ROMA – Nel 1911 fu Gea della Garisenda a cantare il suol d’amore di Tripoli e la gloria della missione in Libia avvolta solo in una bandieratricolore.
Ora che l’Italia è pronta a scomodare aerei, basi e militari per i raid in Libia contro il colonnello Muammar Gheddafi, l’idea della trasferta di conquista fa venire in mente NicoleMinetti, le olgettine, le arcorine: tutte le ragazze considerate vicine al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Sono state travolte dallo scandalo e forse ci hanno messo pure un po’ di impegno per finire nella gogna mediatica: a questo punto potrebbero riscattarsi emulando la bruna romagnola Gea cent’anni dopo?
Che dire se a un secolo di distanza a celebrare l’ultima prodezza patriottica in nome della “liberazione” dei popoli ribelli ci fossero le signorine delle intercettazioni del caso Ruby? Nel 1911 al teatro Balbo di Torino, l’8 settembre, Gea della Grisenda lanciò l’inno patriottico A Tripoli, che successivamente divenne notissimo con il primo verso della strofe, Tripoli bel suol d’amore.
Fece scandalo per l’epoca così vestita solo di un tricolore e fra i tanti ammiratori si guadagnò nomi come Salvatore Di Giacomo, Trilussa, Giosuè Carducci, Olindo Guerrini, Ruggero Leoncavallo.
Se immaginassimo le arcorine al suo posto come andrebbe? Chi sarebbero i pretendenti?
Gea della Garisenda cantava “Tripoli bel suol d’amore” avvolta solo nel tricolore
ROMA- Gea della Garisenda, classe 1878, cantò le glorie dell’Italia alla conquista della Libia contro l’impero ottomano e intonò “Tripoli bel suol d’amore”.
Romagnola bruna dalla voce squillante, dietro di lei attirò una lunga schiera di ammiratori: da Gabriele D’Annunzio che le diede il nome per ricollegarla alla sua terra d’origine, Salvatore Di Giacomo, Trilussa, Giosuè Carducci, Olindo Guerrini, Ruggero Leoncavallo.
Nel 1911, quando, al teatro Balbo di Torino, l’8 settembre, lanciò l’inno patriottico A Tripoli, che successivamente divenne noto e chiamato con il primo verso della strofe, Tripoli bel suol d’amore. Fece arrossire l’Italia perché si presentò sul palco nuda avvolta solo in una bandiera tricolore.
Ecco il testo della canzone:
Sai dove s’annida più florido il suol? Sai dove sorride più magico il sol? Sul mar che ci lega coll’Africa d’or, la stella d’Italia ci addita un tesor.
Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon, sventoli il Tricolore sulle tue torri al rombo del cannon! Naviga, o corazzata: benigno è il vento e dolce è la stagion.
Tripoli, terra incantata, sarà italiana al rombo del cannon. A te, Marinaro, sia l’onda sentier; sia guida Fortuna per te Bersaglier; và e spera, soldato, Vittoria è colà… Hai teco l’Italia che gridati: va! Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon, sventoli il Tricolore sulle tue torri al rombo del cannon! Naviga, o corazzata: benigno è il vento e dolce è la stagion. Tripoli, terra incantata, sarà italiana al rombo del cannon.
Al vento africano che Tripoli assal già squillan le trombe la marcia real. A Tripoli i turchi non regnano più: già il nostro vessillo issato è laggiù… Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon, sventoli il Tricolore sulle tue torri al rombo del cannon! Naviga, o corazzata: benigno è il vento e dolce è la stagion. Tripoli, terra incantata, sarà italiana al rombo del cannon.
Un bel militare voleva da me un sì per qualcosa (sapete cos’è). Gli dissi ridendo: “Tu avrai quel che vuoi; ma prima, birbante, va’ a Tripoli, e poi…”! Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon, sventoli il Tricolore sulle tue torri al rombo del cannon! Naviga, o corazzata: benigno è il vento e dolce è la stagion. Tripoli, terra incantata, sarà italiana al rombo del cannon.
Vent'anni di ostilità e di tentativi di "pacificazione" condotti dall'esercito a colpi di bombe all'iprite, massacri e deportazioni di popolazione civili. Una strategia della "terra bruciata" che trovò in Badoglio e Graziani i suoi più zelanti esecutori.
La sporca guerra di Libia (1911-1931)
di MICHELE STRAZZA
La conquista italiana della Libia prese il via tra il 4 e il 5 ottobre 1911 con gli sbarchi delle truppe italiane, rispettivamente a Tobruk e Tripoli, inviate da Giolitti contro l'Impero Ottomano. Il corpo di spedizione, al comando del generale Carlo Caneva, era forte di 35.000 uomini, saliti poi a 100.000 nei mesi successivi. Con il Trattato di Losanna (o di Ouchy) del 18 ottobre 1912 la Turchia conservava la sovranità formale sulla Libia ma demandava all'amministrazione italiana il controllo, anche militare, della fascia costiera tra Zuara e Tobruk. L'occupazione e il controllo del territorio si rivelarono più difficoltose del previsto, a causa della fiera opposizione dell'esercito turco prima e delle formazioni irregolari libiche poi. Tra il 1913 e il 1914 la presenza del regio esercito si estese alla Tripolitania settentrionale e il colonnello Miani guidò una colonna di ascari eritrei fino al Fezzan. Ma alcune sconfitte nell'inverno 1914-15 e lo scoppio della prima guerra mondiale costrinsero gli italiani a ripiegare sulla costa, tenendo saldamente alcune località come Tripoli, Zuara e Homs in Tripolitania, Bengasi, Derna e Tobruk in Cirenaica. I territori interni, invece, vennero, di fatto, governati da alcuni notabili locali in Tripolitania e dalla Senussia (organizzazione religiosa e politica mussulmana) in Cirenaica.
