterior
2 a 7 de 7
Seguinte
Última
|
|
Il Lupo e la volpe del sasso Scimirò
Un contadino aveva una cascina dove teneva le sue bestie: capre, mucche, galline e pulcini. Attigua alla stalla c'era una stanzetta dove si teneva il latte, nei catini di coccio, per farlo depositare e poi togliere la panna che affiorava, per fare il burro lasciando il latte scremato per produrre la quagliata. Sopra questa località, sulla montagna, c'è un posto chiamato Sasso Scimirò. Proprio li, il lupo e la volpe avevano la tana nella quale rimanevano tutto il giorno ad aspettare l'ora giusta. La sera, quando cominciava a diventare buio, piano piano, scendevano e si avvicinavano con cautela alla cascina per vedere se il contadino era ancora nei paraggi, oppure se potevano entrare a mangiare in santa pace. Per entrare però, dovevano passare per una finestrella stretta, che la volpe magra e piccola riusciva ad attraversare senza fatica mentre il lupo grosso e imbranato passava a fatica. Comunque i due animali riuscivano sempre nel loro intento. La volpe furba leccava la panna e il lupo tonto si accontentava della quagliata. Il contadino che si era accorto da tempo che qualcuno entrava a sottrargli la roba, decide di appostarsi per sorprendere i ladri e fargliela pagare una volta per tutte. Una sera si nasconde, vede arrivare i due animali. Sente la volpe dire al lupo che come sempre lei avrebbe leccato la panna e lui doveva mangiare la quagliata perché era più grosso e gli occorreva più cibo per saziarsi. Essi entrano dalla solita finestra e come stabilito mangiano a crepapelle. Quando si decidono a uscire vengono sorpresi dal contadino che, armato di un bastone, cerca di picchiarli a più non posso. La volpe più agile riesce a svignarsela senza prendere botte, il lupo invece impacciato e gonfio di quagliata rimane imprigionato nella finestrella e prende un sacco di legnate. La volpe intanto, furba e bugiarda si avvicina ad un albero vicino alla stalla e si rotola nei frutti maturi caduti per terra, simulando il fatto di essere anche lei insanguinata per le botte prese. Alla fine anche il lupo riesce a liberarsi e raggiunge la volpe che lo aspettava sotto l'alber. Il lupo era veramente malconcio mentre la furbacchiona era solo sporca di rosso. Avviandosi verso la loro tana però, la volpe non contenta di essersela cavata induce il lupo dolorante e ferito a farsi caricare sulle spalle per farsi trasportare fino a casa. Il lupo arrancava sul sentiero che portava alla montagna mentre la volpe beatamente si godeva il paesaggio.
|
|
|
|
De: Nando1 |
Enviado: 26/02/2013 07:12 |
C'era una volta
…un mondo in cui le Favole e le loro cugine, le Fiabe, rischiavano di scomparire ed essere dimenticate, uccise da moltissimi esseri malvagi capeggiati dal demone Televisione e dall'orco Videogioco.
Le povere Favole, che prima aiutavano gli umani, cuccioli e adulti, a stimolare la fantasia, a riflettere ed a sognare, erano costrette a fuggire e nascondersi, al gelo e alle intemperie, aggredite da sempre più numerosi e potenti nemici.
E gli umani, che prima proteggevano le Favole e le Fiabe custodendole con cura nella loro memoria, non riuscivano a rendersi conto della loro triste sorte. Il demone Televisione e il suo compagno Orco Videogioco, infatti, adulavano e sussurravano parole dolci e mielose agli umani, tutti i giorni, per molte ore. Gli umani, che sono un po' pigri di natura, ed amano essere adulati, non capivano che così facendo il demone e l'orco li stavano ipnotizzando, impedendogli di usare la loro mente.
Proprio quando ogni speranza sembrava perduta, alcuni umani, amici delle Favole, crearono spazi dove le cugine Favole e Fiabe potevano rifugiarsi.
Uno di questi luoghi si chiamava e tuttora si chiama Readme Favole. In questo spazio ci sono moltissime storie, da leggere ed ascoltare. In più, ci si può divertire a far nascere nuove Favole, che aiuteranno le altre a combattere contro il demone, l'orco e i loro perfidi compagni.
Il finale di questa storia è ancora sconosciuto, ma speriamo di poter scrivere presto…
... e vissero tutti per sempre felici e contenti.”
