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De: lore luc (Mensaje original) |
Enviado: 06/06/2011 09:10 |
da "La Stampa"
150 anni dopo, Cavour resta
il politico dei miei sogni
Ucciso
dalla malaria Camillo Benso di Cavour ritratto in abiti ufficiali. Lo
statista nacque a Torino il 10 agosto 1810. Morì a 51 anni non ancora
compiuti in seguito a una delle crisi malariche che lo affliggevano da
quando aveva contratto la malattia nelle risaie di famiglia del
Vercellese
Il 6 giugno 1861 moriva Cavour: stasera la commemorazione al castello di Santena
MASSIMO GRAMELLINI
A quattordici anni avevo tre poster nella stanza:
Pulici, i Genesis e il conte di Cavour. Qualcuno troverà innaturale
l’innamoramento di un adolescente per un professionista della politica,
per di più di idee liberali. I giovani dovrebbero ergere a proprio
modello i rivoluzionari e concordare con Dumas, l’inventore dei Tre moschettieri:
«Che posso farci con Cavour, io? Cavour è un grande uomo di Stato, un
politico consumato, un uomo di genio. Più in gamba di Garibaldi, ma non
porta la camicia rossa, lui! Garibaldi è un pazzo, uno sciocco, ma uno
sciocco eroico: ci intenderemo benissimo».
Invece la mia indole
garibaldina rimase sedotta da Cavour. Forse per la legge degli opposti. O
forse perché Cavour è un personaggio romantico che per esserlo non ha
bisogno di lanciare proclami da un cavallo bianco. La mia fascinazione
fu in gran parte determinata dalla lettura delle sue «bravate»
giovanili.
Il disprezzo con cui accolse la nomina a paggio di
Carlo Alberto («Non vedo l’ora di togliermi di dosso questa livrea da
gambero») e la descrizione che di lui diede il padre, il marchese
Michele, in una lettera alla moglie: «Nostro figlio è un ben curioso
tipo. Anzitutto, ha così onorato la mensa: grossa scodella di zuppa, due
belle cotolette, un piatto di lesso, un beccaccino, riso, patate,
fagiolini, uva e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiar altro!
Dopodiché mi ha recitato parecchi canti di Dante e le canzoni di
Petrarca, passeggiando a grandi passi in vestaglia con le mani affondate
nelle tasche». Mi catturò questa bulimia del vivere, la ricerca
spasmodica di emozioni forti che farà di lui uno scommettitore
spregiudicato, un viaggiatore infaticabile e un amante smanioso di
conquiste ma incapace di amori profondi, perché la quiete in cui
crescono i sentimenti autentici si scontrava con il perpetuo bisogno
d’azione che in lui fungeva da antidoto alla depressione.
Mi
identificai con questa sua tara psicologica e ancora oggi, quando salgo
al Monte dei Cappuccini per rimirare il panorama di Torino, il pensiero
corre al giovane Cavour che non vede sbocchi per il suo talento in un
Piemonte asfittico e reazionario, e al culmine di una giornata di
pensieri cupi si affaccia al bastione per gettarsi nel vuoto, trattenuto
a stento da un cappuccino, fra Valeriano. Che un frate abbia salvato la
vita al futuro mangiapreti mi è sempre sembrata un’ironia della
Provvidenza. Non nego che da ragazzo il suo anticlericalismo (abbinato
però a un grande rispetto per la spiritualità) abbia contribuito a farmi
innamorare di lui. Lessi l’articolo del Risorgimento in cui
l’ormai quarantenne Cavour raccontava la scena del ricatto subìto sul
letto di morte dal suo amico del cuore, Santorre di Santarosa, al quale
il prete negò l’estrema unzione, subordinandola all’abiura delle leggi
Siccardi. Erano leggi civili, che abolivano odiosi privilegi
ecclesiastici nel campo della giustizia e del fisco. Il 7 marzo 1850, il
deputato Camillo Cavour le appoggiò alla Camera con un discorso
magistrale: «Gli abusi vanno riformati in tempi pacifici, prima che ci
vengano imposti dai partiti estremi. Le riforme compiute a tempo, invece
di indebolire l’autorità, la rafforzano, invece di crescere la forza
dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza». Era ed è il
manifesto del riformismo: l’unica ricetta di progresso sociale
possibile, perciò osteggiata dai reazionari che non vogliono cambiare
nulla e dai massimalisti che, per la smania di cambiar tutto, finiscono
sempre per fare il gioco dei reazionari.