Terminato il primo conflitto mondiale, in Italia fu adottata la politica delle concessioni che portò, con gli "Statuti libici" accordati a Tripolitania e Cirenaica e l'accordo con i senussiti, a un periodo di sostanziale pacificazione del Paese africano. Con il capo dei senussiti, Mohammed Idris, infatti, furono conclusi i patti di Acroma (aprile 1917) e di Regima (ottobre 1920), in base ai quali Idris riconobbe la sovranità italiana sulla Cirenaica e il possesso della costa, avendo in cambio, dal governo italiano, il riconoscimento del
titolo di "emiro", nonché l'amministrazione delle zone interne e il diritto di tenere forze armate. L'anno prima, nel 1919, era stato concesso lo statuto alle due colonie, con la previsione dell'elezione di due parlamenti locali e di alcuni diritti alle popolazioni. A Tripoli, però, il parlamento non venne mai eletto mentre quello in Cirenaica funzionò per poco tempo e senza alcun risultato rilevante. La situazione in quest'ultima colonia, tuttavia, restò alquanto migliore rispetto alla prima. Il controllo dei senussiti, infatti, contribuì a garantire l'ordine, almeno per un certo periodo di tempo, cosa che invece non accadde in Tripolitania dove le lotte tra i capi locali e il contrasto tra arabi e berberi impedirono il funzionamento di quella "repubblica" tripolitana, proclamata dai ribelli nel novembre del 1919, creando incertezza e confusione. Nel 1921 fu istituito il Governatorato della Tripolitania e nominato governatore Giuseppe Volpe, industriale e futuro Ministro delle Finanze, che riprese l'avanzata militare occupando, tra gennaio e febbraio 1922, il porto di Misurata Marina. Tra aprile e maggio, grazie anche all'azione dell'allora colonnello Rodolfo Graziani, le forze arabe vennero respinte. Mentre in Italia, si svolge la marcia su Roma le truppe italiane occupavano Jefren.
La partita libica proseguì con l'arrivo di Mussolinial potere. I suoi sogni di conquista coloniale acutizzarono i problemi esistenti tra l'Italia e i senussiti tanto che l'emiro Mohammed Idris, non ritenendosi più al sicuro, nel gennaio del 1923 fuggì in Egitto dopo aver lasciato in patria, come suo rappresentante, il fratello Mohammed er-Ridà. Alla fine dello stesso mese di gennaio giunse a Bengasi il generale Bongiovanni, cui Mussolini in persona, prima di partire, aveva impartito poche ed eloquenti direttive: «Pestar sodo». Bongiovanni trovò una situazione abbastanza tranquilla nel nord della Tripolitania che gli consentì di procedere all'occupazione della parte meridionale. Sfruttando i dissidi tra le varie tribù locali la conquista fu completata senza grossi problemi nel 1926. Contemporaneamente le truppe italiane si apprestarono a invadere la Cirenaica, pur tra mille difficoltà, tra cui la forte presenza della Confraternita dei Senussiti. Nella notte tra il 5 e il 6 marzo 1923 le truppe italiane e quelle ascare del generale Bongiovanni entrarono nel Gebel al-Akdar sconfiggendo i senussiti e installandovi alcuni presidi con truppe eritree. In seguito, però, la resistenza indigena del Gebel, dove erano presenti circa 100.000 seminomadi, si riorganizzò sotto la guida dell'anziano Omar al-Mukhtar dando notevole filo da torcere agli italiani. Anzi, i senussiti riuscirono a creare una vera e propria amministrazione parallela (il cosiddetto "governo della notte") che continua addirittura a riscuotere le decime tradizionali dalle popolazioni, ad amministrare la giustizia e a minacciare gli insediamenti italiani. Anche i proventi del commercio con l'Egitto servirono a finanziare la lotta armata contro l'invasore. La risposta italiana fu micidiale: rastrellamenti a catena e bombardamenti per distruggere le coltivazioni di orzo al fine di impedire il commercio con l'Egitto. La strategia della "terra bruciata" indusse migliaia di famiglie indigene a fuggire verso la Tunisia, l'Algeria, il Ciad e l'Egitto.
Nel 1928 anche la piccola oasi di Gife, situata tra la costa mediterranea a sud di Nufilia e la catena dei monti Harugi fu distrutta da bombe italiane, alcune delle quali caricate a gas. Ciò costituiva una aperta violazione del diritto internazionale in quanto l'Italia fascista aveva firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri 25 Paesi, il "Protocollo per la proibizione di gas asfissianti, tossici o di altri gas, e degli strumenti di guerra
batteriologici". La distruzione di Gife venne raccontata nelle memorie di guerra di Vincenzo Biani, un volume che riscosse gli elogi di Italo Balbo: «Una spedizione di otto apparecchi fu inviata su Gifa, località imprecisata dalle carte a nostra disposizione, che erano dei semplici schizzi ricavati da informazioni degli indigeni; importante però per una vasta conca, ricoperta di pascolo e provvista di acqua in abbondanza. Ma senza oasi e senza case: un punto nel deserto. Fu rintracciata perché gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l'incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo. Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante, mentre si preparavano gli apparecchi per un'altra spedizione. Ci si dava il cambio nelle diverse missioni. Alcuni andavano in ricognizione portandosi sempre un po'di bombe con le quali davano un primo regalo ai ribelli scoperti, e poi il resto arrivava poche ore dopo. In tutto il vasto territorio compreso tra El Machina, Nufilia e Gifa i più fortunati furono gli sciacalli che trovarono pasti abbondanti alla loro fame».
