L’aula diventava sempre più stretta e le parole della maestra sfuggivano, vuote di significato, all’attenzione.
Perfino il ronfare della stufa di terracotta, che qualche tempo prima invitava alla serenità, era fastidioso.
Guardavo i rami del grande tiglio, fuori dalla finestra, sperando di riuscire a vedere le gemme ingrossarsi; ma l’inizio di febbraio non elargiva ancora segnali di primavera, pur regalando un sole più luminoso e meno obliquo.
Avevo arraffato qualche fiammifero in cucina e me n’ero andato in campagna, sottraendo il pomeriggio a noiosi compiti scolastici,
La riva del fosso, che scorreva da est a ovest, era ricoperta di folta erba secca, resa asciutta dal favonio, che portava illusioni ancora lontane, e sottraeva alla terra aromi che l’inverno aveva nascosto.
L’erba s’incendiò in un battibaleno, esaurendo in poco tempo le fiamme, che sospinte dal vento correvano nella sua direzione, alimentate da nuova esca, e lasciavano intravvedere il terreno nudo, coperto da un sottile strato di cenere leggerissima, dispersa quasi subito.
Era una delle poche cose che erano tollerate, in quanto si puliva il fosso, ora vuoto , permettendo, nel tempo dell’irrigazione, all’acqua di scorrere spedita.
Febbraio ingannava.
Nevicò, e la neve seppellì l’illusione.
Il canto della stufa ritornò gradevole e scomparve la voglia di aria aperta.
Dimenticai le gemme, dimenticai il fosso, e la noia dei compiti si assopì, con la voglia di stare in casa.
Ma febbraio scordò in fretta i suoi tradimenti, e aumentavano in le macchie scure nei campi.
La riva del fosso aveva qualcosa di strano: c’erano altre chiazze che cominciavano a nascondere la nuda terra, quasi regalate dalla neve che si scioglieva.
Il tempo s’illuminò, e l’illusione mutò in certezza. Un male incurabile stava minando l’inverno, e a nulla sarebbero serviti i suoi ultimi rantoli.