Il rapporto tra la Natura e l’uomo nelle poesie di Leopardi, Carducci e Pascoli
Nell’800, con la nascita del romanticismo e del neoclassicismo, torna tra i grandi temi della poesia italiana quello della Natura. Attraverso l’analisi dei componimenti di Leopardi, Carducci e Pascoli, è possibile assistere alle diverse interpretazioni che questi tre grandi autori del secolo XIX danno al significato della Natura e del suo rapporto con l’uomo.
In Giacomo Leopardi, emblematico per la sua collocazione a cavallo tra il romanticismo e il classicismo, la Natura segue il percorso del pensiero filosofico dell’autore: in un primo periodo, o fase del pessimismo storico, questa è considerata un’entità benefica e positiva, poiché produce solide e generose illusioni che rendono l’uomo capace di virtù e di saggezza. Nella seconda fase, definita del pessimismo cosmico, si giunge alla concezione della Natura matrigna, cioè di una Natura che non vuole più il Bene e la felicità per i suoi figli. Essa è infatti la sola colpevole dei mali dell’uomo; è ora vista come un organismo che non si preoccupa più della sofferenza dei singoli, ma che prosegue incessante e noncurante il suo compito di prosecuzione della specie e di conservazione del mondo, in quanto meccanismo indifferente e crudele che fa nascere l’uomo per destinarlo alla sofferenza. Leopardi sviluppa quindi una visione più meccanicistica e materialistica della Natura, una Natura che egli con disprezzo definisce matrigna. L’uomo deve perciò rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato. Il destino dell’uomo, ovvero la sua malattia, è in fondo lo stesso per tutti. In questa fase Leopardi ha capito che è inutile ribellarsi, ma che bisogna invece raggiungere la pace e l’equilibrio con se stessi, in modo da opporre un efficace rimedio al dolore. Ed è proprio la sofferenza che Leopardi reputa la condizione fondamentale dell’essere umano nel mondo. Significativo, a questo proposito, è un passo tratto dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 100-104), nel quale emerge tutta la sfiducia verso la condizione umana nel mondo da parte del poeta, una condizione fatta di sofferenza e di sempiterna infelicità.
«Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’essere mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.»
Il poeta, che si cela dietro il pastore, ricava dalla sua esperienza materiale (conosco e sento) la certezza del male, come carattere indubitabile della propria vita. E la Natura, rappresentata dalla luna al quale il pastore si rivolge, rimane silenziosa di fronte alle domande esistenziali dell’uomo alle quali non può o vuole rispondere, dimostrando ancora una volta di essere matrigna.
La negatività della Natura è possibile rintracciarla anche ne l’Ultimo canto di Saffo dove il dramma di Leopardi, che si identifica con Saffo, coincide con il conflitto uomo-natura.
«Vile, o natura, e grave ospite addetta
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo.»
In questa poesia alla bellezza armoniosa della natura si contrappone la bruttezza fisica e l’infelicità di Saffo, che ne è crudelmente esclusa. La vile natura non cede alle suppliche di Saffo, che profondamente soffre per il suo amore non corrisposto e per la sua disarmonia con l’universo.
è dunque, quello tra natura e uomo, un rapporto estremamente conflittuale per il Leopardi, che non può essere in alcun modo risolto. Solo negli ultimi anni della sua vita Leopardi trova un modo per opporsi alla negatività dell’universo e lo espone nella ultima sua poesia La ginestra, considerata l’estremo messaggio della riflessione filosofica del poeta: prendere atto dell’infelicità collettiva così da stabilire un rapporto di solidarietà tra tutti gli uomini. In particolare negli ultimi versi della lirica, senza presunzione o sottomissione alla potenza della natura, l’autore accetta con dignità il suo destino. L’umanità, dal fiore della ginestra, dovrebbe imparare a trascorrere una vita serena, senza tracce di superbia.
Assai differente è invece la concezione della natura di Giosuè Carducci che abbraccia completamente il neoclassicismo tanto da dichiararsi «scudiero dei classici». Il rapporto con la natura è posto sempre all'inizio di ogni sua poesia, ma questo non significa che esso sia il più sentito. In effetti, la natura, nella sua poetica, non riesce a svolgere quel ruolo mediatore o catartico ch'egli le vorrebbe assegnarle; ciò proprio in virtù del fatto che il poeta ha consapevolezza dell'importanza di un altro rapporto: quello politico-ideale con la società. L'incapacità di vivere in modo adeguato tale rapporto ha fatto sì che nelle sue ultime poesie domini l'elemento elegiaco, anche quando si è in presenza di una vigorosa descrizione dell'ambiente naturale. La natura, in altre parole, non viene qui usata come strumento per "cantare" i successi della società o la realizzazione degli ideali politico-sociali, ma diventa la cornice (mai comunque formale o superficiale) che racchiude il quadro di una vita disillusa. Per esempio in San Martino l'esordio è tutto paesaggistico: il poeta traccia anche uno schizzo di vita agreste, rurale, ma il finale resta malinconico. Il cacciatore, dietro al quale si cela il poeta, fischia non lontano dallo spiedo, lasciando presagire una vita soddisfatta di sé (l'aspro odor dei vini,l’anime a rallegrar). Tuttavia l'apparente felicità nasconde una tristezza: i pensieri sono esuli. Cioè, perché l'uomo possa sopravvivere, sembra che la felicità debba pagare un alto prezzo: la morte del pensiero, la fine dell'autoconsapevolezza, la rinuncia all'ideale. Di questo il cacciatore-poeta è cosciente e, per quanto fischi, non può fare a meno di rimirar gli stormi-pensieri (ovvero gli ideali irrealizzati) che se ne vanno. Soltanto la natura, in ultima istanza, o la semplicità delle cose tradizionali, può attenuare lo sconforto del poeta.
Dunque in Carducci la natura incomincia ad assumere quel valore simbolico che diventerà totale poi in Giovanni Pascoli.
La rappresentazione della natura in quest’ultimo è una grande metafora di un mondo invisibile che il poeta riesce a portare alla luce.
Un esempio palese è quello della poesia Il Gelsomino notturno, in cui tutto si fa simbolo di qualcos’altro e la natura viene descritta tramite figure retoriche d’impatto come la sinestesia o la metafora. La natura diventa dunque universale e ha dentro di se una enorme vastità di temi.
Essa allora non è un semplice scenario, ma un organismo vitale e dinamico da cui scaturisce simultaneamente la poesia che si trova nella realtà stessa, senza aggiungere ad essa delle costruzioni immaginarie. La poesia, infatti, non è invenzione, ma scoperta, intuizione, emozione del poeta-fanciullo (un poeta semplice e diretto): tutte le cose della natura e della realtà meritano l’attenzione del poeta-fanciullo.
Altro aspetto della natura pascoliana è quello rasserenante, con i suoi cicli stagionali, il lavoro agreste che si ripete come un rito liturgico, la sua serenità e semplicità.
La malinconia però è talvolta presente e viene accentuata dai colori del paesaggio: un esempio è quello della poesia Lavandare.
«Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.»
Le posizioni di Pascoli e Carducci sono quindi antitetiche rispetto a quelle del Leopardi, in cui è preponderante il carattere filosofico. Mentre quest’ultimo resta ancora legato alla tradizione romantica gli altri due sono proiettati verso la modernità, anche se da un punto di vista fortemente classicista.