Maledetta quella benedetta casa sopra le Cinque Terre, che volevo trasformare in un cosiddetto Bed & Breakfast. Non si riesce a venderla; inoltre, un vero cretino, che mi aveva fatto alcuni lavori, ha ben pensato di muovere causa per avere denari che in realtà non avanza. Nell’istanza ha voluto tirare in ballo il mio secondogenito, mossa tattica, ritengo, per far sì che se non dovesse riuscire a spillar quattrini a me proverebbe con lui: della casa io sono usufruttuario, mio figlio titolare della nuda proprietà.
Peccato soltanto che mio figlio neanche lo conosca, che non sia affatto vero che con quella specie di imprenditore edile trattammo entrambi, come questi ha dichiarato; peccato che non vedrà un centesimo, anzi, che l’avvocato di mio figlio abbia chiesto un rimborso di cinquemila euro. Sì, perché il mio Leonardo non è più in Italia da anni: è a Barcellona, dove vive e lavora volentieri, e non è che andare a Chiavari sia una delle sua massime aspirazioni, con tutto il rispetto per la graziosissima cittadina.
L’udienza infatti è a Chiavari, il giorno primo aprile, tanto che la mattina, svegliandomi alle quattro per essere sicuro di non tardare, m’era venuto il dubbio che il tutto non fosse un ‘pesce’. Io mi sono mosso dal Garda, mio figlio da Roma, dove è rientrato da qualche settimana per un corso. A differenza di me è arrivato la sera prima e ha preso una camera in un albergo; per combinazione lo stesso albergo scelto dal suo giovane avvocato con signora, che hanno approfittato dell’udienza per far visita ad una coppia di loro amici che si trova a Lerici.
Leonardo, era dal Natale del 2009 che non lo vedevo; nel frattempo, sempre per quella maledetta casa benedetta, erano sorti dei dissapori riguardo ad un tentativo di vendita effettuato dalla madre di Pico, anche lei parte in causa e ansiosa di incassare dalla vendita. S’era messa di mezzo la madre dei miei primi due figli ed era finito tutto a messagi elettronici gonfi di sarcasmo ma ben poco pertinenti con la questione; richiami e citazioni che ricordavano liti tra comari, fomentate, va detto, dalla mia ex moglie. Donna che non ho mai capito e che non capirò mai: tra le righe si leggeva, pur senza alcuna necessità di effettuare alcuna accurata esegesi, un certo disappunto per il mio aver messo al mondo un terzo figlio senza la sua collaborazione, una specie di gelosia a scoppio ritardato. Quello che suona ancora più strano è che lei, dal canto suo, ha un compagno da anni, forse dieci; molto simpatico, tra l’altro. Ma pensa al tuo compagno, cosa vai ancora a pensare a me? Misteri della psiche...
Morale della favola: la vendita andò a monte. Questo già fu un evento non piacevole, ma vi si aggiunse una chiusura dei rapporti con i miei primi due figli, che avevano finito per travisare tutto, istigati dalla loro madre in quanto, secondo lei, io ero reo di aver procurato soltanto guai e di avervi coinvolto Leonardo. Il Natale del 2010 lo passai in maniera diversa da come in fondo mi stavo abituando: paradossalmente proprio a casa della mia ex moglie, o almeno questo era avvenuto nei due anni precedenti, con il mio Pico, con gli altri due figli, con ciò che resta della mia famiglia d’origine, cioè mio padre e mia sorella, e purtroppo senza la mia ex suocera, venuta a mancare nell’agosto 2008. Da mesi era un evitarsi, anche se per caso li vedevo presenti in Facebook: cosa dire loro, cosa dirci?
Per quanto sia, mia figlia nel gennaio 2011 mi comunicò di essere incinta, rischiando, sia pure involontariamente, di procurarmi un collasso - per la gioiosa emozione, intendo. Adesso siamo tornati a sentirci regolarmente. E Leonardo mi telefonò avvertendomi della causa, che in fondo era intestata solamente contro di lui, dicendomi di presenziare in quanto, su richiesta del suo avvocato, sarei stato ascoltato come testimone, a ribadire che tra l’imprenditore e mio figlio non poteva essere intercorso alcun tipo di rapporto.
