All'alba il dolore è stanco
All'alba il dolore è stanco il corpo si abbandona sulla terra umida. Lento dalla ferita sorge il sole mentre la notte ha già preso il largo su una scialuppa di fortuna. Forse questa giornata approderà su un colle e gli uomini si chineranno a raccogliere frutti di generazioni mandate al sacrificio.
Sono venuto nel tuo paese con il cuore in mano Espulso dal mio, Un pò volontariamente e un pò per bisogno Sono venuto, Siamo venuti per guadagnarci da vivere, Per salvaguardare la nostra sorte, Guadagnare il futuro dei nostri figli, L'avvenire dei nostri anni già stanchi, Guadagnarci una prosperità che non ci faccia vergognare, Il tuo paese non lo conoscevo E' un immagine... Un miraggio, credo, ma senza sole... Siamo arrivati qui ad informare, con un canto di follia nella testa... E già la nostalgia e i frammenti del sogno... Sopravviviamo tra l'officina o il cantiere e i pezzi del sogno Il nostro cibo, la nostra dimora Dura l'esclusione Rara la parola rara la mano tesa.
Dalle ceneri
Quel corpo che già fu un corpo non si attarderà più sulle rive del Tigri o dell’Eufrate raccolto da una pala che non avrà ricordo di dolore alcuno messo in un sacco di palstica nero quel corpo che già fu un’anima, un nome e un volto ritorna alla terra delle sabbie rifiuto e assenza.
Quella terra avida di acqua non ha avuto che il sangue per irrigare il grande silenzio quel deserto afflitto ha aperto le trincee del sonno. E in un baleno gli uomini si sono riversati dentro a migliaia la pelle scorticata una candela accesa vegliata all’interno della gabbia toracica defunta. Un poco di cielo abitava quei corpi votati all’oblio. Una coperta di sabbia è stata deposta su quei sacchi neri da una mano metallica. Niente si muove più. Neanche i ricordi ardenti dei primi amori. Nemmeno l’uccello sconosciuto venuto da un giorno lontano per la preghiera dei morti. E’ nero e immobile, con gli occhi bruciati, eterno.
Quel corpo che già fu parola non guarderà più il mare pensando a Omero. Non si è spento. E’ stato raggiunto da una scheggia di cielo che gli ha spezzato la voce e il respiro. Questi cristalli mescolati alla sabbia sono le ultime parole pronunciate da quegli uomini senz’armi.
Facce annerite da un fuoco che non trema. Pagina di una vita calcinata come un segreto illeggibile. Lo sguardo, lentamente strappato dal volto: è un sottile foglio di carta, bello e resistente, inquietante e leggero: un velo tra la vita e la nostra morte: un silenzio che trattiene qualche granello di sabbia. Le facce lavate dallo stesso fuoco breve e preciso non sono più facce. La traccia del ricordo di un volto è sepolta in quegli stessi sacchi neri. Il disordine e la disfatta hanno confuso i giorni e gli sguardi.
Quel corpo che già fu una risata adesso brucia. Ceneri portate via dal vento fino al fiume e l’acqua le riceve come resti di lacrime felici. Ceneri di una memoria in cui traluce una piccola vita molto semplice, una vita senza storia, con un giardino, una fontana e qualche libro. Ceneri di un corpo scampato alla fossa comune offerte alla tempesta delle sabbie.
Quando si alzerà il vento quelle ceneri si andranno a posare sugli occhi dei vivi. E quelli senza saperne niente camineranno trionfanti con un po’ di morte sul viso. Innumerevoli sono i segnali che si svuotano della loro acqua laggiù, nell’estremo tumulto sul bordo di un cimitero in movimento.
In questo paese i morti viaggiano come le statue e le fiamme. Portano gli occhiali e tendono le braccia bruciacchiate per prendere il volo. Dicono che sono diventati invisibili e vanno offrendo ai vivi gli anni di vita che ancora restano loro. Quanti anni sparsi in quel modo sul deserto: un secolo e oltre. Vite da raccogliere come sciacalli impagliati vite che tremano nel dire: «La morte non è così fatale come la notte che è l’ombra del sole».
Qui si consuma la disfatta delle parole
Qui si consuma la disfatta delle parole la bilancia le ha pesate l'aria le ha ripulite la mano le ha ordinate il libro le ha raccolte in un gruppo di famiglia ispido dove le lingue sciogliendosi litigano dove i poeti ubriachi, in estasi strappano con le penne il velo sceso dal cielo a coprire come una maschera la verità.
Tahar Ben Jelloun
Breve biografia dell'autore
Nato a Fes, in Marocco,nel 1944, ha trascorso la sua adolescenza a Tangeri e ha compiuto gli studi di filosofia a Rabat, dove ha scritto in francese le sue prime poesie, raccolte in Hommes sous linceul de silence (1971). In Marocco ha insegnato filosofia, ma a causa dell'arabizzazione dell'insegnamento (e non essendo egli abilitato alla pedagogia in lingua araba), nel 1971 si è trasferito a Parigi dove tre anni dopo ha ottenuto un dottorato in psichiatria sociale sulla confusione mentale degli immigrati ospedalizzati, che verrà pubblicata col titolo L'estrema solitudine. La sua esperienza di psicoterapeuta sarà anche riversata nel romanzo La Réclusion solitaire (La reclusione solitaria, 1976). Nel frattempo ha continuato a scrivere, sempre esclusivamente in lingua francese, collaborando regolarmente col quotidiano Le Monde. Il primo romanzo, Harrouda è del 1973. Oggi è padre di quattro figli. È molto noto in Italia per i suoi numerosi romanzi e per i suoi articoli. Con il Premio Goncourt assegnatogli per "La Nuit sacrée" nel 1987, è divenuto lo scrittore straniero francofono più conosciuto in Francia. Interviene con dibattiti e articoli sui problemi della società, soprattutto sul problema della periferia urbana e del razzismo. Con il libro Il razzismo spiegato a mia figlia e per il profondo messaggio che tale libro ha trasmezzo, gli è stato conferito dal segretario delle Nazioni Unite il Global Tolerance Award. Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale TRIESTE-POESIA. Le sue opere più importanti sono:"Creatura di sabbia" (1987);"Nadja"(1996);"Ospitalità francese"(1984)
Grazia
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