|
|
|
|
Il soldo bucato

C' era una volta una povera donna rimasta vedova con un figliolino al petto. Era di cattiva salute, e con quel bimbo da allattare poteva lavorare poco. Faceva dei piccoli servigi alle vicine, e così lei e la sua creatura non morivano di fame. Quel figliolino era bello come il sole; e la sua mamma, ogni mattina, dopo averlo rifasciato, lavato e pettinato, un po' per buon augurio, un po' per chiasso, soleva dirgli: - Bimbo mio, tu sarai barone! Bimbo mio, tu sarai duca! Bimbo mio, tu sarai principe! Bimbo mio, tu sarai Re! E ogni volta che lei gli diceva: tu sarai Re, il bimbo accennava di sì colla testina, come se avesse capito. Un giorno si trovò a passare proprio il Re, e sentito: Bimbo mio, tu sarai Re, la prese a male, perché lui non aveva avuto ancora figli e questo gli dispiaceva molto. - Comarina, - le disse - non vi arrischiate più a dire così, o guai a voi! La povera donna, dalla paura, non disse più nulla. Però quel figliolino, ora che la sua mamma stava zitta, ogni mattina, appena rifasciato, lavato e pettinato, si metteva a piangere e strillare. Lei gli ripeteva: - Bimbo mio, tu sarai barone!... Tu sarai duca!... Tu sarai principe!... Ma il bimbo non si chetava. Talché una volta, per prova, tornò a dirgli sottovoce: - Bimbo mio, tu sarai Re! Il bimbo accennò di sì colla testina, come se avesse capito, e non strillò più. Allora la povera donna si persuase che quel figliolino doveva avere una gran fortuna; e temendo la collera del Re, già pensava di mutar paese. Intanto, poiché il figliuolo era spoppato, quando le capitava di fare qualche servizio, pregava una vicina: - Comare, tenetemi d'occhio il bambino; vado e torno in due minuti. Un giorno le accadde di tardare. La vicina era seccata di tenere in braccio quel cattivello che piangeva perché voleva la mamma. In quel punto comparve un cenciaiuolo: - Cenci, donnine, cenci! La donna indicando il bambino che teneva in braccio disse - Lo volete questo cencio qui? - Ah! Se ci si combina, lo prendo. - Disse il cenciaiuolo - Ve lo do per un soldo. Il cenciaiuolo le tolse il bimbo di braccio e le mise in mano un soldo bucato. A quella scena lei e le altre vicine presenti ridevano: il cenciaiuolo in questo mentre svoltava la cantonata e spariva. Corri, cerca, chiama... L'avete più visto? Figuriamoci che pianto, quella povera mamma, quando apprese la sua disgrazia! Corse subito dal Re: - Giustizia, Maestà!... Mi han rapito il bimbo! - Bimbo mio, tu sarai Re! - le rispose il Re facendole il verso, per canzonarla. E la mandò via, tutto contento che quel malaugurio per la sua discendenza fosse sparito. Gli occhi della povera donna parevano un fiume. Andava attorno tutta la giornata, fermando la gente: - Buona gente, incontraste per caso il cenciaiuolo che mi ha rubato il mio bambino? Le persone, che non ne sapevano nulla, la prendevano per matta e le ridevano in faccia. Quel giorno della disgrazia, la vicina le aveva dato il soldo bucato messole in mano dal cenciaiuolo; ma la povera donna, dalla gran rabbia che aveva, lo buttò via. La mattina dopo, apre un cassetto... e il soldo bucato era lì. - Soldaccio maledetto! Non ti voglio neppur vedere! E lo buttò nuovamente via dalla finestra. Ma la mattina dopo, torna ad aprire quel cassetto e che vede? Il soldo bucato. Richiuse il cassetto con stizza. - Fossero almeno dieci lire...! Mi comprerei uno straccio di veste! Non avea finito di dirlo, che sentì lì dentro un suono di soldi rimescolati. Stupita, riapre. Pareva che il soldo avesse figliato. Oltre a quello, c'erano lì tanti soldi, da fare giusto dieci lire. Da allora in poi, quando avea bisogno di denaro, le bastava che dicesse: - Soldino mio, voglio cento lire, voglio mille lire! Le cento lire, le mille lire erano subito lì. La buona donna non si teneva questa fortuna per sé sola; faceva spesso la carità a tutte le persone bisognose al par di lei, ed era già diventata una benedizione del cielo. Ma quel bene lei lo faceva sempre col pensiero al figliolino perduto: - Che le importava di tanta fortuna, senza il figliolino? E sperava sempre che, un giorno o l'altro, il cielo l'avrebbe consolata. In quel tempo il Re ebbe il capriccio di comprarsi un magnifico cavallo. Conchiuso il negozio, andò per prendere il denaro dallo scrigno dove soleva tenerlo riposto, e si accorse che mancava una bella somma. Appostò lì due guardie per acchiappare il ladro; e, passati alquanti giorni, tornò a guardare: mancava un'altra bella somma! Si mise in agguato lui stesso; cominciava a sospettare dei suoi Ministri. Una mattina, ecco una voce nell'aria, lontana, lontana: - Soldino mio, voglio mille lire! E, subito, un rimescolìo nello scrigno, come se qualcuno vi prendesse quattrini a manate. Apre in fretta in fretta... Le mille lire mancavano, ma lì dentro non c'era nessuno! - Come era questa faccenda? Il Re ci perdeva la testa. Però, benché fosse un po' avaro, gli dispiaceva di più dover morire senza figliuoli. Se la prendeva colla Regina, come se la colpa fosse stata di lei, e la maltrattava: - Non era buona a dargli un figliuolo, neppure di terra