Una brezza fredda irrideva l’agonia della foglia solitaria sul ramo più alto, staccandola ed accompagnandola nell’ultima danza e facendola cadere sconfitta nel campo seminato a grano; il filare di gelsi, tristi nobili oramai decaduti, segnava il percorso del fosso e separava la nuova coltivazione dal prato a foraggio.
L’erba era stanca e le mucche non avevano granchè da pascolare, ma a loro bastava, o forse erano contente di sgambare e starsene all’aria. Ognuna aveva il suo nome ed ognuna lo riconosceva; la più mansueta portava il campanaccio, i cui rintocchi venivano portati lontano dal vento. Tarzan s’era defilato: non s’adattava ai ragazzi, e soprattutto girava alla larga da me. Gli avevo causato una robusta dose di immeritati calcioni sferrati da mio padre, ma forse li avrei dovuti prendere io: continuavo a stuzzicarlo con un bastone e lui m’aveva aggredito, azzannandomi ad un braccio.
Senza aiuto dovevo arrangiarmi da solo a contenere la mandria nell’appezzamento riservato per la giornata; le bestie sapevano chi stava facendo loro la guardia e se n’approfittavano per farmi correre di qua e di là per riportarle nel loro territorio.
Ora s’erano acquietate e, sdraiate, ruminavano tranquille. Il verde fresco e primaverile del grano ammoniva l’arroganza dell’autunno e dell’imminente inverno, e contrastava coi colori sbiaditi della stagione.
L’aria tersa aveva avvicinato le montagne, a nord, e questo mi creava un senso d’inquietudine: non era il mio mondo ed era estraneo alla mia esistenza. Ero avvolto in una vecchia coperta di lana scura.
Il pomeriggio stava morendo giovane; l’aria era gelida ed ogni tanto sentivo pungere le guance.
(Arrivarono gli uomini per il ritorno alla stalla).
Il canto allegro della stufa e la luce tremolante della lucerna a petrolio conciliavano il sonno, quiete interrotta dallo scatto della spadoletta della porta che dava alla stalla. Entrò con il pentolino pieno di latte appena munto e lo mise sulla stufa, senza mai staccarvi l’occhio (la donna la fa al diavolo, ma non al latte, mi diceva sempre), e poco dopo la mia cena era pronta.
Era bello, nella casa tiepida, sapendo il fuori buio e freddo.
M’accompagnò sullo scalone di legno con la lucerna in mano, e passando davanti alla finestra, la luce, pur fioca, rubò all’esterno l’intimità della danza di petali bianchi che profumavano di silenzio la notte, rendendola quasi luminosa.
Scostò la pesante trapunta rattoppata e tolse lo scaldino: sentivo aroma di legne e m’infilai nel tepore.