Ma nonostante i massicci bombardamenti la guerriglia senussita, equipaggiata di armi dall'Egitto, continuava a creare seri problemi al regio esercito. Per dare una svolta alla "pacificazione" il 18 dicembre 1928 Badoglio venne nominato governatore delle due province della Tripolitania e della Cirenaica, quindi, il 21 gennaio 1929, "governatore unico" di entrambe. Nel contempo, come da lui richiesto, il maresciallo conservava anche la carica di capo di stato maggiore generale. Sbarcato in Tripolitania, Badoglio si mise subito al lavoro per completare la riconquista della provincia. Tra i suoi primi provvedimenti un bando che garantiva l'amnistia ai ribelli che si fossero arresi e la minaccia di morte ai recidivi. Tra l'estate del 1929 e il gennaio del 1930, grazie anche alle colonne di Graziani, furono occupate tutte le oasi del Fezzan mentre gruppi di armati arabi sconfinarono in territorio francese. Ormai la Tripolitania era completamente conquistata, con le tribù nomadi decimate dai bombardamenti e dalla fame. Diversa, invece, la situazione in Cirenaica dove i guerriglieri senussiti, grazie a una efficiente organizzazione, dominano ancora il Gebel, l'altopiano centrale della regione. I gruppi di armati (duar), composti ciascuno di 3-400 uomini, davanti ai rastrellamenti italiani si nascondevano nei numerosi burroni del Gebel per poi riapparire dietro le linee italiane colpendo le installazioni militari. Qualche tentativo di trattare con i ribelli di Omar al-Mukhtar fu messo in atto nel giugno del 1929 dal vice-governatore Siciliani. Si concordò anche una tregua, che però non durò a lungo. Nel 1930 Mussolini, insoddisfatto di come andavano le cose in Cirenaica, inviò Rodolfo Graziani come vice governatore a Bengasi. Il risultato fu una grande operazione di rastrellamento la quale, tuttavia, non diede l'esito sperato. I "mujaheddin" di Omar al-Mukhtar potevano infatti contare sull'appoggio morale e materiale delle popolazioni locali. Dirà due anni dopo Graziani: «Avevamo contro di noi tutta la popolazione della Cirenaica che partecipava alla ribellione: da una parte, allo stato potenziale, i cosiddetti sottomessi; dall'altra, apertamente in campo, gli armati. Tutta la Cirenaica, in una parola, era ribelle».
Per rompere il collegamento tra popolazione e guerriglia non era sufficiente neanche l'esproprio integrale dei beni mobili e immobili delle zavie senussite, veri e propri centri spirituali ed assistenziali. Il 29 maggio i reali carabinieri penetrarono contemporaneamente nelle 49 zavie, arrestando 31 capi zavia e mettendo i sigilli alle proprietà (centinaia di abitazioni e circa 70.000 ettari di buona terra). I religiosi, dopo essere stati confinati in alcuni campi presso Benina, vennero quindi imbarcati per Ustica. Ma l'impostazione "tradizionale" della repressione messa in atto da Graziani non
soddisfece Badoglio, che il 20 giugno 1930 scrisse al vice governatore per sollecitare nuovi metodi: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica. Urge dunque far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto fra essa e i ribelli. Fatto questo allora si passa all'azione diretta contro i ribelli». Solo cinque giorni dopo Graziani ordinò il trasferimento delle popolazioni del Gebel. Iniziò così un massiccio spostamento dall'altipiano verso la costa: 900 tende Abid furono spostate nella piana di Barce, 1.400 tende Dorsa intorno a Tolmeta, altre 3.600 distribuite fra Cirene e Derna. Ma per completare quella che sarà la deportazione di ben 100.000 civili, quasi la metà dell'intera popolazione della Cirenaica, saranno necessarie ulteriori tappe. Il 16 luglio Badoglio diramò a Graziani le seguenti istruzioni: «1) Riunire tutti i parenti dei ribelli in uno stretto e molto sorvegliato campo di concentramento, ove le loro condizioni siano piuttosto disagiate. 2) Arrestare nelle varie cabile ed in Bengasi i notabili che notoriamente hanno esplicato azione contraria a noi e mandarli al confino in Italia». Graziani stesso, come racconterà in seguito, non ebbe alcuna esitazione: «Tutti i campi furono circondati da doppio reticolato; i viveri razionati; i pascoli contratti e controllati; la circolazione esterna resa soggetta a permessi speciali. Furono concentrati nel campo di el Agheila tutti i parenti dei ribelli, perché più facilmente portati alla connivenza [.] I capi e le popolazioni refrattarie e sorde ad ogni voce di persuasione e di richiamo ricevevano così il trattamento che si erano meritato. Il rigore estremo, senza remore né tregua, cadeva inesorabile su di esse».
