Dirò a Dio: «Non condannarmi; fammi sapere il motivo della lite contro di me. 3Ti giova forse essere violento e disprezzare l'opera delle tue mani, mentre favorisci i progetti dei malvagi?
Le tue mani mi hanno formato e modellato, integro tutt'intorno; ora vorresti distruggermi? 9Ricordati, di grazia, che mi hai fatto di argilla, e mi fai ritornare in polvere! 10Non m'hai colato come latte e fatto coagulare come formaggio? 11Di pelle e di carne mi hai rivestito, di ossa e di nervi mi hai intessuto. 12Vita e benevolenza mi hai concesso, e la tua provvidenza ha custodito il mio spirito».
(dal cap. 10 del libro di Giobbe).
Se Dio è potenza che schiaccia, per l'essere umano non c'è via di scampo. Ma se quest'immagine fosse solo un fantasma mentale? Se si trattasse di un sospetto sorto dalla paura e, insieme, dal nascosto desiderio di voler evitare il confronto? Il dolore che opprime Giobbe non gli consente la lucidità necessaria per dirimere la questione teologica. E tuttavia, nonostante in precedenza abbia espresso l'inutilità di confrontarsi con un Dio irraggiungibile, ora decide di parlargli «nell'amarezza del proprio animo» (10, 1). E' la disperazione, la nausea per una vita amara a dargli la forza di urlare, di osare rivolgersi al Dio inaccessibile. «Dirò a Dio ... » (10,2): si apre così un nuovo e decisivo tornante nel percorso tutto in salita intrapreso da Giobbe. D'ora in poi, pur continuando la disputa teologica con gli amici, inizia ad aprirsi un varco che conduce al confronto diretto con Dio. Dal discorrere su Dio al discutere con Lui. La parola diviene meno preoccupata della correttezza teologica che non del fare i conti con la vita, senza infingimenti, con quella franchezza spudorata che nasce dalla disperazione. Gli amici scompaiono per un attimo dalla scena e Giobbe si rivolge solo a Dio. Le nostre orecchie abituate a sentire preghiere espresse in un linguaggio formalizzato, se non stereotipato, fanno fatica a percepire che qui Giobbe, a dispetto dell'inutilità dichiarata, sta pregando. Che cos'è, infatti, la preghiera se non dialogo con Dio a partire dal proprio vissuto? Che cosa ne salvaguarda l'autenticità, se non l'estrema libertà di espressione? Giobbe non teme di dire a Dio che si sente schiacciato dall'eccesso del male al punto di desiderare la morte. Fin dall'inizio, quando maledice il giorno della propria nascita (Gb 3), dà voce al disgusto per la vita. Ma ora quel sentimento non è semplice imprecazione: è preghiera rivolta a Dio; è desiderio di capire ciò che appare assurdo; è protesta in nome di quella bontà della creazione affermata in principio, dal Creatore (Gen 1). Leggendo le accorate espressioni di Giobbe, non possiamo non chiederci come faccia Dio a non intenerirsi del suo servo: perché non gli risponde? Perché non smentisce di essere quell'onnipotente prepotente che schiaccia e umilia gli afflitti? Forse, la sapienza del libro di Giobbe consiste proprio in questo: nel tenere aperta la domanda, senza cedere alla tentazione di una risposta affrettata e scontata. Nella narrazione, Dio e Giobbe, a differenza degli amici, affrontano la questione evitando le scorciatoie, le risposte rassicuranti che corrono alla soluzione finale senza «elaborare il lutto», senza patire la contraddizione. Questa via lunga è ritenuta perdita di tempo dai catechismi e dai trattati teologici, mentre è proprio la preghiera ad incoraggiarla.
Giobbe, dunque, esprime con franchezza il male di vivere che lo spinge ad invocare la morte. Lo avevano fatto anche Elia, Geremia e Giona. Ma, a differenza di costoro, Giobbe ne parla come gesto di protesta nei confronti di un Creatore incoerente ed ingiusto. La sua non è una dichiarazione di resa al nichilismo. Invocare la morte non traduce semplicemente quel «basta» di chi non ce la fa più a sostenere lo scontro con i potenti (Elia) o con un Dio troppo misericordioso (Giona). No, Giobbe giunge a dire: «Fossi morto, senza che occhio mi avesse visto», come atto di accusa a Dio, come discussione del suo operato. «Le tue mani mi hanno formato e modellato, integro tutt'intorno; ora vorresti distruggermi?» (10,8). Com'è possibile che il Creatore, che ha dato vita e forma con estrema cura al suo servo, meditasse nel suo cuore di sopprimerlo?
Giobbe rifiuta di spegnere la domanda, narrando con toni poetici la bellezza della nascita e, insieme, gridando con toni disperati l'insensatezza di vivere come preda di un Dio cacciatore: «Se alzo la fronte, mi dai la caccia come un leone, rinnovando le tue prodezze contro di me. Ripeti i tuoi assalti contro di me, aumentando contro di me la tua ira, lanciando truppe sempre fresche contro di me» (10, 16-17). Giobbe protesta nei confronti del Dio «contro di me». Ma non gli basta nemmeno un Dio latitante. Pretende che Dio si converta alla sua vocazione originale di creatore amorevole. La presenza di Dio non può essere sperimentata come un assedio! Deponi le armi contro di me, o Dio e abbracciami... è questo il desiderio più forte di Giobbe. La sua preghiera di protesta è anche nostalgia di relazione autentica, di intimità, cura e tenerezza.