cotta! La Regina, indispettita, gli fece colle sue mani un bel puttino di terra cotta. - Ecco, se sono buona! Tutti accorrevano al palazzo reale per vedere quel puttino di terra cotta, che era una meraviglia, e vi andò anche quella povera donna. - Oh Dio! è tutto il mio bambino!... Ma non era così che ti volevo Re, figliolino mio! E si mise a piangere. Il Re, a quelle parole, montò in furore. Diè un calcio al puttino di terra cotta e lo ridusse in mille pezzi. Alla povera donna parve di vedersi squarciare sotto gli occhi il figliolino perduto. Ma che poteva dire a Sua Maestà? Dovette ingozzare anche quell'amarezza, e tornarsene a casa zitta zitta. Intanto nello scrigno del Re i quattrini continuavano a mancare; e sempre quella voce nell'aria, lontana lontana: - Soldino mio, voglio cento lire, voglio mille lire! E quanti diceva la voce, tanti il Re ne sentiva prendere dalla mano del ladro invisibile. Il Re mise le sue spie per scoprire di chi fosse quella voce: e un giorno le spie gli condussero dinanzi ammanettata la donna del bambino rubato: Era lei che aveva detto: "Soldino mio, voglio cento lire!". Il Re non volle neppure ascoltare la povera donna, che voleva raccontargli come stesse la cosa, e la fece gettare in un fondo di un carcere. Ma da quel giorno il re non ebbe più pace. Voleva andare a letto? Gli strappavano le coperte: - Maestà, non si dorme! Chi era? Non si vedeva nessuno. Si sedeva a tavola per mangiare? E gli portavano via il piatto: - Maestà, non si mangia! Chi era? Non si vedeva nessuno. Se durava un altro po', il Re moriva di fame. Perciò mandò a consultare un vecchio Mago. Il Mago (che poi era quel cenciaiuolo che avea rapito il bambino per proteggerlo) rispose soltanto: - Bimbo mio, tu sarai Re! Visto che il destino era quello, e non volendo morire di fame, il Re cominciò dallo scarcerare la povera donna, e poi tornò dal Mago: - Come rintracciare il bimbo? Lo avea rapito un cenciaiuolo e non se ne sapeva più nulla. Il Mago rispose: - Raccatti i cocci di quel puttino di terra cotta e li saldi insieme collo sputo. Il Re, sebbene di mala voglia, raccattò i cocci del puttino e li saldò collo sputo. - Ed ora? - Ed ora - rispose il Mago - prepari una bella festa e faccia così e così e così. Il Re fece dei grandi preparativi, poi secondo le istruzioni del Mago, mandò a chiamare la mamma del bimbo a palazzo reale e la fece sedere a lato della Regina. Il puttino di terra cotta bello e saldato si vedeva collocato nel mezzo del salone e, attorno attorno, ministri, principi, cavalieri in gran gala che aspettavano. Quando fu l'ora, s'intese nella via: - Cenci, donnine, cenci! A questo grido il puttino di terra cotta scoppiò, e ne usci fuori un bel giovinotto fra un gran rovesciarsi di monete, che ruzzolavano da tutte le parti. Il Re, contento anche perché riacquistava tutti i suoi quattrini, voleva abbracciarlo come un figliuolo; ma quello corse prima dalla sua mamma e non sapeva staccarsela dal petto: - Bimbo mio, tu sarai Re! Ed era già Reuccio, poiché il Re lo adottava! Qui entrò una guardia e disse: - Maestà, c'è di là un cenciaiuolo; rivuole il suo soldo bucato. Il Re non ne sapeva nulla; ma la povera donna rispose subito: - Eccolo qui. Sentita la storia di quel soldo, il Re pensò ch'era meglio tenerselo per sé. Andò di là, bucò un altro soldo e diede questo in cambio di quello al cenciaiuolo. Ma gliene incolse male. La prima volta che disse: - Soldino mio, vo' mille lire! Invece di mille lire furono mille nerbate, che lo conciarono per le feste, tanto che morì. - Bimbo mio, tu sarai Re! E si era avverato. Stretta è la foglia, larga è la via, Dite la vostra, ché ho detto la mia.
|
|
|
|
Piumadoro e piombofino

Piumadoro era orfana e viveva col nonno nella capanna del bosco. Il nonno era carbonaio ed essa lo aiutava nel raccattar fascine e nel far carbone. La bimba cresceva buona, amata dalle amiche e dalle vecchiette degli altri casolari, e bella, bella come una regina. Un giorno di primavera vide sui garofani della sua finestra una farfalla candida e la chiuse tra le dita. - Lasciami andare, per pietà!... Piumadoro la lasciò andare. - Grazie, bella bambina; come ti chiami? - Piumadoro. - Io mi chiamo Pieride del Biancospino. Vado a disporre i miei bruchi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò. E la farfalla volò via. Un altro giorno Piumadoro ghermì, a mezzo il sentiero, un bel soffione niveo trasportato dal vento, e già stava lacerandone la seta leggera. - Lasciami andare, per pietà!... Piumadoro lo lasciò andare. - Grazie, bella bambina. Come ti chiami? - Piumadoro. - Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Achenio del Cardo. Vado a deporre i miei semi in terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò. E il soffione volò via. Un altro giorno Piumadoro ghermì nel cuore d'una rosa uno scarabeo di smeraldo. - Lasciami andare, per pietà! Piumadoro lo lasciò andare. - Grazie, bella bambina. Come ti chiami? - Piumadoro. - Grazie, Piumadoro. Io mi chiamo Cetonia Dorata. Cerco le rose di terra lontana. Un giorno forse ti ricompenserò. E la cetonia volò via.