Naturalmente la responsabilità della deportazione non va ascritta al solo Badoglio ma anche, come puntualizza Angelo Del Boca, al ministro De Bono che aveva da tempo sollecitato la misura e allo stesso Mussolini che l'aveva approvata. Le varie tribù, con vecchi, donne e bambini, furono sottoposte a terribili marce forzate per centinaia di chilometri che si trasformarono in vere e proprie "marce di sterminio". Chi indugiava o si attardava nelle poche soste viene immediatamente abbattuto. Numerosi gli episodi di crudeltà gratuita, come l'abbandono di 35 indigeni, tra cui donne e bambini, in pieno deserto, senza acqua né viveri, a causa di una rissa scoppiata tra loro. Senza contare i maltrattamenti, le fustigazioni, i morti per sete. La tribù degli Auaghir raggiunse il campo di concentramento di Soluch, circondato dal filo spinato, dopo 350 chilometri di marce forzate. Circa 6.500 tra Abeidat e Marmarici, che avevano tentato di ribellarsi, furono sottoposti a una marcia di 1.100 chilometri in pieno inverno verso la Sirtica. Secondo Del Boca furono 90.761 le persone giunte nei campi e quasi 10.000 quelle morte durante la marcia per stenti, mancanza di cibo, malattie e tentativi di fuga. Dopo le deportazioni e la creazione dei campi di concentramento la resistenza dei duar di Omar al Mukhtàr si trovò sempre più isolata. I gruppi ribelli furono costretti a dividersi per sfuggire agli accerchiamenti, riducendo però in tal modo la loro capacità offensiva. Le sconfitte minarono il morale e a nulla servirono le scorrerie delle bande di Abd el Gelil Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, rifugiatesi nell'oasi di Taizerbo, situata 250 chilometri a nordovest di Cufra. Ed è proprio su quest'oasi, dove si pensava fossero ancora i ribelli, che si concentrò l'attenzione italiana. Il 31 luglio 1930 quattro aerei al comando del tenente colonnello Roberto Lordi partono da Gialo con l'ordine di distruggere Taizerbo. Vengono lanciate 24 bombe da 21 chili caricate a iprite e 12 bombe da 12 chili e 320 da 2 chili con esplosivo convenzionale. Anche Cufra, città santa dei senussiti nella Libia sudorientale, dove intanto si erano ritirate le bande ribelle di Abd el Gelli Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, subì un attacco dal cielo prima di essere presa nel gennaio del 1931 da una colonna di "meharisti", mercenari libici su cammelli e autocarri. I guerriglieri sopravvissuti fuggirono con le proprie famiglie ma i reparti cammellati e l'aviazione li inseguirono per vari giorni fino ad annientarli in gran parte: tra le vittime anche donne e bambini. Cufra fu sottoposta a tre giorni di saccheggi e violenze: 17 capi senussiti furono impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate; si registrarono anche 50 fucilazioni e 40 esecuzioni con ascia, baionette e sciabole. Le truppe vittoriose si abbandonarono a ogni atrocità: alle donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani furono donne violentate e sodomizzate con le candele, teste e testicoli mozzati portati in giro come trofei, tre bambini immersi in calderoni di acqua bollente, ad alcuni vecchi vennero estirpate le unghie per essere poi accecati.
Nonostante la caduta di Cufra, che generò un'ondata di sdegno in tutto il mondo
islamico, Omar al Mukhtàr continuò a resistere con le poche truppe rimaste grazie, secondo Graziani, al contrabbando con la frontiera egiziana. E' a questo punto che Badoglio e Graziani decidono di isolare del tutto i ribelli con la costruzione di una recinzione tra la Cirenaica e l'Egitto. Nonostante il parere contrario di De Bono e del sottosegretario alle Colonie Roberto Cantalupo, Mussolini dà il suo via libera e il reticolato - una barriera di filo spinato larga alcuni metri e lunga ben 270 chilometri, dal porto di Bardia all'oasi di Giarabub - viene costruito in sei mesi, da aprile a settembre del 1931. Bloccato ogni rifornimento, dunque, le bande ribelli erano destinate a soccombere. Il 9 settembre 1931 il settantatreenne capo della resistenza libica Omar al Mukhtàr venne catturato. La condanna a morte fu pronunciata il 16 settembre. Ferito, inutilmente tutelato dal diritto internazionale che avrebbe imposto un suo trattamento come prigioniero di guerra, fu impiccato nel campo di Soluch. Graziani raccontò che 20.000 beduini furono costretti ad assistere all'esecuzione per dimostrare loro che i giorni del compromesso e della debolezza italiana erano terminati. Dando per buono il censimento della Cirenaica del 1920 che annotava 225.000 abitanti e tenendo conto che 20.000 fuggirono in Egitto, ricordando poi il censimento italiano del 1931 che registrava solo 142.000 anime (oltre a 18.500 italiani), si deve dedurre che in undici anni la popolazione del Paese diminuì di circa 83.000 persone: 20.000 rifugiate in Egitto e ben 63.000 per la guerra, la deportazione e la prigionia. Anche il patrimonio zootecnico venne ampiamente distrutto: gli ovini da 800.000 nel 1926 si ridussero a 98.000 nel 1933, i cammelli da 75.000 a 2.600, i cavalli da 14.000 a 1.000, gli asini da 9.000 a 5.000. Una vera e propria carneficina, dunque, o, per meglio dire, un "genocidio" praticato dal "buon italiano" il cui ricordo risulta ancora rimosso dalla memoria collettiva dell'Italia nonostante gli sforzi di quegli storici che l'additano all'attenzione di chi non ha paura della verità.
BIBLIOGRAFIA
Ali italiane sul deserto, di V. Biani - Bemporad, Firenze 1933.
Storia dell'Italia moderna. Il fascismo e le sue guerre, di G. Candeloro -Feltrinelli, Milano 2002.
Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d'amor, di A. Del Boca -Mondadori, Milano 1984.
Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, di A. Del Boca - Laterza, Roma-Bari 1991.
Cirenaica pacificata, di R. Graziani - Mondadori, Milano 1932.
Gli italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, di G. Ottolenghi - Sugarco, Milano 1997.
Pietro Badoglio, di P. Pieri e G. Rochat - UTET, Torino 1974.
Guerre italiane in Libia e in Etiopia. Studi militari 1921-1939, di G. Rochat - Pagus, Treviso 1991.
Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931), di E. Salerno - Manifestolibri, Roma 2005.
Omar al-Mukthar e la riconquista fascista della Libia, di E. Santarelli, G. Rochat, R. Rainero, L. Goglia - Marzorati, Milano 1981
Curiosamente ai tempi della guerra Italo-turca del 1911 ad interessare i politici era ciò che stava sopra il suolo libico...oggi é quello che c'é sotto.
