Chi legge l'opera di Alfonsina Carolina Storni vi ritrova i caratteri della donna che sta dietro la poesia:
una donna di inizio secolo che scrive con voce femminile e potente, sensuale, passionale e cerebrale
ad un tempo, contraddittoria e spirituale.
Una donna fragile e forte, che emerge nei momenti chiave della sua storia, senza eccedere,
né nascondersi del tutto. Un'artista minuta che si fece lupa quando si trattava di difendere la sua prole e
che seppe corteggiare la letteratura parlando di ciò che molti, nella sua epoca, ritenevano indecente.
Donna d’estrema sensibilità, di quelle sensibilità che scarnificano l’anima e non di rado immergono
senza soluzione, nella felicità e nel dolore più estremi.
Alfonsina, solitaria, preda di amori che probabilmente non capirono il suo essere sè stessa,
la sua fragilità e la sua forza, la sua anima. Alfonsina, che visse il mondo duro e difficile del popolo,
la difficoltà e l’orgoglio di essere una ragazza madre agli inizi del ’900, Alfonsina che non accettò di
soffocare l’istinto per lei più naturale, la poesia, e grazie a questa sua voce innata, regalò e regala emozioni
e spunti di riflessione estremamente vivi ed attuali. Alfonsina, anima fragile, che nella poesia urla la
sua sete di vita, il suo bisogno d’amore, la solitudine angosciosa ma inevitabile per chi ama troppo
e ha l’anima troppo fragile per un mondo oscuro e violento.
Anche questo è la sua poesia: questo volere e non trovare, questo tormento interiore
che le torturerà l’anima fino alla morte. Eppure Alfonsina non fu sempre così: se si legge la sua opera,
ci si accorge che si tratta di un percorso che da un’iniziale entusiasmo per la vita, appproda ad all’amara
consapevolezza della realtà del mondo e della simultanea presenza in lei di rabbia e paura.
Il 20 maggio del 1935 la poetessa fu operata per un tumore al seno. La malattia però non si arrestò.
Cinque mesi dopo, il 25 ottobre, si gettò in mare da una scogliera presso la spiaggia La Perla,
sul Mar de la Plata.
Alcuni giorni prima aveva inviato al quotidiano La Nación il suo ultimo poema:
Voglio dormire
Denti di fiori, cuffia di rugiada, erbose mani, tu, nutrice lieve, tienimi pronte le lenzuola di terra e la coperta di muschio cardato.
Vado a dormire, o mia nutrice, cullami Ponimi una lucerna al capezzale una costellazione; quella che ti piace; tutte van bene; smorzala un pochino.
Lasciami sola: ascolta erompere i germogli… un piede celeste ti culla dall’alto e un passero ti traccia uno spartito
perché dimentichi… Grazie. Ah, un incarico se lui chiama di nuovo per telefono digli che non insista, sono andata…
Il tragico suicidio della poetessa ispirò la canzone Alfonsina y el mar di Ariel Ramírez
e Félix Luna, che fu interpretata da numerosi musicisti e cantanti di lingua spagnola e non,
tra i quali Mercedes Sosa
Per la soffice sabbia lambita dal mare la sua piccola orma non torna mai e un sentiero solitario di pena e silenzio è giunto sino all’acqua profonda e un sentiero solitario di pura pena è giunto sino alla spuma
Dio sa quale angustia ti ha accompagnata che antico dolore ha spento la tua voce per addormentarti cullata dal canto delle conchiglie marine la canzone che canta nel profondo oscuro mare la conchiglia
Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine quali nuove poesie sei andata a cercare? E una voce antica di vento e di mare ti lacera l’anima e sta là chiamando e tu fin là vai, come in sogno Alfonsina dormiente, vestita di mare
Cinque sirene ti condurranno lungo il cammino di alghe e coralli e fosforescenti cavallucci marini faranno una ronda al tuo lato. E gli abitanti dell’acqua ti nuoteranno subito al lato
Abbassami un po’ di più la luce lasciami dormire in pace, tatina mia e se chiama non dirgli che ci sono, digli che Alfonsina non torna, e se chiama non dirgli mai che ci sono digli che me ne stò andando.
Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine Quali nuove poesie sei andata a cercare? E una voce antica di vento e di mare ti lacera l’anima e sta là chiamando e tu vai, fin là, come in sogno Alfonsina addormentata, vestita di mare.
All’orecchio questa notte mi hai detto due parole comuni. Due parole stanche di essere dette. Parole che da vecchie si son fatte nuove.
Due parole così dolci, che la luna che passava filtrando tra i rami nella mia bocca si è fermata. Due parole così dolci che una formica mi cammina sul collo e resto immobile non provo nemmeno a scacciarla.
Due parole così dolci che senza volerlo esclamo: oh, che bella, la vita! Così dolci e così mansuete che oli profumati scorrono sul corpo.
Così dolci e così belle che nervose, le mie dita, si muovono verso il cielo imitando una forbice.
Vorrebbero le mie dita tagliare stelle.
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Ricordo il dolce tempo delle sierre cordovane Trascorso con l'anima libera dall'attesa Vagando fra le macchie di menta e di genziane I cieli smaglianti, giorni senza sorpresa.
Oh il folto biancospino dal voluttuoso odore! Di notte nelle amache in gruppi familiari Guardavamo gli immensi grappoli stellari Suonava dentro un tango e si parlava d'amore.
Eravamo tutti giovani e molti erano belli Le sierre simulavano gobbe di cammelli e ai loro lati, a braccetto, su un sentiero abituale
Tornavamo cantando al cader della sera in una sola fila, ed era primavera. S'affacciava a guardarci il disco della luna.
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Ho il presentimento che vivrò molto poco. Questa mia testa assomiglia a un crogiolo, purifica e consuma, ma senza un gemito, senza un accenno di orrore. Per uccidermi chiedo che un pomeriggio senza nubi, sotto il limpido sole, nasca da un grande gelsomino una vipera bianca che dolce, dolcemente, mi punga il cuore.