II Sui quattordici anni avvenne a Piumadoro una cosa strana. Perdeva di peso. Restava pur sempre la bella bimba bionda e fiorente, ma s'alleggeriva ogni giorno di più. Sulle prime non se ne dette pensiero. La divertiva, anzi, l'abbandonarsi dai rami degli alberi altissimi e scender giù, lenta, lenta, lenta, come un foglio di carta. E cantava:
Non altre adoro - che Piumadoro... Oh! Piumadoro, bella bambina - sarai Regina.
Ma col tempo divenne così leggera che il nonno dovette appenderle alla gonna quattro pietre perché il vento non se la portasse via. Poi nemmeno le pietre bastarono più e il nonno dovette rinchiuderla in casa. - Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio! E il vecchio sospirava. E Piumadoro s'annoiava, così rinchiusa. - Soffiami, nonno! E il vecchio, per divertirla, la soffiava in alto per la stanza. Piumadoro saliva e scendeva, lenta come una piuma.
Non altre adoro - che Piumadoro... Oh! Piumadoro, bella bambina - sarai Regina.
- Soffiami, nonno! E il vecchio soffiava forte e Piumadoro saliva leggera fino alle travi del soffitto.
Oh! Piumadoro, bella bambina - sarai Regina.
- Piumadoro, che cosa canti? - Non son io. è una voce che canta in me. Piumadoro sentiva, infatti, ripetere le parole da una voce dolce e lontanissima. E il vecchio soffiava e sospirava: - Piumadoro, povera bimba mia, qui si tratta di un malefizio!...
III Un mattino Piumadoro si svegliò più leggera e più annoiata del consueto. Ma il vecchietto non rispondeva. - Soffiami, nonno! Piumadoro s'avvicinò al letto del nonno. Il nonno era morto. Piumadoro pianse. Pianse tre giorni e tre notti. All'alba del quarto giorno volle chiamar gente. Ma socchiuse appena l'uscio di casa che il vento se la ghermì, se la portò in alto, in alto, come una bolla di sapone... Piumadoro gettò un grido e chiuse gli occhi. Osò riaprirli a poco a poco, e guardare in giù, attraverso la sua gran capigliatura disciolta. Volava ad un'altezza vertiginosa. Sotto di lei passavano le campagne verdi, i fiumi d'argento, le foreste cupe, le città, le torri, le abazie minuscole come giocattoli... Piumadoro richiuse gli occhi per lo spavento, si avvolse, si adagiò nei suoi capelli immensi come nella coltre del suo letto e si lasciò trasportare. - Piumadoro, coraggio! Aprì gli occhi. Erano la farfalla, la cetonia ed il soffione. - Il vento ci porta con te, Piumadoro. Ti seguiremo e ti aiuteremo nel tuo destino. Piumadoro si sentì rinascere. - Grazie, amici miei.
Non altre adoro - che Piumadoro... Oh! Piumadoro, bella bambina - sarai Regina.
- Chi è che mi canta all'orecchio, da tanto tempo? - Lo saprai verso sera, Piumadoro, quando giungeremo dalla Fata dell'Adolescenza. Piumadoro, la farfalla, la cetonia ed il soffione proseguirono il viaggio, trasportati dal vento.
IV Verso sera giunsero dalla Fata dell'Adolescenza. Entrarono per la finestra aperta. La buona Fata li accolse benevolmente. Prese Piumadoro per mano, attraversarono stanze immense e corridoi senza fine, poi la Fata tolse da un cofano d'oro uno specchio rotondo. - Guarda qui dentro. Piumadoro guardò. Vide un giardino meraviglioso, palmizi e alberi tropicali e fiori mai più visti. E nel giardino un giovinetto stava su di un carro d'oro che cinquecento coppie di buoi trascinavano a fatica. E cantava:
Oh! Piumadoro, bella bambina - sarai Regina.
- Quegli che vedi è Piombofino, il Reuccio delle Isole Fortunate, ed è quegli che ti chiama da tanto tempo con la sua canzone. è vittima d'una malìa opposta alla tua. Cinquecento coppie di buoi lo trascinano a stento. Diventa sempre più pesante. Il malefizio sarà rotto nell'istante che vi darete il primo bacio. La visione disparve e la buona Fata diede a Piumadoro tre chicchi di grano. - Prima di giungere alle Isole Fortunate il vento ti farà passare sopra tre castelli. In ogni castello ti apparirà una fata maligna che cercherà di attirarti con la minaccia o con la lusinga. Tu lascerai cadere ogni volta uno di questi chicchi. Piumadoro ringraziò la Fata, uscì dalla finestra coi suoi compagni e riprese il viaggio, trasportata dal vento.