C’era qualcosa di sbagliato nel colonialismo italiano? La quasi totalità degli storici italiani, infatti, da quelli della scuola liberale alla Chabod, a quelli dell’area marxista influenzati da Gramsci, hanno sempre detto e ripetuto che esso fu un tragico errore o, nel migliore dei casi, un equivoco e un miraggio; che, in poche parole, l’Italia spese denaro ed energie in una serie di imprese africane sostanzialmente inutili, inseguendo la chimera di un impero che, quand’anche fosse stato resuscitato (come effettivamente accadde nel 1936), non avrebbe giustificato il sangue di un solo soldato o la lira versata allo Stato da un singolo contribuente. Questa versione dei fatti non ci convince e non ci ha mai convinti e non solo per ragioni di merito, ma anche e soprattutto per ragioni di metodo. Vi abbiamo sempre scorto, infatti, un residuo di quel moralismo deteriore che si ammanta di ideologia umanitaria, per nascondere la sua vera natura di ideologia squisitamente politica. Che cosa significa, infatti, sostenere che il colonialismo italiano era “sbagliato”? Significa, tanto per fare un confronto, che quello della Germania bismarckiana e guglielmina era “giusto”? E, se le cose stanno così, significa che è “giusto” un colonialismo che riporta dei successi politici e militari, mentre si deve considerare “sbagliato” quello che registra degli insuccessi? Se fosse così, allora vorrebbe dire che la forza e il successo sono gli unici giudici della bontà di una determinata politica: conclusione veramente meschina e anche un po’ ripugnante; ma, soprattutto, conclusione machiavellica, che stona sulla bocca di quanti vorrebbero corroborare il proprio giudizio sulla base di valutazioni morali. Sarebbe veramente la peggiore forma d machiavellismo, in base alla quale - per esempio - non si avrebbe alcun diritto di criticare il nazismo, se non per il fatto che, alla fine, esso risultò soccombente. Perciò, bisognerebbe che quei signori storici si decidessero, una buona volta: dovrebbero avere il coraggio di dire che il colonialismo in quanto tale, sempre è comunque, è “sbagliato”, ma per ragioni etiche e non per ragioni storiche; oppure dovrebbero smetterla con lo sport nazionale di denigrare sistematicamente tutto ciò che l’Italia ha fatto nella breve parabola della sua storia postunitaria, per gustare l’amara e discutibile soddisfazione di sentirsi sempre gli ultimi della classe, i più inetti e, magari, anche i più “cattivi”. Alludiamo, con quest’ultimo riferimento alla “cattiveria”, alle atrocità della conquista coloniale della Libia o dell’Etiopia, che certamente vi furono, ma che non furono né peggiori, né più sistematiche di quelle commesse da qualunque altra potenza imperiale: con buona pace di quegli storici, come l’italiano Angelo Del Boca o come l’ungherese Endre Sik, i quali amano dipingere qualunque impresa coloniale come intimamente pervasa di malvagità e ogni società indigena, comunque governata (o sgovernata) dalle proprie classi dirigenti, come intimamente buona, pacifica, prospera e felice. Insomma, delle due, l’una: o il colonialismo fu il Male Assoluto, e allora quello italiano fu malvagio come lo furono quelli britannico, francese, olandese, belga, americano, ecc.; oppure fu un fenomeno storico che va studiato come qualunque altro, verificando se e in quale misura esso rispondesse a una dinamica “naturale” delle società occidentali che lo realizzarono, ovviamente senza mai perdere di vista i costi umani che esso impose, con speciale riguardo alle popolazioni indigene che vi furono coinvolte. Ebbene, a noi sembra che il colonialismo italiano, nella sua breve stagione che va dall’acquisto della baia di Assab, nel 1882, da parte del governo italiano, alla resa del generale Messe in Tunisia, nel 1943, davanti alla strapotenza delle armate anglo-americane provenienti dall’Egitto e dal Nordafrica francese (poco più di sessant’anni complessivamente), non sia stato una follia scaturita dalla megalomania di Crispi, Giolitti o Mussolini - si badi: la Sinistra storica, il liberalismo e il fascismo -, ma lo sbocco di forze sociali, politiche, economiche e culturali reali. Inoltre ci sembra che, se tali forze furono in parte diverse da quelle che, da parte loro, mossero la maggior parte delle altre potenze imperiali, ciò sia dovuto al fatto che esso era per l’Italia più “necessario” di quanto non lo sia stato per la Gran Bretagna, per la Francia o per la Germania (quest’ultima in un arco di tempo ancor più beve: dal 1884 al 1918). Intendiamoci: l’Italia poteva sopravvivere anche senza le colonie; e ciò fu quanto accadde con la pace di Parigi del 1947, che la privò di ogni suo possedimento d’oltremare e la rinserrò, povera, sconfitta e sovrappopolata, nei suoi angusti confini, peraltro ampiamente mutilati (specie nei confronti della Jugoslavia di Tito). Ma questo, che cosa starebbe a dimostrare? Secondo noi, soltanto che una nazione vinta deve saper fare buon viso a cattivo gioco. Ma se l’Italia, dopo aver speso tanto denaro per dissodare il deserto della Libia, o per costruire strade e ferrovie sulle montagne dell’Etiopia, avesse poi potuto godere, per un lungo periodo di tempo, dei benefici del suo impero coloniale (si pensi solo a cosa avrebbe significato, per essa, povera com’è di materie prime e di fonti energetiche, poter disporre del petrolio della Libia, scoperto solamente dopo la