La notte aveva sciolto l’afa, ed il mattino regalava brezze fresche e profumate; il sonno era profondo e piacevole.
(…pumpumpum….)
Quasi un richiamo.
(…pumpumpumpum….)
Più vicino, proprio sotto la finestra della camera, a nord, che dava sul campo di grano, dove in un paio di giorni avevano mietuto manualmente le ‘strade’, il passaggio per il trattore e la mietilegatrice.
Sfumavano i sogni lasciando spazio alla realtà, al meraviglioso mattino d’estate, alla giornata senza pensieri, promessa d’avventure non programmate.
Prepararono la macchina, i cui mille movimenti di cinghie, nastri e catene erano generati dal ruotone di ferro dalla superficie chiodata per far presa sul terreno, e che era l’unico sostegno.
Il tempo di fare colazione, al piano di sotto, che già i covoni delineavano file perfette, e il lavoro cambiava di colpo una scenografia costruita con serena dolcezza ed armonia in otto mesi, che dopo la fatica creava speranze ed apprensioni.
Il vecchio Landini fiammeggiava, ed era solo per uno di quei miracoli così frequenti che nessuno prende mai per tali che il campo non se ne fosse andato in fuoco e cenere.
Nell’aria satura d’aroma di grano e camomilla volteggiavano rondini pronte al banchetto d’insetti che cercavano di sfuggire al trambusto ed al rumore, incontrando ben più tragico destino.
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Prese il vecchio canestro di vimini tutto rattoppato e rabberciato da spaghi sfilacciati e filo di ferro arrugginito, si avvolse la testa in un grosso fazzoletto si tela, ed, entrata nel campo mietuto, cominciò a raccogliere le spighe cadute a terra, che sarebbero andate perse.
(L’aroma del grano si fondeva con quello del fieno e del mais in fiore).
Non ne avrebbe avuto bisogno: la manciata di frumento che faticosamente avrebbe ricavato sarebbe servita come sollazzo per i due polli che teneva per l’arrivo del suo ‘Chele’, emigrato in Francia, ma ai volatili non sarebbe comunque mancato di che dar sostanza al ventriglio.
Il sudore le rigava la faccia, e sicuramente le doleva pure la schiena, ma non c’erano segni di sofferenza o altro sul viso: l’espressione era serena.
Guardava ed ascoltava.
Vedeva ciò che gli occhi non sapevano vedere, ed ascoltava ciò che l’udito non sapeva sentire.
Colori e suoni portati da brezze senza origine e senza meta, non inquinate da logiche, interessi o ragioni, brezze distillate dall’esistenza che come l’acqua di un fosso dal percorso tortuoso esce dal suo alveo e frena la sua irruenza allargandosi in un campo assetato, avanzando dolcemente in un concerto di mille piccoli suoni che solo il cuore sa udire.
Il sole del pomeriggio ambrava la pelle lucida e pulita dall’acqua della roggia; sul porticato seccavano le spighe.
Ritmavano sulla strada passi affaticati di un cavallo che tirava un carro pieno di covoni; i polli razzolavano accaldati nel piccolo cortile.
Mi sdraiai sulla vecchia e cigolante ottomana; nell’aria c’era odore di soffritto, preludio alla cena.
Dolcemente, mi alzai in volo.