V Giunsero verso sera in vista del primo castello. Sulle torri apparve la Fata Variopinta e fece un cenno con le mani. Piumadoro si sentì attrarre da una forza misteriosa e cominciò a discendere lentamente. Le parve distinguere nei giardini volti di persone conosciute e sorridenti: le compagne e le vecchiette del bosco natìo, il nonno che la salutava. Ma la cetonia le ricordò l'avvertimento della Fata dell'Adolescenza e Piumadoro lasciò cadere un chicco di grano. Le persone sorridenti si cangiarono subitamente in demoni e in fattucchiere coronate di serpi sibilanti. Piumadoro si risollevò in alto con i suoi compagni, e capì che quello era il Castello della Menzogna e che il chicco gettato era il grano della Prudenza. Viaggiarono due altri giorni. Giunsero verso sera in vista del secondo castello. Era un castello color di fiele, striato di sanguigno. Sulle torri la Fata Verde si agitava furibonda. Una turba di persone livide accennava tra i merli e dai cortili, minacciosamente. Piumadoro cominciò a discendere, attratta dalla forza misteriosa. Terrorizzata lasciò cadere il secondo chicco. Appena il grano toccò terra il castello si fece d'oro, la Fata e gli ospiti apparvero benigni e sorridenti, salutando Piumadoro con le mani protese. Questa si risollevò e riprese il cammino trasportata dal vento; e capì che quello era il grano della Bontà. Viaggia, viaggia, giunsero due giorni dopo al terzo castello. Era un castello meraviglioso, fatto d'oro e di pietre preziose. La Fata Azzurra apparve sulle torri, accennando benevolmente verso Piumadoro. Piumadoro si sentì attrarre dalla forza invisibile. Avvicinandosi a terra udiva un confuso clamore di risa, di canti, di musiche; distingueva nei giardini immensi gruppi di dame e di cavalieri scintillanti, intesi a banchetti, a balli, a giostre, a teatri. Piumadoro, abbagliata, già stava per scendere, ma la cetonia le ricordò l'ammonimento della Fata dell'Adolescenza, ed ella lasciò cadere, a malincuore, il terzo chicco di grano. Appena questo toccò terra, il castello si cangiò in una spelonca, la Fata Azzurra in una megera spaventosa e le dame e i cavalieri in poveri cenciosi e disperati che correvano piangendo tra sassi e roveti. Piumadoro, sollevandosi d'un balzo nell'aria, capì che quello era il Castello dei Desideri e che il chicco gettato era il grano della Saggezza. Proseguì la via, trasportata dal vento. La pieride, la cetonia ed il soffione la seguivano fedeli, chiamando a raccolta tutti i compagni che incontravano per via. Così che Piumadoro ebbe ben presto un corteo di farfalle variopinte, una nube di soffioni candidi e una falange abbagliante di cetonie smeraldine. Viaggia, viaggia, viaggia, la terra finì, e Piumadoro, guardando giù, vide una distesa azzurra ed infinita. Era il mare. Il vento si calmava e Piumadoro scendeva talvolta fino a sfiorare con la chioma le spume candide. E gettava un grido. Ma le diecimila farfalle e le diecimila cetonie la risollevavano in alto, col fremito delle loro piccole ali. Viaggiarono così sette giorni. All'alba dell'ottavo giorno apparvero sull'orizzonte i minareti d'oro e gli alti palmizi delle Isole Fortunate.
VI
Nella Reggia si era disperati. Il Reuccio Piombofino aveva sfondato col suo peso la sala del Gran Consiglio e stava immerso fino alla cintola nel pavimento a mosaico. Biondo, con gli occhi azzurri, tutto vestito di velluto rosso, Piombofino era bello come un dio, ma la malìa si faceva ogni giorno più perversa. Ormai il peso del giovinetto era tale che tutti i buoi del Regno non bastavano a smuoverlo d'un dito. Medici, sortiere, chiromanti, negromanti, alchimisti erano stati chiamati inutilmente intorno all'erede incantato.
Non altre adoro - che Piumadoro... Oh! Piumadoro, bella bambina - sarai Regina.
E Piombofino affondava sempre più, come un mortaio di bronzo nella sabbia del mare. Un mago aveva predetto che tutto era inutile, se l'aiuto non veniva dall'incrociarsi di certe stelle benigne. La Regina correva ogni momento alla finestra e consultava a voce alta gli astrologhi delle torri. - Mastro Simone! Che vedi, che vedi all'orizzonte? - Nulla, Maestà... La Flotta Cristianissima che torna di Terra Santa. E Piombofino affondava sempre. - Mastro Simone, che vedi?... - Nulla, Maestà... Uno stormo d'aironi migratori... - Mastro Simone, che vedi?... - Nulla, Maestà... Una galea veneziana carica d'avorio. Il Re, la Regina, i ministri, le dame erano disperati. Piombofino emergeva ormai con la testa soltanto; e affondava cantando:
Oh! Piumadoro, bella bambina - sarai Regina.