seconda guerra mondiale), qualcuno se la sentirebbe di affermare, in tutta coscienza, che ciò sarebbe stato ininfluente per la sua economia, per il suo sviluppo successivo, per la percezione medesima che gli Italiani hanno di se stessi, nella propria patria e davanti al resto del mondo? Certo, l’Italia aveva (ed ha tuttora) dei gravissimi problemi interni, retaggio del Risorgimento e anche dei secoli precedenti; problemi di classe dirigente, innanzitutto, che una più fortunata e una più duratura politica coloniale, diciamo senza la sconfitta di Adua e senza l’umiliante pace di Parigi, avrebbe forse rimandato e messo parzialmente in ombra, ma non certamente risolto e anzi, forse, sul lungo periodo, persino aggravato. E tuttavia, questo aspetto della cosa non deve nemmeno essere sopravvalutato. È noto che l’Inghilterra di William Pitt il giovane, nella seconda metà del Settecento, era afflitta dalla classe politica più corrotta d’Europa; questo, però, non le impedì di mietere una serie di spettacolari successi imperiali (specie nella guerra dei Sette Anni, contro la Francia e la Spagna), affermandosi definitivamente come la principale potenza commerciale, finanziaria e coloniale del mondo e gettando, così, le basi di due secoli di prosperità senza precedenti. Ci preme, ad ogni modo, chiarire un punto. Noi non stiamo tessendo l’elogio del colonialismo, del quale abbiamo ben presenti le ombre e le pagine nere. Stiamo solo cercando di sottrarre la riflessione storica sul significato complessivo del colonialismo italiano ad un ambito ambiguo, carico di pregiudizi e di luoghi comuni, per riportarlo sul solido terreno dei fatti, come si fa - o si dovrebbe fare - nei confronti di qualunque altro evento o fenomeno storico. Bisognerebbe avere i coraggio di dire la verità: siccome il colonialismo italiano trovò il proprio apice nella conquista mussoliniana dell’Impero, la Vulgata storiografica repubblicana e antifascista dominante dal 1945 lo vede come il fumo negli occhi e, al solo sentirlo nominare, scatta in essa un riflesso condizionato, come quando si agita un drappo rosso davanti agli occhi del toro infuriato, nel bel mezzo della “corrida”. Nessuna obiettività, nessuno sforzo di porsi davanti a quel passato (un passato che non vuol passare, a quanto sembra) in un atteggiamento spassionato, «sine ira et studio», come auspicava Sallustio. Il fascismo è stato il peggiore di tutti i mali; dunque, anche il colonialismo italiano, da esso portato al culmine, non può essere stato che un male irremissibile o, peggio, come avrebbe detto Talleyrand, un errore. Ma ragionare così, significa tradire il mestiere di storico: il quale non deve servirsi di categorie mentali prefabbricate, ma deve misurarsi con la nuda e cruda realtà dei fatti, sfrondandoli, per quanto possibile, da ogni superfetazione ideologica. Dunque: torniamo alla domanda che ci eravamo posta, se cioè vi sia stato, nel fatto del colonialismo italiano, qualche cosa di intrinsecamente sbagliato. Ha scritto lo storico olandese Henri Wesseling, professore di Storia contemporanea e direttore dell’Istituto di storia del’espansione europea all’Università di Leida, ne suo libro «La spartizione dell’Africa, 1880-1914» (titolo originale: «Verdeel en heers. De deling van Africa, 1880-1914)»; traduzione italiana di Giancarlo Errico, Milano, Corbaccio Editore, 2001, p. 335):
«Nell’imperialismo italiano non c’era niente di sbagliato, salvo che era italiano. Era più che logico che l’Italia volesse avere un ruolo nella spartizione del continente africano, tanto più che la riguardava molto da vicino. La Sicilia si trova a un passo dalle coste africane e non occorre essere grandi storici per ricordarsi che secoli addietro l’ascesa di Roma al rango di potenza mondiale era iniziata con la guerra contro Cartagine. A ogni modo lo sapevano molto bene coloro che vissero e fecero politica nel diciannovesimo secolo. L’Italia, oltretutto, aveva un numero sufficiente di ‘coloni’ per popolare l’intera Africa settentrionale. Questo grande esodo contrassegnò la storia di un’Italia povera e sovrappopolata. A metà degli anni Ottanta l’emigrazione della popolazione assunse forma drammatiche. Complessivamente un milione e trecentomila persone lasciarono il paese. Questa emigrazione fu soprattutto una conseguenza della crisi economica degli anni Ottanta che aveva messo in ginocchio l’agricoltura. In Italia il problema venne acuito da una particolare distribuzione della proprietà terriera e dalla crisi che colpì l’agricoltura a causa della filossera. L’”emigrazione dei disperati” rappresentò una comprensibile preoccupazione degli intellettuali e dei politici, e la perdita d’italianità, in un’epoca di aspirazioni nazionalistiche e di idee social-darviniane, per molti divenne un tormento. L’Italia nel 1870 era diventata uno stato unitario, ma era un’unità che veniva caratterizzata dalla disunione. Tra nord e sud esistevano grandi contrasti di sviluppo e mentalità. I settentrionali guardavano ai meridionali con maggiore disprezzo d quanto non facesse un colonizzatore nei confronti degli africani. Per i padri del Risorgimento, l’Italia era oltretutto un’unità incompleta. Aveva una capitale imperiale, ma non aveva un impero. Questo impero doveva rinascere. Dopo il 1870, in un primo momento questo ideale imperiale fu praticamente accantonato insieme a quello irredentista.»