Un accavallarsi di sensazioni: come sarà il rivederci? Avremo imbarazzo, ci guarderemo dicendoci con gli occhi tante cose che non siamo riusciti a dirci mai di persona? Come chiameremo questo periodo di assenza l’uno dall’altro? Come lo definiremo? Come lo motiveremo? Io, sì, sono imbarazzato. Lui, sì, forse è imbarazzato - e togliamo il ‘forse’. Ma finalmente ci rivediamo.
L’udienza è alle nove e trenta; l’imprenditore non si presenterà. Verremo ascoltati entrambi, a sentire l’avvocato saremo stati bravissimi. ‘Si è trattato solo di dire la verità’, sarà il mio commento.
Per un’eventuale sentenza dovrà passare un paio d’anni; per il momento c’è stato un rinvio a novembre, ma non sarà necessaria la mia presenza né quella Leo.
Al telefono ci diamo appuntamento un po’ lontano dal tribunale: non vorremmo che il causante ci vedesse insieme e riconoscesse in quel ragazzo dalla lunga chioma mio figlio, e che poi sostenesse, chissà, che andavano a cena insieme.
Eccolo, lo vedo arrivare dalla parte della stazione, lungo un vialetto alberato che è anche isola pedonale. Sigaretta in bocca - ma non aveva smesso?
Gli vado incontro, e qui le parole sono inutili: abbracci, baci, carezze. In questo momento somiglia più al Pico di sette anni che al Leonardo di ventisette.
‘Ti trovo un po’ ingrassato, il viso, più che altro’.
‘E’ a Roma che ho messo quattro chili, poi quando torno a Barcellona vedi come li butto giù. Tu, piuttosto...’
‘Io ho la ‘panzetta’ del cinquantatreenne, poi non è che faccia grande sport...’
‘Vorrei proprio vederlo, quel bastardo che m’ha tirato in ballo’.
E invece non avremo il piacere di incontrarlo; inutili le nostre precauzioni, come quella di entrare in Tribunale in momenti diversi.
Ma, come dicevo, alle undici eravamo fuori da quella bolgia, bolgia come tutti i Tribunali. C’è sciopero dei treni, la biglietteria della stazione chiusa, se chiami un numero verde ti risponde il solito disco.
Mi offro di accompagnare l’avvocato e signora fino a Lerici. Via, in autostrada; passiamo di fronte al paesello, Carrodano; sia io che Leonardo siamo in condizione di riconoscere la benedetta casetta maledetta. Un po’ di nostalgia dentro di me, no, tanta: io non stavo male in Liguria, affatto. E in quella casa avevo messo denaro, lavoro, ma soprattutto amore. Ricordi, rimpianti, ricordi di una serenità che forse non c’era neanche allora ma a volte ti viene così: ricordi il bello e basta. Il bello... questi luoghi sono meravigliosi.
Una volta a Lerici scelgo un bar un po’ in alto: giù, sul mare, parcheggiare è impossibile. Non è il miglior bar di Lerici né del mondo, ma ci si può sedere fuori e scroccare all’avvocato un giusto aperitivo, compenso per il passaggio.
Si parla della causa, si parla della possibilità di vendere la casa e a quali condizioni, soddisfacenti per tutti. Sia io che Leonardo attacchiamo con una birra media, l’avvocato si limita a un prosecchino, la signora è astemia.
Leonardo, che è particolarmente simpatico al giovane Principe del Foro, a un certo punto s’alza e va a prendere una seconda birra. Lo imito, sfacciatamente anche se non troppo: non ho permesso che l’avvocato pagasse nemmeno l’autostrada. A differenza di mio figlio, però, ho l’accortezza di andare a scaricare la birra accumulata nella vescica.
Lasciamo l’avvocato e signora e ci dirigiamo a La Spezia, con Leo che ci contorce e che invoca un angolino atto alla pipì. Ma è importante arrivare alla stazione per avere notizie.