S'udì, a un tratto, la voce di mastro Simone: - Maestà!... Una stella cometa all'orizzonte! Una stella che splende in pieno meriggio! Tutti accorsero alla finestra, ma prima ancora la gran vetrata di fondo s'aprì per incanto e Piumadoro apparve col suo seguito alla Corte sbigottita, I soffioni le avevano tessuta una veste di velo, le farfalle l'avevano colorata di gemme. Le diecimila cetonie, cambiate in diecimila paggetti vestiti di smeraldo, fecero ala alla giovinetta che entrò sorridendo, bella e maestosa come una dea. Piombofino, ricevuto il primo bacio di lei, si riebbe come da un sogno, e balzò in piedi libero e sfatato, tra le grida di gioia della Corte esultante. Furono imbandite feste mai più viste. E otto giorni dopo Piumadoro la carbonaia sposava il Reuccio delle Isole Fortunate.
Molti anni fa viveva un imperatore, il quale amava tanto possedere abiti nuovi e belli, che spendeva tutti i suoi soldi per abbigliarsi con la massima eleganza. Non si curava dei suoi soldati, non si curava di sentir le commedie o di far passeggiate nel bosco, se non per sfoggiare i suoi vestiti nuovi: aveva un vestito per ogni ora del giorno, e mentre di solito di un re si dice: - E' in Consiglio! - di lui si diceva sempre: - E' nello spogliatoio - Nella grande città, dove egli abitava, ci si divertiva molto. ogni giorno arrivavano stranieri, e una volta vennero due impostori; si spacciarono per tessitori e dissero che sapevano tessere la stoffa piu straordinaria che si poteva immaginare. Non solo i disegni e i colori erano di singolare bellezza, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili a quegli uomini che non erano all'altezza della loro carica o che erano imperdonabilmente stupidi. - Sarebbero davvero vesti meravigliosi! - pensò l'imperatore - Con quelli indosso, io potrei scoprire quali uomini nel mio regno non sono degni della carica che hanno; potrei distinguere gli intelligenti dagli stupidi. Ah! si! mi si deve tessere subito questa stoffa! - E diede molti soldi in mano ai due impostori perchè incomiciassero a lavorare. Essi montarono due telai, fecero finta di lavorare, ma non avevano assolutamente niente sul telaio. Chiesero senza complinenti la seta più bella e l'oro piu brillante, li ficcarono nella loro borsa e lavorarono con i telai vuoti, senza smettere mai, fino a tarda notte. - Adesso mi piacerebbe sapere a che punto è la stoffa! - pensò l'imperatore; ma in verità si sentiva un po' agitato all'idea che una persona stupida, o non degna della carica che occupava, non avrebbe potuto vederla. Egli, naturalmente, non pensava di dover temere per sè; tuttavia preferì mandare un altro, prima, a vedere come andava la faccenda. Tutti gli abitanti della città sapevano dello straordinario potere della stoffa, e ognuno era desideroso di conoscere quanto incapace o stupido fosse il proprio vicino di casa. - Manderò dai tessitori il mio vecchio, bravo ministro! - pensò l'imperatore. - Egli può vedere meglio degli altri che figura fa quella stoffa, perchè è intelligente e non c'è un altro che sia come lui all'altezza del proprio compito! - Così quel vecchio buon ministro andò nella sala dove i due tessitori lavoravano sui telai vuoti: - Dio mio! - pensò spalancando gli occhi - non vedo proprio niente! - Ma non lo disse forte. I due tessitori lo pregarono di avvicinarsi, per favore, e gli domandarono se il disegno e i colori erano belli; e intanto indicavano il telaio vuoto. Il povero vecchio continuò a spalancare gli occhi, ma non riuscì a vedere niente perchè non c'era niente. - Povero me! - pensò. - Sono dunque stupido? Non l'avrei mai creduto! Ma ora nessuno deve saperlo! O non sono adatto per questa carica? No, non posso andare a raccontare che non riesco a vedere la stoffa! - - E allora, non dice niente? - chiese uno dei tessitori. - Oh! incantevoli, bellissimi! - esclamò il vecchio ministro, guardando da dietro gli occhiali. - Che splendidi disegni, che splendidi colori! Sì, sì ! dirò all'imperatore che mi piacciono in un modo straordinario! - - Ah! ne siamo davvero contenti! - dissero i due tessitori, e presero a enumerare i colori e a spiegare la bizzarria del disegno. Il vecchio ministro stette bene a sentire per ripetere le stesse cose, quando fosse tornato dall'imperatore; e così fece. Allora i due impostori chiesero altri soldi, e ancora seta e oro; l'oro occorreva per la tessitura. Si ficcarono tutto in tasca, e sul telaio non ci arrivò neanche un filo. Tuttavia essi seguitarono, come prima, a tessere sul telaio vuoto. Dopo un po' di tempo l'imperatore mandò un altro valente funzionario, a vedere come procedeva la tessitura, e a chiedere se la stoffa era finita. Gli successe proprio come al ministro; guardò, guardò; ma siccome non c'era niente all'infuori dei telai nudi, non potè vedere niente. - Non è forse una bella stoffa? - dissero i due impostori; e gli mostravano e gli spiegavano il bellissimo disegno che non c'era per niente. - Stupido che sono! - pensò l'uomo. - Dunque, vorrà dire che non sono degno della mia alta carica? Sarebbe molto strano! Ma non bisogna farsi scoprire ! - E così prese a lodare il tessuto che non vedeva, e