Questo parere si integra agevolmente con quello dello storico svizzero Eduard Fueter, il quale, tracciando un parallelo fra la politica coloniale tedesca e quella italiana, capovolge il giudizio corrente e si esprime più favorevolmente circa la seconda che non la prima, nella sua ormai classica opera «Storia universale degli ultimi cento anni» (titolo originale: «Storia degli ultimi cento anni, 1815-1920» (titolo originale: «Weltgeschichte der letzen Jahre»; trasduzione italiana di Ettore Bassan, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1949, pp. 425-26, 441):
«Non si potrà negare che dei due stati [Germania e Italia] l’Italia fin dal principio vide più chiaramente la sua mèta e scelse più abilmente i mezzi da impiegare. Poteva del resto dipendere anche dalla relativa debolezza militare della penisola se il paese procedete sempre in modo da evitare un aperto conflitto con un’altra grande potenza europea, ma all’Italia (che aveva una massa di emigrati molto più forte, e forse anche maggiori ragioni della Germania per cercare di mantener stretti contatti politici tra i suoi figli residenti all’estero e la madrepatria) si dovrà tributare il riconoscimento che essa indirizzò la propria politica estera con coerenza in questa direzione, non dimenticando mai l’importanza di una politica coloniale. Della Germania non si può dire altrettanto. I suoi successi coloniali furono più importanti di quelli dell’Italia, per ciò che riguarda l’estensione delle sue conquiste, ed essa poté ottenere dagli altri stati, mercé pressioni di ordine militare, delle concessioni alle quali l’Italia non poteva ancora pensare. Ma non furono sempre tratte le opportune conseguenze di questo programma nella politica estera; la politica estera della Germania in Europa non fu modificata nel senso che sarebbe stato necessario in conformità alle nuove mète coloniali. […] L’Italia rappresenta un caso speciale. I suoi interessi si basavano soprattutto sula sua natura di stato mediterraneo; se essa entrò soltanto in questo momento nella lotta per l’Africa, ciò si deve ascrivere unicamente alla circostanza che era diventata una grande potenza più tardi della Francia, e non già perché avesse risentito dei nuovi atteggiamenti nella valutazione dell’Africa. La politica africana dell’Italia si è perciò in generale indirizzata per nuove vie e non può essere considerata quale parte dell’azione collettiva delle potenze europee [come, ad esempio, fu il caso del Marocco]. Rimase invece lontana da ogni partecipazione alla spartizione dell’Africa, nonostante forti interessi mediterranei, la monarchia austro-ungarica, principalmente per ragioni di politica interna. Conseguenza di ciò fu che la politica di espansione austriaca gravitò esclusivamente verso i Balcani.»
Questa, dunque, l’opinione di due insigni storici europei, l’uno dei primi del Novecento, l’altro della fine del secolo: ed è un’opinione abbastanza sorprendente per il lettore italiano, abituato a sentirsi dire, dagli storici di casa propria, che il colonialismo italiano è stato, in tutto e per tutto, un crimine e un errore. Se fu un errore, fu un errore condiviso da tutte le maggiori potenze mondiali dell’epoca, Stati Uniti, Russia e Giappone compresi (sia pure in forme diverse dagli Stati europei, e con la sola eccezione, già notata dal Fueter, dell’Impero austro-ungarico). Se non lo fu, poche altre nazioni ebbero più motivi dell’Italia per impegnarsi in direzione della conquista di un impero coloniale; e poche altre nazioni subirono un danno più grave dalla perdita di esso. Non la subì certo la Germania del 1918, che, ricca comunque di ferro e carbone e con una economia industriale in grado di assorbire tutta la propria forza lavoro, non ne aveva bisogno né per procurarsi fonti di energia e materie prime, né per dare uno sbocco alla propria manodopera disoccupata. E tanto ci sembra che andasse detto per porre le basi di una futura, più serena discussione circa i pro ed i contro di questa pagina della nostra recente storia nazionale, oggi così volentieri rimossa o sottovalutata dagli studiosi di formazione accademica e così volentieri posta in una luce falsa e tendenziosa dall’intellighenzia politicamente corretta.
Grazie per il disco di Gea della Garisenda. L'ho cercato senza trovarlo.
Nel mio fatalismo senile e siciliano posso solo dire che il Diritto Internazionale ha un solo articolo: vae victis!
Non so quale guerra si possa definire umanitaria.
Nel 1943 gli "alleati liberatori" occuparono la Sicilia. Le città subirono bombardementi, gli abitanti cercavano rifugio nei casolari di campagna. Così una mia zia con le sue due bambine. Sentì il rumore di un aereo, un solo aereo inglese. Incuriosita uscì sull'uscio ed agitò la mano per salutare il "liberatore". Fu mitragliata e lasciò le sue Lilly ed Anna Maria. Molto peggio quel che successe in Ciociaria ad opera di truppe marocchine al comando di un generale francese che non mi risulta essere finito sotto processo per crimini di guerra.
La guerra tra i popoli per questione di interesse di pochi non finirà mai. Siamo tutti contro la guerra ma ce l'abbiamo nel sangue. Siamo pronti a litigare per un parcheggio, figuriamoci per il petrolio. La Libia poi, per me, ha sempre avuto un fascino misterioso perchè il mio nonno materno aveva partecipato alla campagna in Libia e ne parlava spesso, peccato sia morto presto quando io ero ancora troppo piccola per ricordare bene.
in quella guerra iniziò la sua carriera di ufficiale dell'Esercito il padrino di mia madre; morì vecchio e lo frequentai a lungo; conservo la sua gavetta. Per onorarlo mi recai Redipuglia
Nessuna guerra è "umanitaria", neppure quando è a scopo di difesa.... quanti fattacci sono accaduti anche tra le legioni dei partigiani, e che dire dei "salvatori"... le loro bombe hanno colpito i civili (tua zia Enzo è un esempio tra tanti), i contingenti marocchini, e non solo, sono stati selvaggi e violenti.... la lista è molto lunga, quando si è in guerra parrebbe tutto lecito ma non è affatto così......sarebbe un sogno un mondo di pace, ma è vero, ci si scanna alle riunioni condominiali, figuriamoci di fronte ad un interesse, tipo petrolio, tanto per dirne una....
Ho visitato Redipuglia e il cimitero inglese presso Firenze... quante vite spezzate, se ne potrebbe parlare per pagine...
Tra l'altro, chi ha letto La pelle di Malaparte? (lascia il segno)
I Goumiers erano truppe coloniali irregolari francesi appartenenti ai Goums Marocains, un reparto delle dimensioni approssimative di una divisione ma meno rigidamente organizzato, che costituiva il CEF (Corps expeditionnaire français) insieme a quattro altre divisioni: la Seconda Divisione Marocchina di Fanteria, la Terza Divisione Algerina di Fanteria, la Quarta Divisione di Montagna Marocchina e la Prima Divisione della Francia Libera. I Goums erano al comando del generale francese Augustin Guillaume.