Alla stazione giungiamo presto. Novità: stanno scavando un parcheggio sotterraneo e una sbarra telecomandata impedisce di avvicinarsi ai ferroviari edifici. Leo va su a piedi, io cerco un parcheggio. Torna giù presto, mentre io riconosco un ristorante dove proprio là, e con lui, proprio con lui, avevo pranzato anni orsono. Immagino mi raggiunga lì, sono quasi davanti al locale, lui invece vede dall’altro lato della strada un palazzo in restauro fasciato di ponteggi e approfitta per irrorare, incurante del fatto che qualcuno lo potrebbe vedere, come infatti avviene. Mi viene da ridere a guardarlo da lontano, così, impegnato nel liberarsi; passa una giovane coppia e fa il giro largo.
E’ tardino, sono le due e venti; ciononostante una prestante alta cameriera dall’aria slava, sorridente, gentile, ci dice che qualcosa si può fare. Un piatto di tortellini, buoni, e un fritto misto di pesce. E una bottiglia di bianco, e dopo il caffè l’amaro. Pago il conto e usciamo: il treno passa alle sei.
E intanto si parla, si parla del mondo, di Barcellona, di come a suo modo di vedere l’Italia sia un paese morto, di come anche Roma, che adora, è invivibile, irriconoscibile, in fondo inutile. E la Libia, e i potentati economici, e l’inarrestabile storica biblica migrazione. Prima di compiere trent’anni vuole farsi qualche mese in Australia perché fino a quest’età quel Paese ti lascia entrare e lavorare a termine: utile e dilettevole. Bene, così imparerai a capire anche loro, lingua e mentalità. Viaggia, figlio mio: io l’ho potuto fare tardi e limitatamente, e non è mai la stessa cosa. Mi mancherai, ma è giusto così.
La Spezia non è bella né mai lo sarà; nondimeno, sotto la stazione c’è una vasta area pedonale decisamente vivibile. Finiamo ai tavolini di uno dei numerosi bar, in una piazzetta.
‘Laggiù c’era il notaio che ci ha fatto l’atto di vendita’, ricorda Leo. Lo correggo gesticolando che era un po’ più in là, ma cosa importa?
E quanto mi fa male ricordare ogni cosa; mi fa male persino il fatto che lui ricordi qualcosa di un sogno naufragato. Mi sta facendo male anche La Spezia.
Giù un amaro ciascuno; Leo vuole pagare. Non immediatamente, ma dopo un po’ capisco, o mi sembra di capire, che lo fa per dimostrarmi che è un uomo, che ormai è uno che si guadagna la propria vita. Quello seguente lo pagherò io, poi un caffè, poi altri amari finché il cameriere ci suggerisce di cambiare marca perché gli abbiamo svuotato la bottiglia. E ci siamo fumati un pacchetto di sigarette a testa.
Emozione, imbarazzo? Ma certo. Miei perlomeno; ma no, anche suoi.
Leo si confessa totalmente ubriaco quando ci alziamo, sono le cinque e trenta, è ora di muoversi e lui non sa nemmeno da che parte andare. Io mi sento alticcio, sicuramente anch’io sono alterato da tutti quegli amari. E la birra, e la bottiglia di vino...
Lo guido alla stazione, non ho perso l’orientamento; l’auto è ancora là, senza multe; bene.
Manca ancora un po’ alla partenza, e Leo finalmente parla. Parla da dentro, parla con suo padre.
‘Io vorrei che tu non mi considerassi più un ragazzino. Ormai, tra mille inciampi, io sono un uomo’.
Non so cosa rispondergli, ma sarebbe inutile: in effetti ha bevuto e ripete queste parole come un mantra.
‘Leo, lo so che sei cresciuto, lo vedo, lo so da molto...’
‘Io e Federica abbiamo sofferto, lo sai?’
Il riferimento è allo sfascio della nostra famiglia quando Federica aveva nove anni, lui soltanto quattro, e nessuno gli raccontò nulla: dovette arrivare da solo alla cosa, darsi le poche spiegazioni che poteva darsi a quell’età, piangere sconsolato...
...Dio, vorrei morire...
Ma Leo non è qui per accusarmi di nulla.