parlò del piacere che gli davano quei bei colori e quei graziosi disegni. - Sì, è proprio la stoffa piu bella del mondo! - disse all'imperatore. Tutti i cittadini discorrevano di quella stoffa magnifica. Allora l'imperatore stesso volle andare a vederla mentre era ancora sul telaio. Con uno stuolo di uomini scelti, tra i quali anche quei due bravi funzionari che già c'erano stati, egli si recò dai due astuti imbroglioni che stavano tessendo con gran lena, ma senza un'ombra di filo. - Eh!? non è "magnifique"? - dissero i due bravi funzionanari. - Guardi, Sua Maestà, che disegni, che colori! - E indicavano il telaio vuoto, perchè erano sicuri che gli altri la vedevano, la stoffa. - Che mi succede? - pensò l'imperatore. - Non vedo nulla! Terribile, davvero! Sono stupido? O non sono degno di essere imperatore? Questa è la cosa piu spaventosa che mi poteva capitare! - - Oh! bellissimo! - disse. - Vi concedo la mia suprema approvazione! - E annuiva soddisfatto, contemplando il telaio vuoto; non poteva mica dirlo, che non vedeva niente! Tutti quelli che s'era portato dietro, guardavano, guardavano, ma, per quanto guardassero, il risultato era uguale; eppure dissero, come l'imperatore: - Oh! bellissimo! - E gli suggerirono di farsi fare, con quella stoffa meravigliosa, un vestito nuovo da indossare al grande corteo che era imminente. - Magnifique! Carina, excellent! - dicevano l'un l'altro; e sembravano tutti profondamente felici, dicendo queste cose. L'imperatore diede ai due impostori la Croce di Cavaliere da appendere all'occhiello e il titolo di Nobili Tessitori. Per tutta la notte, prima del giorno in cui doveva aver luogo il corteo, gli imbroglioni restarono alzati con piu di sedici candele accese; tutti potevano vedere quanto avevano da fare per ultimare i vestiti nuovi dell'imperatore. Finsero di staccare la stoffa dal telaio, con grandi forbici tagliarono l'aria, cucirono con ago senza filo e dissero infine: - Ecco, i vestiti sono pronti ! - Giunse, allora, l'imperatore in persona, con i suoi più illustri cavalieri: e i due imbroglioni tenevano il braccio alzato come reggendo qualcosa e dicevano: - Ecco i calzoni, ecco la giubba, ecco il mantello! - e così via di seguito. - E' una stoffa leggera come una tela di ragno! Si potrebbe quasi credere di non avere niente indosso, ma è appunto questo, il suo pregio ! - - Si! - dissero tutti i cavalieri, ma non vedevano niente, perchè non c'era niente. - E adesso, vuole la Sua Imperiale Maestà graziosamente consentire a spogliarsi? - dissero i due imbroglioni. - Così noi Le potremo mettere questi vestiti nuovi proprio qui, dinanzi alla specchiera! - L'imperatore si spogliò e i due imbroglioni fingevano di porgergli, pezzo per pezzo, gli abiti nuovi, che, secondo loro, andavano terminando di cucire; lo presero per la vita, come per legargli qualcosa stretto stretto: era lo strascico e l'imperatore si girava e si rigirava davanti allo specchio. - Dio, come sta bene! Come donano al suo personale questi vestiti! - dicevano tutti. - Che disegno! Che colori! E' un costume prezioso ! - - Qui fuori sono arrivati quelli col baldacchino che sarà tenuto aperto sulla testa di Sua Maestà durantc il corteo! - disse il Gran Maestro del Cerimoniale. - Si, eccomi pronto! - rispose l'imperatore. - Non è vero che sto proprio bene? - E si rigirò un'altra volta davanti allo specchio fingendo di contemplare la sua tenuta di gala. I ciambellani che dovevano reggere lo strascico, finsero di raccoglierlo tastando per terra; e si mossero stringendo l'aria: non potevano mica far vedere che non vedevano niente! E così l'imperatore aprì il corteo sotto il sontuoso baldacchino e la gente per le strade e alle finestre diceva: - Dio! Sono di una bellezza incomparabile, i vestiti nuovi dell'imperatore! Che splendida coda dietro la giubba! Ma come gli stanno bene! - Nessuno voleva mostrare che non vedeva niente, perchè se no significava che non era degno della carica che occupava, oppure che era molto stupido. Nessuno dei tanti costumi dell'imperatore aveva avuto tanta fortuna. - Ma se non ha niente indosso ! - gridò un bambino. - Signore Iddio! La voce dell'innocenza! - disse il padre; e ognuno sussurrava all'altro quello che aveva detto il bambino. - Non ha niente indosso! C'è un bambino che dice che non ha niente indosso! - - Non ha proprio niente indosso! - urlò infine tutta la gente. E l'imperatore si sentì rabbrividire perchè era sicuro che avevano ragione; ma pensò: "Ormai devo guidare questo corteo fino alla fine!" E si drizzò ancor piu fiero e i ciambellani camminarono reggendo la coda che non c'era per niente. |
|
|
|
De: Nando1 |
Enviado: 28/02/2013 07:30 |
Olivia, la cicogna dalle calze rosse
C’era una volta una splendida cicogna dalle lunghe ali bianche e gli occhi di una cangiante tonalità viola scuro, di nome Olivia. Creatura leggiadra e meravigliosa era lei, col suo volo a portare nel creato il dolce annuncio della vita e col suo canto a riempire di gioia il cielo, vestita delle sue splendide piume di rugiada e di terra e un paio di allegre calze rosse, spirito sensibile e garbato, capace col suo tocco di irradiare nuova luce.
