Vi chiederete cosa è lo Jamar.
E' uno squisito formaggio che stagiona
in una grotta del Carso.
JAMAR, IL FORMAGGIO DI GROTTA DEL CARSO
Un viaggio speleologico, una vera scoperta casearia.
Ho incontrato per la prima volta Dario Zidaric lo scorso autunno, durante una lezione-degustazione di formaggi organizzata dallo IAL Friuli Venezia Giulia nella sua splendida sededidattica, l’Expomittelschool di Trieste.
Non poteva non colpirmi fin da subito la monumentale figura di Dario, coi suoi baffoni sorridenti e le grandi mani che mi porgevano un formaggio piuttosto strano. Me lo presentò con timidezza e orgoglio non comuni e con delicatezza me lo pose tra le mani, quasi senza una parola, se non il nome che gli aveva dato: “Jamar”. In sloveno Jamar significa grotta, o meglio quel particolare tipo di grotta che caratterizza il Carso, profonda e chiusa a fiasco.
Mi raccontò di averla scoperta casualmente, proprio dietro casa, ai margini del bosco e di aver deciso di utilizzarla per affinarvi il formaggio; il risultato, ora, stava sotto i miei occhi: un formaggio dalla buccia rugosa e granulosa, brunita, dal profumo intenso di muffa e terra.
Al taglio il formaggio non offriva resistenza e una volta aperto sprigionò la lucentezza della pasta, umida e grassa, di colore giallo paglierino e priva di occhiature; al gusto era cedevole, intensa, lunga. Una vera scoperta!
La curiosità quindi di visitare il luogo dove nasce lo Jamar si tramutò nella promessa di una visita nella successiva bella stagione. Ed ecco allora che a fine giugno, finalmente, organizziamo l’escursione; già, perché di vera avventura si è trattato.
Usciti al casello di Trieste, proseguiamo per Prepotto, dove ci attende Dario, che ci giuda tra le colline del Carso dove ha sede il piccolo caseificio artigianale della famiglia Zidaric.
Qui assistiamo alla preparazione del formaggio: il latte, particolarmente grasso e profumato, viene conferito ogni giorno da alcuni piccoli allevatori della zona e proviene da vacche di razza pezzata rossa e bruna alpina che pascolano liberamente le erbe odorose del Carso, (santoreggia, finocchio selvatico, cisto): una buona premessa e promessa.
Dopo averlo riscaldato in una grande caldaia di rame sino a 41° Dario versa il caglio e attende la caoagulazione. C’è da attendere qualche minuto, ora, per poi procedere ad ogni successiva operazione, dalla rottura lenta della cagliata con lo spino, fino all’estrazione e allo sgrondo della stessa, che viene infine posta in forma entro fascere di legno, salata a secco e pressata per almeno quattro giorni.
Al quinto giorno il formaggio verrà liberato dalle fascere e posto in cantina a riposare per un mese, al termine del quale si sarà formata una buccia e si sarà pronti per l’affinamento nel buio e nella quiete assoluta della grotta.
Sin qui nulla di avventuroso, il semplice ripetersi di gesti lenti e antichi comuni a tutte le tipologie artigianali della casearia.
La nostra avventura inizia ora: Dario ci ha preparato tutto l’armamentario per poterci calare nella grotta: tute, imbragature, funi e moschettoni, caschetti e lampade.
Ci prepariamo e quindi iniziamo a inoltrarci nel bosco, siamo un gruppetto di sei persone e visti da fuori potremmo sembrare una squadra di esploratori del National Geografic, con tanto di telecamere, fari, microfoni e macchine fotografiche invece che dei semplici reporter del gusto.
Una radura segna l’ingresso della nostra grotta: è uno strettissimo buco dove ci caliamo uno per volta assistiti da Josko, la guida speleologica che ci accompagna. Scendiamo lungo freddissime e ripide scalette di ferro e giungiamo su una piattaforma dalla quale, attaccati poi a un verricello, proseguiremo la nostra calata nel vuoto sino a 80 metri sottoterra.
Già qui il silenzio è impressionante, interrotto solo dal lento e sordo ticchettio di enormi gocce d’acqua, proprio quelle che hanno formato, nei millenni, le stalattiti e stalagmiti che improvvisamente illuminate, ora, ci circondano: uno spettacolo emozionante di canne d’organo, guglie e torri disegnate dal tempo.
E qui il tempo si ferma, non esistono orologi e telefonini, giorno o notte o stagioni: il clima qui dentro è immutabile, 9° costanti e 90% di umidità, e sono proprio queste le caratteristiche ambientali ideali per il formaggio, ed è per questo che lo Jamar diventa qui sotto, davvero, un grande formaggio.
Ma le curiosità che riguardano lo Jamar non finiscono qui. L’inventiva di Dario lo ha portato organizzare un’originale maniera di far soggiornare in grotta i suoi formaggi. Troppo laborioso e scomodo in questa situazione doveva essere il periodico rivoltamento delle forme sulle assi di legno; e quindi i formaggi, una volta calati in grotta vengono avvolti in una rete a maglie larghe e appesi a pali di legno, sospesi nell’aria.
Dopo quattro mesi di soggiorno in grotta lo Jamar è pronto, la buccia si è ricoperta di muffe e da un polveroso strato di acari: le forme andranno quindi, una volta riportate alla luce (e potete immaginarne la difficoltà) accuratamente spazzolate e pulite, prima di poter essere, finalmente, è proprio il caos di dirlo, consumate.
Nell’infinito paesaggio di finte grotte e soprattutto di finti formaggi di grotta, finalmente e per fortuna una vera grotta e un vero formaggio di grotta.