Il re Geroboamo ristabilì i confini di “Israele, secondo la parola del Signore Dio di Israele, pronunziata per mezzo del suo servo il profeta Giona, figlio di Amittai, di Gat-hefer”. Così il santo profeta oggi in questione viene citato nel Secondo Libro dei Re (14,25). La vicenda si colloca a Samaria, capitale del regno settentrionale di Israele, nell’VIII secolo a.C., sotto il regno di Geroboamo II, epoca florida ma al tempo stesso colpita anche da ingiustizie sociali. Polemica si alzava la voce del profeta Amos, ma fa capolino anche il profeta Giona il cui nome ebraico Jonah significa in italiano “colomba”. Il ricordo di Giona è però rimasto ben fisso nella memoria popolare grazie a quell’immenso cetaceo, la balena, da cui sarebbe stato inghiottito. La storia dell’arte si è sfogata al riguardo con un’infinità raffigurazioni, a partire dalle catacombe di San Callisto a Roma (II secolo) sino alla recentissima cappella Redemptoris Mater in Vativano (fine XX secolo). Occorre in realtà notare che il libro biblico a noi giunto con il suo nome non costituisce che una sorta di tarda parabola scritta a posteriori. Essa ha posto al centro della scena l’antico profeta d’Israele presentandolo con un tocco ironico quale uomo lamentoso, pauroso, preoccupato dei suoi problemi e renitente alla chiamata di Dio.Giona fu infatti inviato da Dio a predicare a Ninive, grande capitale orientale assira, ma egli preferì invece imbarcarsi per Tarsis, lontano centro occidentale, forse identificabile con Gibilterra o con la Sardegna. Il mare burrascoso ed il mostro marino che lo inghiottì simboleggiano la morte, una dura prova, ma anche infine una sorta di liberazione. Purificata la sua anima, il profeta dovette rassegnarsi a recarsi a Ninive ed il successo della sua missione è così descritto: “I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì. La vicenda di Giona non termina però qui. Infatti questo profeta un po’ petulante ebbe ancora a trovare di che lamentarsi. Sostando quietamente sotto un frondoso albero di ricino, in cuor suo macinava di acredine aspettandosi che i niniviti, nemici di Israele, non si sarebbero convertiti, tanto da scatenare la collera e la giustizia divina anziché il perdono. Un verme si attaccò allora alle radici dell’albero e lo fece inaridire. Cadute le foglie, il sole prese a battere sul capo di Giona e si sollevò per di più il caldo vento del deserto.E’ facilmente immaginabile la protesta di questo poveruomo, adirato con tutti, compreso Dio. La voce di quest’ultimo risuonò però nuovamente forte e chiara, svelando la lezione di questa parabola, attacco ad ogni forma di grettezza, chiusura, integralismo e razzismo ed al tempo stesso celebrazione della volontà divina di salvezza per ogni creatura: “Tu ti dai pena per quella pianta di ricino ed io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone ed una grande quantità di animali?”. Il libro biblico intitolato a Giona vuole dunque essere un’esaltazione della misericordia divina, più che della vita di Giobbe. Eppure, all’alba del III millennio dell’era cristiana, ancora il nuovo Martyrologium Romanum riporta in data 21 settembre il ricordo come santo di questo personaggio vetero-testamentario: “Commemorazione di San Giona profeta, figlio di Amittai, con il suo nome viene chiamato un libro del Vecchio Testamento, e la famosa uscita dal ventre del pesce viene vista nel Vangelo come segno della resurrezione del Signore”.
Autore: Fabio Arduino