Che hai, che abbiamo, che ci accade? Ahi il nostro amore è una corda dura che ci lega ferendoci e se vogliamo uscire dalla nostra ferita, separarci, ci stringe un nuovo nodo e ci condanna a dissanguarci e a bruciarci insieme. Che hai? Ti guardo e nulla trovo in te se non due occhi come tutti gli occhi, una bocca perduta tra mille bocche che baciai, più belle, un corpo uguale a quelli che scivolarono sotto il mio corpo senza lasciar memoria. E che vuota andavi per il mondo come una giara di color frumento, senz'aria, senza suono, senza sostanza! Invano cercai in te profondità per le mie braccia che scavano, senza posa, sotto la terra: sotto la tua pelle, sotto i tuoi occhi, nulla, sotto il tuo duplice petto sollevato, appena una corrente d'ordine cristallino che non sa perché corre cantando. Perché, perché, perché, amore mio, perché?
La fatica è sedersi senza farsi notare. Tutto il resto poi viene da sé. Tre sorsate e ritorna la voglia di pensarci da solo. Si spalanca uno sfondo di lontani ronzii, ogni cosa si sperde, e diventa un miracolo esser nato e guardare il bicchiere. Il lavoro (l'uomo solo non può non pensare al lavoro) ridiventa l'antico destino che è bello soffrire per poterci pensare. Poi gli occhi si fissano a mezz'aria, dolenti, come fossero ciechi. Se quest'uomo si rialza e va a casa a dormire, pare un cieco che ha perso la strada. Chiunque può sbucare da un angolo e pestarlo di colpi. Può sbucare una donna e distendersi in strada, bella e giovane, sotto un altr'uomo, gemendo come un tempo una donna gemeva con lui. Ma quest'uomo non vede. Va a casa a dormire e la vita non è che un ronzio di silenzio. A spogliarlo, quest'uomo, si trovano membra sfinite e del pelo brutale, qua e là. Chi direbbe che in quest'uomo trascorrono tiepide vene dove un tempo la vita bruciava? Nessuno crederebbe che un tempo una donna abbia fatto carezze su quel corpo e baciato quel corpo, che trema, e bagnato di lacrime, adesso che l'uomo giunto a casa a dormire, non riesce, ma geme.
Cesare Pavese
LA SCONOSCIUTA
Nelle serate sopra i ristoranti l’aria infocata è selvatica e sorda, e governa il clamore degli ubriachi lo spirito pernicioso della primavera.
Lontano, sulla polvere dei vicoli, sul tedio delle ville suburbane, s’indora la ciambella d’un fornaio, ed echeggia un pianto di bambini.
Ed ogni sera, dietro le barriere, con il tubino sulle ventitré, passeggiano tra i borri con le dame esperti bontemponi.
Sopra il lago cricchiano gli scalmi, ed echeggia uno strillo femminile, mentre, abituato ad ogni cosa, in cielo stupidamente il disco si corruga.
Ed ogni sera l’unico mio amico si riverbera nel mio bicchiere e dall’acerbo e misterioso liquido è, come me, sottomesso e stordito,
mentre d’accanto, ai tavoli vicini, sonnacchiosi lacchè stanno impalati, e gli ubriachi dagli occhi di conigli si affannano a gridare “In vino veritas!”
Ed ogni sera, all’ora stabilita (oppure è questo solamente un sogno?), una fanciulla inguainata di seta nella finestra nebbiosa si muove.
Lentamente, passando fra gli ubriachi, sempre senza compagni, sempre sola, esalando caligine e profumi, si va a sedere presso la finestra.
Ed effondono antiche credenze le sue elastiche vesti di seta, e il cappello con piume di lutto, e la stretta mano inanellata.
Avvinto dalla vicinanza strana, guardo di là dalla scura veletta, e vedo una riva incantata ed un’incantata lontananza.
Cupi arcani mi sono confidati, un estraneo sole mi è commesso, ed il vino acerbo ha penetrato tutti i meandri dell’anima mia.
E le piume di struzzo inclinate vacillano nel mio cervello, e gli occhi azzurri senza fondo fioriscono su una riva lontana.
Nella mia anima giace un tesoro, la cui chiave è affidata solo a me! Hai tutte le ragioni, mostro ubriaco! Lo so bene: la verità è nel vino.