‘...Non sto dicendo che è stata solo colpa tua, non ce l’ho né con te né con mamma. Guarda che alla fine i figli crescono, sanno anche perdonare... Tu sei mio padre, lo vuoi capire? Io ti voglio un bene dell’anima. Tu per me sei un grande, di te tutti possono dire tutto quello che vogliono, ma tu per me tale sei e tale resterai per sempre, lo capisci?’
E cosa capisco? Sono costretto a tirar fuori il fazzoletto dalla tasca.
‘...E non piangere, cosa c’è da piangere?’
‘...Non lo so cosa c’è, ma non riesco a frenarmi...’
Le lacrime escono da sole, gonfie; per tutto il viaggio di ritorno continueranno. Anche adesso che scrivo.
Che scena agli eventuali occhi di un estraneo. Ci potrebbero scambiare per una coppia gay che si sta accomiatando per chissà quanto tempo (e quest’ultimo fatto è purtroppo vero); ma nessuno bada a noi, e tra l’altro, anche fosse, non me ne fregherebbe un cazzo.
‘...Ma tu non pensare più a me...’
‘...E come faccio a non pensare più a te, a Federica...?’
‘No, intendevo di non stare a preoccuparti per me. Io in Spagna sto benissimo, credimi. Ma poi non intendevo questo: invece di pensare a me pensa a Giuliano...’
Come a dire: che almeno uno cresca in armonia...
‘...Pensa a Giuliano, fallo stare bene, non fargli mancare l’affetto. I soldi nun zo’ ‘n cazzo, un bambino ha bisogno d’affetto...’
Chi sta parlando adesso: il fratello maggiore di Giuliano o Leonardo che si rivede bambino? E con chi sta parlando? Con il suo adorato padre o con la concausa dei suoi malesseri che ancora trascina dietro di sé, e si vede?
‘...Non pensare a me, pensa a Giuliano. Devi volergli bene...’
Sto piangendo come una fontana. Torna su tutto, ma non è la frittura mista. Magari: è ben altro che torna su...
Ed è disarmante, quello che mi sta dicendo Leo. Forse sarebbe stato meglio se mi avesse preso a pugni dandomi dello stronzo perché non ho saputo garantirgli un’infanzia serena e che, se lo voleva, avesse fatto altrettanto con sua madre appena possibile.
Invece no: mi parla d’amore, di perdono, di affetto immutato nei miei confronti. Di stima incancellabile. Non lo merito, non sento di meritarmi queste parole. E ripete di pensare a Giuliano; intende ‘Salva almeno lui’, lo capisco, credo di capire così.
Il fazzoletto è ormai da buttare, nessuno bada a noi, Leo continua a ripetere queste parole, Dio, quante volte le ripete? E le mie lacrime non riescono a fermarsi.
Di cosa piango? Di dolore, di pentimento, di rimorso e rimpianto per tante cose che avrei potuto fare e che non ho fatto per lui, per sua sorella, per tutti me compreso? O perché mi trovo in Liguria e c’è un rigurgito di tutto? Piango per senso di colpa? Perché in lui rivedo anche me bambino e poi ragazzo, e poi costretto a vestire i panni, a recitare la parte dell’adulto? Perché lui forse non lo sa, ma è vero che la miglior vendetta è il perdono? Ma lui, poi, vuole vendicarsi? Cosa me lo fa pensare? Lui non vuole vendicarsi, vuole solo dirmi che mi vuole bene. Piango di felicità per la bella giornata, per l’essersi ritrovati e parlati, per il sentirmi dire quello che mi sento dire? Piango per la generosità di Leo, che mi dice di salvare almeno il fratellino? Per l’affetto che mostra verso questa creatura cui lo unisce solo il padre, l’amato padre?
Sì, anche di felicità: ho ritrovato mio figlio; e non un figlio qualsiasi, un grande figlio. Un cuore nobile, che sa amare; e piango perché sappiamo, ora lo so più di quanto non avessi mai capito in tutti questi anni, di volerci bene.
E sinceramente auguro a tutti di sentirsi parlare un giorno così dal proprio figlio, anche se non lo avranno meritato: vorrà dire che il figlio sarà diventato migliore di loro.
E oggi che scrivo vorrei fosse ancora ieri.