Le elezioni sono vicine ed il mondo della politica torna a parlare di legge
elettorale e del discusso Porcellum:
gli italiani però non sono sicuramente
nuovi a certi termini, tanto che nel passato avevano già dovuto fare i conti con
altri latinismi elettoriali…
Per primo ci aveva pensato Sergio Mattarella,
parlamentare della DC e relatore di una discussa legge elettorale maggioritaria
che il politologo Giovanni Sartori denominò “Matterellum”.
Sempre Sartori ha
il copyright sul termine “Tatarellum”, ovvero la nuova legge elettorale
maggioritaria anche per le Regioni presentata nel 1995 dal parlamentare AN
Pinuccio Tatarella.
Poi, nel 2005, Roberto Calderoli affiorò dalle rive del
Po per consegnarci il “Porcellum”, invenzione del solito Sartori dopo che lo
stesso Calderoli aveva definito la sua legge “una porcata per mettere in
difficoltà una destra e una sinistra che devono fare i conti con il popolo che
vota”.
Nella breve storia della nostra Repubblica quello che emerge è che nonostante
il fine democratico fosse comune a tutte le forze politiche mai nessun partito
ha avuto a cuore l’istituzione di una legge elettorale degna di questo nome: chi
vuole il modello tedesco, chi quello francese, chi quello klingoniano, fatto sta
che si è sempre impedito ai cittadini di esprimere realmente il proprio
pensiero: è infatti molto conveniente per un partito bloccare le liste e
lasciare all’ elettore meno margine di scelta possibile.
All’ elettore moderno infatti è concesso solo di votare il partito per cui
simpatizza (o per cui prova meno ripulsione), impedendo però di manifestare la
sua eventuale disapprovazione per la classe che lo rappresenta e costringendolo
a due sole scelte: votare il meno peggio, non votare il meno peggio.
In entrambi i casi, l’elettore non riesce a far passare correttamente il
messaggio:
Se vota ugualmente il partito di cui non approva la leadership,
l’elettore lascia intendere che gli piace il partito E la leadership.
Se
invece non vota il partito perché non approva la leadership, passa il messaggio
che non gli piace il partito NE’ la leadership.
Appare subito chiaro che l’ unico modo per essere contati come elettori “non
entusiasti”, è quello di cambiare il sistema
elettorale aumentando le informazioni che l’ elettore può trasmettere attraverso
il voto. In fondo le elezioni servono ad analizzare le reali simpatie degli
elettori, e l’ analisi è tanto migliore quanti più dati si hanno a
disposizione.
In molti si sono orientati in questa direzione nel tentativo di
creare la legge elettorale definitiva, che avrebbe corretto le storture degli
attuali sistemi (voto tattico e dispersione dei voti) e che, con buona pace di
Kenneth Arrow rispecchiasse tutti i tre requisiti fondamentali: democrazia,
rappresentanza, e indipendenza dalle minoranze.
Un’ alternativa valida è il
cosiddetto voto a punteggio o range voting. Esso consiste semplicemente nell’
assegnare a ogni candidato un punteggio, ad esempio da zero a dieci.
Allora,
anziche’ un solo spazio dove porre la crocetta, se ne potrebbero mettere,
diciamo, dieci.
Se un candidato è piaciuto molto li crociate tutti, se e’
cosi’ cosi’ ne crociate solo cinque su dieci, e così via.
A questo punto,
potremmo votare anche per tutti i candidati, se vogliamo.
Durante lo spoglio
dei voti, ciascun candidato ottiene un punteggio finale che è la somma dei
punteggi ricevuti da ciascun elettore: se una scheda non riporta il punteggio
per un candidato, viene assegnato convenzionalmente il punteggio
minore.
Infine, il candidato con il punteggio totale più alto viene
eletto.
Purtroppo anche questo metodo, nonostante si sottragga al teorema di
impossibilità di Arrow, nasconde insidiose trappole tra cui il solito voto
tattico, aggravato dal fatto che ogni scheda può avere un peso molto diverso (se
9 persone assegnano 1 punto ad A e 0 a tutti gli altri, e io do 10 punti a B e 0
a tutti gli altri, vince B anche se nessun altro lo voleva).
Il voto a
punteggio ha però aggueriti sostenitori online, tra cui il matematico Warren D.
Smith, curatore di un esaustivo sito di propaganda a favore del voto a punteggio
in cui vengono spiegati i vantaggi matematici del metodo. Secondo Smith le
simulazioni indicano che il voto a punteggio è comunque il più resistente, cioè
quello dove il risultato finale si piega meno al voto tattico, nonché in media
quello che dà un risultato più corrispondente alla volontà degli elettori.
Un’ altra teoria apparentemente assurda che però merita di essere menzionata
è “il random ballot”, ovvero la lotteria dei voti: in un’ elezione o un
referendum la scheda di un elettore viene estratta casualmente e quella scheda
decide l’ esito dell’ elezione. Si tratta di un metodo assolutamente
rappresentativo in quanto la probabilità di estrazione di un candidato è
proporzionale al numero di voti ricevuti, ed è anche “strategy-free” in quanto
non vi sarebbe nessun vantaggio dal voto tattico. Ovviamente però, non assicura
che il candidato più votato sia quello effettivamente estratto.
Del resto,
Einstein è stato smentito quando diceva che “Dio non gioca a dadi”perciò,
ammesso che la democrazia sia il migliore metodo di governo, chissà se un giorno
scopriremo che affidarci al caso sia il miglior metodo per farla
funzionare.