Ma un giorno, il bell’uccello, intento a ridipingere col suo manto di colori il creato, portando tutt’intorno i suoi delicati nastri dalle tinte pastello, accorgendosi di botto di non riuscire più ad aprire le sue ali e spiccare il volo come sempre, sgranando gli occhi stranito, col cuore in tumulto, si recò subito a grandi falcate verso la Torre Alta, per chiedere delucidazioni a Lui, a cui nulla era ignoto.
“Non riesci più ad aprire le tue ali …” bofonchiò Colui il Quale, vecchio Spirito della Torre, vestito di niente, a cui tutti chiedevano consiglio in caso di difficoltà; carezzando con fare distratto il grosso volume in pelle rilegato, ricoperto di polvere, posto sul Leggìo al centro della Stanza, al cui interno erano scritte la pagine più importanti della mistica di tutti i tempi.
“Non riesci più ad aprirle …” ripetè massaggiandosi la lunga barba canuta, sospirando “Dimmi dolce Olivia, per caso il tuo cuore ha subìto un grave dolore ultimamente?”
A quella domanda la cicogna chinando il capo storse il becco contrita “Si, saggio Spirito. Giorni fa il mio cuore ha patito una grande sofferenza, che porto ancora tuttora nel mio petto! Ma questo cosa c’entra con le mie ali?”
Tossicchiando il vecchio assentì schiarendosi la voce “E’ stato questo a farti perdere le tue ali, e con esse il tuo festoso volo, cara cicogna! Ecco cosa è stato!”
E spalancando il becco a quella risposta, la creatura sbarrò lo sguardo spaurito “E adesso come devo fare per ritrovare le mie ali?”
“Devi cercarle dentro di te!” le rispose pacato Colui il Quale, spirito maestro, facendo spallucce, prima di sparire sotto i suoi occhi insieme alla propria Torre.
E Olivia rimasta sola, afflitta a quelle parole, sedendo su di un sasso, aggiustandosi le sue belle calze rosse, avvinta, prese a meditare.
Quando d’improvviso un urlo disperato la fece balzare di soprassalto: dinanzi ai suoi occhi una splendida carpa dal manto d’argento si dibatteva disperata, intrappolata in una rete tagliente, incapace di riprendere il largo, ferendosi ad ogni movimento, ormai preda del pescatore che a bordo della sua barca aveva gettato lì nel suo lago, la sua trappola, e la stava lentamente tirando a sé.
A quella scena l’uccello, percependo il proprio cuore battere all’impazzata, levandosi di colpo dalla pietra, saltò a pelo d’acqua, librandosi fulminea sui flutti, lieve e delicata, e senza porre tempo in mezzo, utilizzando il suo becco affilato, ed esortando la creatura alla calma la liberò dall’esca, battendo l’Uomo sul colpo, lacerando l’intricato dedalo di spire che lo teneva prigioniero, liberandolo in un sol lampo, tenendolo delicatamente nel suo becco fino a portarlo in salvo.
E adagiato il pesce nel letto del fiume ormai al sicuro, lo stupore di lei fu enorme, nello scoprire le sue ali aperte, forti e leggere. E ridendo sbalordita a quella scoperta – comprendendo ciò che era successo – scosse il capo felice: e da allora le sue ali non si richiusero mai più.
|
|
|
|
La giraffa vanitosa
In una foresta viveva una giraffa dal collo alto alto. Era bellissima, agile e snella. Tutti gli animali l'ammiravano e le facevano i complimenti. Ma la giraffa aveva il difetto di essere molto vanitosa cosi' passava tutto il suo tempo a guardarsi negli specchi d'acqua senza mai stare in compagnia degli altri animali.
E quando questi avevano bisogno di un favore, era troppo presa a guardarsi allo specchio per aiutarli. Cosi' un giorno una scimmietta decise di darle una lezione e le disse: "Esiste un albero che ha tanti frutti dolci dolci. Con il tuo collo potresti mangiarli. Vieni che ti faccio vedere qual e'". La giraffa si mise sotto l'albero ma era cosi' alto che neppure allungando il suo collo gia' lungo riusciva a mangiare i frutti.
La scimmietta allora le salto' sul dorso, poi le sali' sul collo fino alla testa e con le sue manine prese il frutto e glielo regalo'. Ma le disse anche: "Vedi, nella vita arriva il momento per tutti di aver bisogno di un amico". E la giraffa vanitosa imparo' la lezione.
|
|
|
Primeira
Anterior
2 a 7 de 7
Seguinte
Última
|