La sera del 5 maggio 1860 nel porto di Genova una quarantina di uomini si raccolgono alla spicciolata su una tartana. Non c'è sorveglianza particolare, però è meglio non dare troppo all'occhio. Il 2 Cavour con una rapida corsa in treno si è incontrato a Bologna col re, giunto in carrozza da Firenze. Non si sa (e non si saprà in seguito) cosa si siano detti: resta il fatto che Garibaldi è lasciato libero di condurre i preparativi. Il commando, agli ordini di Bixio, si avvicina a due piroscafi alla fonda, il Piemonte e il Lombardo, di proprietà della compagnia Rubattino. Fauché ha assicurato che sono senza carico e in grado di prendere il mare. I nuovi venuti vanno all'arrembaggio. Alcuni marinai si rifiutano di collaborare e sono lasciati andar via; altri restano e assicurano le manovre. La partenza non è immediata. Bisogna forzare alcune porte, di cui non si trovano le chiavi, accendere il fuoco alle caldaie, farle andare in pressione, mettere in moto le macchine. Quelle del Lombardo non si avviano facilmente. Il Piemonte, pronto più presto alla navigazione, lo prende a rimorchio. Garibaldi alle otto e mezzo è uscito da Villa Spinola. Ha indossato la camicia rossa, che d'ora in poi porterà sempre: non è la tunica di Montevideo, ma una vera camicia, che s'infila nei calzoni; di sopra ha messo il poncho americano, al collo ha un fazzoletto colorato. è armato di tutto punto, con sciabola, pugnale e pistola. Vede scorrere le ore. Teme che sia sorto qualche impedimento. Balza su un canotto, va incontro alle due navi, sale sul Piemonte, assume il comando della flottiglia. C'è uno splendido chiaro di luna. Le due navi si portano al largo di Quarto. I volontari, ammassati da ore sulla riva, si affollano su barche e chiatte e s'imbarcano. Sono portati a bordo i fucili: viveri e munizioni devono essere presi in mare. Bertani consegna a Garibaldi 90.000 lire. Con altre piccole somme di varia provenienza, il capitale con cui parte la spedizione arriva ad appena 94.000 lire. Il generale ha giustificato la sua iniziativa in un messaggio al re.
Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi compagni d'arme. lo non ho consigliato il moto insurrezionale dei miei fratelli di Sicilia; ma dal momento che si sono sollevati a nome dell'unità italiana di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la più infame tirannide dell'epoca nostra, non ho esitato a mettermi alla testa della spedizione.
Unità e Vittorio Emanuele, quindi, è il suo grido di guerra; in caso di vittoria ornerà la corona del re «di questo nuovo e brillantissimo gioiello». Lo stesso programma lo ha esposto in un proclama agli italiani, invitati a soccorrere i siciliani «colla parola, coll'oro, coll'armi e soprattutto col braccio» e a sollevarsi nello Stato romano e nel Mezzogiorno. A Bertani lascia l'incarico di raccogliere quanti mezzi sarà possibile per coadiuvare l'impresa, ricordando che «l'insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla, ma nell'Umbria, nelle Marche, nella Sabina, nel Napoletano, ecc., dovunque sono dei nemici da combattere». Dal punto di vista operativo il compito di inviare «soccorsi di gente ed armi» in Sicilia e dovunque scoppierà la rivoluzione lo affida al Medici, rimasto, perciò, a Genova. Davanti ai suoi occhi si leva l'immagine di un'Italia pronta a balzare in armi contro il Borbone, il papa, l'Austria. È spuntata l'alba del 6. Il Piemonte porta 300 volontari: il capitano è il siciliano Salvatore Castiglia (da lui Garibaldi si è informato su velocità e armamento delle navi da guerra napoletane); sul Lombardo, al comando di Bixio, se ne trovano 800. Non tutti quelli che si sono presentati hanno trovato posto a bordo. I volontari per successive spedizioni ci sono già. Quanti sono con precisione gli uomini stipati sui due mercantili? A Genova partono in 1162; a Talamone, i Mille di Marsala diventeranno 1089, o almeno tanti ne saranno registrati quando sarà fatto l'elenco ufficiale nel 1878. Sono professionisti, studenti, artigiani, operai: tra loro si contano all'incirca 250 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e altrettanti capitani di mare, un centinaio di commercianti, una decina di artisti, pittori e scultori; c'è qualche prete; è presente una donna, Rosalia Montmasson, moglie di Crispi, in abito maschile. Sono quasi tutti italiani, e in gran maggioranza settentrionali: le più rappresentate la provincia di Bergamo (163) e la Liguria (154); i sudditi borbonici sono meno di un centinaio. Ci sono veterani e reclute, patrioti sfuggiti alle forche e alle prigioni, idealisti che inseguono sogni di gloria, letterati in cerca di emozioni, infelici che desiderano la morte, miseri che sperano in una sistemazione. Il più anziano, Tommaso Parodi, genovese, ha quasi settant'anni; il più giovane, Giuseppe Marchetti, di Chioggia, partito col padre, di anni ne ha undici. Solo 150 hanno la camicia rossa. I più sono vestiti in maniera disparata: «variovestiti», li definirà Garibaldi, con un efficace neologismo. Secondo Giuseppe Bandi, uno dei memorialisti dei Mille, il più attento agli aneddoti e alle note di colore:
cominciando dalla gran palandra nera e dal cappello a cilindro del Sirtori e andando giù giù fino alle fogge di vestire a uso Emani, tutti i modelli del figurino, vecchio e nuovo, v'erano rappresentati. Crispi, con un palamidone stretto stretto che mostrava la corda; Carini, col berretto da viaggio all'inglese e un soprabituccio spelacchiato e corto corto; Calona, vecchio siciliano dai capelli bianchi, con uno sgargiante abito rosso e un gran cappello nero alla Rubens, con una lunga, ondeggiante penna di struzzo. Poi, il canonico Bianchi, mezzo vestito da canonico, e parecchi bei giovani di Lombardia vestiti all'ultima moda; e uniformi di linea e dei Cacciatori delle Alpi e costumi da marinaio, e una gran folla di camicie rosse, che formavano, con la loro massa vivace, il fondo del quadro
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