Emozionarsi per il
riformismo a vent’anni ha qualcosa di mostruoso, lo ammetto. Ma la colpa
o il merito erano di quel formidabile «testimonial». Cavour non era un
parolaio né un utopista. Ma quanto coraggio e quanta passione vibravano
nella sua politica economica liberale, che abolì i dazi e indebitò lo
Stato per costruire infrastrutture all’avanguardia e promuovere consumi e
investimenti, proiettando il Piemonte nel futuro. E quanto genio e
quanta visione nella sua politica estera. Fu abbastanza sognatore da
immaginare l’Italia (almeno quella del Nord) e abbastanza pragmatico per
capire che non potevamo costruirla solo con le nostre forze, come
avrebbe voluto Mazzini. Così curò il suo alleato, Napoleone III, lo
compiacque nelle smanie cospiratrici, nei vizietti d’alcova e finanche
nei disegni dinastici, obbligando Vittorio Emanuele II, pover’uomo, a
concedere in sposa la renitente figlioletta Clotilde a un parente
dell’imperatore. Ecco, se Cavour aveva un difetto, era di essere
disposto a sacrificare tutto, compresi gli affetti, agli interessi
supremi dello Stato. Ma siamo sicuri che per un politico sia un difetto?
è
più semplice innamorarsi di un Garibaldi, di un Braveheart, di un Che
Guevara. Ma Cavour è l’Utopia che scende sulla Terra e si fa carne,
progetto concreto. è l’eterno bambino che quando gli annunciano che
l’Austria ha abboccato al suo bluff e ci ha dichiarato guerra (facendo
così scattare la clausola di mutuo soccorso con la Francia) incomincia a
saltellare per la stanza, cantando una romanza e steccandola
maledettamente. è il despota collerico che, dopo l’armistizio di
Villafranca che concede al Piemonte la sola Lombardia, implora Vittorio
Emanuele di non firmare e, di fronte alle resistenze del sovrano, gli
grida: «Sono io il vero Re!» e se ne va sbattendo la porta.
Non
mi fu facile da ragazzo, e non lo è nemmeno oggi, digerire la
spregiudicatezza con cui il Conte scalò la presidenza del Consiglio,
segando la poltrona su cui stava seduto quel gentiluomo di Massimo
D’Azeglio, che pure lo aveva voluto al governo come ministro
dell’Agricoltura («Ch’a stago sicur che côl lì, an poch temp, an lo fica
an’t el pronio a tuti», «state sicuri che quello lì in poco tempo lo
metterà in quel posto a tutti», profetizzò allora il Re, che non lo amò
mai, ma seppe intuirne il talento). Anche l’idea del Connubio, l’accordo
con la sinistra moderata di Rattazzi, fa storcere la bocca ai puristi,
che vi vedono l’archetipo degli «inciuci» parlamentari che da 150 anni
sono la nostra croce. Eppure c’è una differenza fondamentale tra Cavour e
i suoi pallidi successori. In lui la manovra politica non era mai un
fine, ma un mezzo per perseguire obiettivi più grandi, che trascendevano
la sua ambizione personale. Il Conte aveva un progetto. E sono i
progetti a distinguere gli statisti dai politicanti. «Noi abbiamo fatto
l’Italia. E la cosa va», disse sul letto di morte. Una morte prematura, a
soli 51 anni. Il triste finale di una storia che rileggo ogni anno
nella speranza infantile di un colpo di scena: che Cavour guarisca e,
150 anni dopo aver fatto l’Italia, ci aiuti a fare gli italiani. Lui che
di italiano non aveva nulla, se non il genio, se non il cuore.
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E' un personaggio che ha sempre attratto anche me ...
Lui e tutto quel periodo storico!
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Otto Von Cavour
Bismark e il primo ministro piemontese: la realpolitik ha due facce, può essere autoritaria o liberale
di Gian Enrico Rusconi
Dovremmo
inventare noi il regno d'Italia se non fosse già nato per conto suo» -
così scriveva Otto von Bismarck nell’ottobre 1862
Era
passato un anno dalla morte di Cavour. Gli eventi italiani del 1859-61
(guerra franco-piemontese contro l’Austria, acquisizione della
Lombardia, aggregazione al Piemonte delle regioni italiane centrali, la
fulminea conquista del Meridione con la spedizione garibaldina, la
proclamazione del Regno d'Italia) - questi eventi avevano lasciato
stupiti, ammirati, preoccupati gli europei.
Soprattutto ne erano
affascinati i tedeschi che avevano un problema nazionale molto simile.
Erano infatti divisi in tanti Stati minori (formalmente uniti in una
debole Confederazione) sotto la pressione egemonica di due Stati forti,
tendenzialmente ostili, al nord la Prussia e al sud l’Austria. Per molti
tedeschi la vicenda italiana era diventata un modello da seguire.
In
particolare la figura di Cavour sollevava incondizionata ammirazione
per la straordinaria abilità, energia e intelligenza nell’aver condotto
in porto un’impresa che anni prima era giudicata semplicemente
impossibile.