Il 14 maggio1944 i Goumiers, attraversando un terreno apparentemente insuperabile nei monti Aurunci, aggirarono le linee difensive tedesche nell'adiacente valle del Liri consentendo al XIII Corpo britannico di sfondare la linea Gustav e di avanzare fino alla successiva linea di difesa predisposta dalle truppe germaniche, la linea Adolf Hitler. In seguito a questa battaglia il generale Alphonse Juin avrebbe dato ai suoi soldati cinquanta ore di "libertà",[1] durante le quali si verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione denominate appunto marocchinate.
Le cifre riguardanti il totali degli stupri e omicidi sono molto varie. [2] Secondo i dati del Ministero degli Interni, poi trasmessi alla Commissione alleata di controllo ci furono circa 2.000-3.000 stupri di donne, molte delle quali furono contagiate da malattie veneree, circa 800 uomini sodomizzati, molti dei quali successivamente assassinati tramite impalatura, oltre a un centinaio di omicidi e la distruzione di 811 case poi incendiate.[3]
Il sindaco di Esperia (comune in provincia di Frosinone) affermò che nella sua città 700 donne su un totale di 2.500 abitanti furono stuprate e, alcune di esse, in seguito a ciò morirono. Con l'avanzare degli alleati lungo la penisola, eventi di questo tipo si verificarono altrove: nel Lazio settentrionale e nella Toscana meridionale i Goumier stuprarono e, a volte, uccisero donne e giovani dopo la ritirata delle truppe naziste, compresi membri della resistenza italiana.
Lo scrittore Norman Lewis, all'epoca ufficiale britannico sul fronte di Monte Cassino narrò gli eventi:
« Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate.... A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non c'erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi..I Marocchini di solito aggrediscono le donne in due -uno ha un rapporto normale, mentre l'altro la sodomizza. »
Diverse città laziali furono investite dalla foga dei goumiers (truppe marocchine), si segnalano le cittadine di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo e Sgurgola in cui numerose ragazze e bambine furono ripetutamernte violentate talvolta anche alla presenza dei genitori[5]
In una testimonianza raccolta dal professor Bruno D'Epiro si racconta che il parroco di Esperia cercò invano di salvare tre donne dalle violenze dei soldati: fu legato e sodomizzato tutta la notte e morì in seguito a queste violenze.
Secondo alcune testimonianze a Pico i soldati americani sarebbero giunti mentre i groumiers stavano compiendo le violenze, ma furono bloccati dai loro ufficiali
Però queste violenze non le subirono solo in questa zona dell'Italia: il fenomeno sarebbe iniziato già dal luglio 1943 in Sicilia, propagandosi poi in tutta la penisola e si sarebbe arrestato solo nell'ottobre 1944, quando i CEF furono trasferiti in Provenza. In Sicilia, i groumiers avrebbero avuto scontri molto accesi con la popolazione per questo motivo: si parla del ritrovamento di alcuni soldati uccisi con i genitali tagliati (secondo alcuni un chiaro segnale).
Le autorità francesi, tuttavia, hanno sempre negato che queste affermazioni corrispondessero a verità.
Il 18 giugno del 1944 papa Pio XII sollecitò Charles de Gaulle a prendere provvedimenti per questa situazione. Ne ricevette una risposta accorata e al tempo stesso irata nei confronti del generale Guillaume. Entrò quindi in scena la magistratura francese, che fino al 1945 avviò 160 procedimenti giudiziari nei confronti di 360 individui. A queste cifre bisogna però sommare il numero di quanti furono colti sul fatto e fucilati.
Per quanto l'originale sia introvabile, si conosce la traduzione di un volantino in francese e arabo che sarebbe circolato tra i groumiers:
« Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete »
(Traduzione dell'associazione nazionale vittime civili)
La storia del volantino, tuttavia, potrebbe essere stata solo una storia messa in giro per far ricadere la colpa dell'intera vicenda sul generale Juin. Con l'accettazione dell'esistenza di questo volantino (della cui reale esistenza non esistono prove), infatti, si nega la possibilità che questo fenomeno abbia interessato mezza Italia.
Un'ulteriore prova che questo fenomeno non fosse circoscritto alle 50 ore di cui parlerebbe il volantino sarebbe la presenza di moduli prestampati per denunciare le violenze effettuate dai marocchini.
Anche se si nega l'esistenza del volantino, tuttavia, l'acquiescenza di comandanti ed ufficiali ed il carattere sistematico delle violenze ha portato a definire l'idea di una libertà di azione concessa ai soldati nei confronti dei civili. Ai soldati marocchini, cioè, sarebbe stato concesso il diritto di preda.
Il film La ciociara, ispirato al romanzo omonimo di Alberto Moravia e diretto da Vittorio de Sica, culmina con la violenza da parte dei Goumierssulle protagoniste, madre e figlia adolescente, la quale genitrice chiama turchi in un disperato sfogo verso degli ufficiali francesi che si fingono scettici.
Nel film La pelle (1981) di Liliana Cavani, dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte, del quale Marcello Mastroianni interpreta il ruolo, si vede una miserrima Napoli di fine guerra dove alcune donne offrono i loro figli adolescenti a dei Goumeriers. Un ufficiale francese li giustifica come "degli ipersessuati [...] (che) lo metterebbero anche in un girasole".
L'impatto emotivo sull'opinione pubblica italiana ha portato a generalizzare la brutalità su tutta la popolazione maschile marocchina, generando una forma di razzismo che ha perdurato nel dopoguerra fino in tempi recenti.
Ricorrevano luoghi comuni sul maschio locale, immaginato con attributi esagerati e dominato da libido parossistica cui originava un orientamento pansessuale. Seguivano leggende metropolitane di molestie e violenze a danno di turisti di sesso maschile, e di sparizioni di donne straniere, per una fantomatica tratta schiavistica.
Il termine marocchino viene purtroppo usato quale epiteto offensivo ad indicare l'italiano del Sud, puntualmente immaginato incivile e violento.