Era
un capolavoro politico che combinava due risorse: spregiudicato
inserimento della questione nazionale nella dinamica internazionale,
anche con il ricorso alle armi, in un gioco di sponda tra le grandi
potenze europee (Francia, Austria, Inghilterra, ma anche Russia e
Prussia) e mantenimento all’interno di una politica fondamentalmente
liberale, parlamentare. Era l’attuazione dell’ideale nazionale liberale:
unità nazionale e libertà politica. Un sogno. L’Italia cavouriana era
il modello da imitare.
è commovente oggi per noi italiani
leggere nella pubblicistica tedesca del tempo l’invito a «fare come in
Italia». Non sarebbe mai più accaduto nei centocinquant’anni successivi.
A questo punto si inserisce il discorso sulla Prussia e
Bismarck. Il regno d’Italia completa la sua unificazione con
l’acquisizione del Veneto e di Roma, con l’aiuto delle vittorie militari
prussiane. Rispettivamente con la battaglia di Sadowa contro l’Austria
(1866) - nonostante le sconfitte italiane a Custoza e Lissa - e la
vittoria sui francesi a Sedan nel 1870.
Il
risorgimento si conclude grazie alla Prussia di Bismarck. E non si
tratta di un completamento meramente territoriale ma dell’inserimento
dell’Italia nel gioco delle potenze europee. Che i successori di Cavour
siano stati maldestri e in difficoltà in questa fase è un altro
discorso. Ma è difficile immaginare «che cosa avrebbe fatto Cavour».
Certamente avrebbe approvato l’alleanza con la Prussia. Ci sono segni
chiari nelle sue ultime riflessioni politiche.
Ma stiamo ai
fatti e alle aspettative del tempo, lasciando da parte in questa sede
l’idealizzazione di quanto è realmente accaduto in Italia, soprattutto
gli errori commessi nei riguardi del Mezzogiorno.
Torniamo al
confronto tra Cavour e Bismarck. Quest’ultimo nel 1862 diventa
presidente dei ministri della Prussia coltivando subito l’intenzione di
farne la potenza egemone della Confederazione tedesca, espellendone
l’Austria. Come aveva fatto il Piemonte? Come aveva agito Cavour? Come
gli raccomandavano molti pubblicisti e commentatori politici? Non
esattamente.
Per
cominciare si scontra frontalmente con le forze liberali che non
intendono approvare il costoso rafforzamento dell’esercito prussiano che
Bismarck sta attuando in previsione dello scontro frontale con
l’Austria. Per il resto, il presidente dei ministri prussiano non esita a
proclamare davanti ad una assemblea esterrefatta la sua filosofia
politica: «Non con i discorsi e le risoluzioni prese a maggioranza si
decideranno le grandi questione del nostro tempo - questo è il grande
errore del 1848 e del 1849 - ma con il ferro e il sangue».
Cavour
non avrebbe mai fatto un’affermazione del genere, pur non esitando a
ricorrere al «ferro e al sangue» quando era necessario. Ma la sua
prospettiva politica era basata - con convinzione - sui valori del
liberalismo, sulle procedure parlamentari e le risoluzioni «prese a
maggioranza» che lui sapeva gestire in maniera eccezionalmente abile,
attirandosi spesso l’accusa di essere un manipolatore del parlamento se
non addirittura un «dittatore democratico».
Su questa base - che
lo storico più noto del tempo Treitschke definiva senz’altro «geniale
Realpolitik» - si costruiscono le analogie tra i due statisti.
Cavourismo e bismarckismo diventano due espressioni o modelli ora
interscambiabili, ora contrapposti, in un gioco pubblicistico infinito.
Lo storico oggi fa fatica a distinguere tra la retorica del giornalista e
l’intuizione dell’analista.
Questo
atteggiamento si ritrova naturalmente anche tra gli uomini politici
italiani, in particolare tra quelli che trattano con la Germania. Il
generale Govone, inviato a Berlino nel 1866 per definire con Bismarck
l’alleanza militare che avrebbe portato alla guerra comune contro
l’Austria, una volta tornato in Italia dice: «Bismarck è il nostro
Cavour, tutto Cavour in carne ed ossa».
è
difficile capire come il militare sia arrivato a questa sorprendente
conclusione. Evidentemente essa coglieva la spregiudicata valutazioni
delle forze in campo, il realismo politico comune ai due statisti, ma
trascurava la piattaforma dei valori di fondo sulla quale si muovevano.
Sì, la vera lezione - la più difficile da apprendere - è che ci sono
Realpolitiker liberali e Realpolitiker autoritari.
www.lastampa.it
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Quando Bismarck era un piccolo Cavour
Di sottoosservazione
Il cancelliere Bismarck
Il saggio di Rusconi sui due leader a confronto rivela una realtà che
oggi lascia stupefatti: a metà ’800 i tedeschi ci guardavano come un
modello
Alessandro Barbero per “La Stampa“
Si dice spesso che il Piemonte è stato nel Risorgimento la Prussia
d’Italia: in una nazione divisa fra troppi staterelli era l’unica
monarchia solida e bene armata, capace di realizzare l’unità sulla punta
delle sue baionette. Si dimentica, però, che il Piemonte unificò
l’Italia qualche anno prima che la Prussia unificasse la Germania, e
quando le vittorie prussiane erano ancora impensabili. Negli anni
successivi all’Unità d’Italia, era la Prussia a venir paragonata a un
Piemonte di Germania, e nei caffè si discuteva se Bismarck avrebbe mai
potuto essere un Cavour tedesco (ma si tendeva a pensare di no, perché
la sua brutalità e il suo disprezzo per le regole parlamentari
contrastavano penosamente con il liberalismo di Cavour, e con la sua
maestria nell’arte anglosassone di governare incantando il parlamento).
Fu un momento magico, in cui l’Italia era oggetto di ammirazione in
Europa e nel mondo; e purtroppo durò pochissimo. Finì nel 1866, il vero
annus horribilis della nostra storia, quando la doppia catastrofe di
Custoza e di Lissa aprì gli occhi a tutti sulla fragilità del nuovo
Stato, proprio mentre la vittoria dei nostri alleati prussiani
sull’Austria rivelava la nascita di una nuova grande potenza, pronta a
dare l’assalto al potere mondiale. Da quello shock, che distrusse la
fiducia in se stessi faticosamente riconquistata dagli italiani, e
trasformò in derisione la simpatia di cui godevamo, l’Italia non si è
mai veramente ripresa.
Ha ragione quindi Gian Enrico Rusconi a concludere con il 1866 il suo parallelo tra Cavour e Bismarck, sottotitolato Due leader fra liberalismo e cesarismo
(Il Mulino, pp. 212, euro 15). Quasi sconosciuto fino alla guerra di
Crimea, poi ammirato come uno dei grandi uomini d’Europa e pianto con
sincera costernazione alla sua improvvisa scomparsa, Cavour continuò
ancora per pochi anni dopo la morte a essere ricordato e celebrato anche
fuori d’Italia come il grande maestro della Realpolitik, l’uomo che con
la sua forza di volontà aveva cambiato il mondo; poi, inevitabilmente,
l’elmo chiodato e i baffoni di Bismarck sostituirono nell’immaginario
collettivo gli occhialini e la barbetta di Camillo.
Oggi siamo così convinti, e non a torto, che l’Italia sia un paese
arretrato e secondario rispetto alla Germania, che provoca stupefazione
immergersi, con Rusconi, nel dibattito politico tedesco di metà
Ottocento. Nel 1853 August von Rochau aveva inventato il concetto di
Realpolitik – capacità, cioè, di far politica sfruttando con
spregiudicatezza le condizioni del momento, perseguendo un fine preciso
ma senza illusioni né paraocchi ideologici, prendendo decisioni
destinate a produrre fatti concreti, calcolandone le conseguenze e
assumendone il rischio. Si era prima ancora della guerra di Crimea;
eppure, con preveggenza, Rochau aveva già additato nella politica del
regno di Sardegna un esempio di Realpolitik carico di promesse per il
futuro. Da allora, e per un quindicennio, Cavour domina l’orizzonte
politico tedesco in un modo che oggi appare impensabile: ancora nel 1865
il grande storico Heinrich von Treitschke annuncia il progetto di
scrivere una biografia di Cavour per «mostrare al nostro pubblico che
cosa è una geniale Realpolitik».
Per un popolo diviso, era ovvio allora che l’obiettivo più urgente e
vitale fosse l’unificazione. «Noi tedeschi abbiamo sperimentato con
amaro dolore quanta infelicità, umiliazione e vergogna nasce dalla
mancanza di unità politica», scriveva nel 1858 un politico tedesco,
augurando agli italiani, non senza invidia, ogni successo nella loro
impresa. Nei due anni successivi l’impresa riuscì al di là di ogni
speranza, e i liberali tedeschi additarono l’Italia coraggiosa e
calcolatrice, pragmatica ed efficace di Cavour come un modello, pur
dubitando che la Germania potesse mai arrivare alla sua altezza.
«L’Italia non era corrosa da ostinato dottrinarismo» e per questo aveva
vinto, scrivevano, senza immaginare che un secolo e mezzo dopo queste
parole ci avrebbero lasciati stupefatti; e sospiravano: «l’unica grande
splendida vittoria del liberalismo che il nostro secolo conosce è stata
raggiunta in Italia».
Ancora nel fatale 1866, un eminente liberale tedesco confessava:
«Come ho invidiato per anni gli italiani, per il fatto che a loro fosse
riuscito quello che a noi il destino sembrava aver rimandato a un
lontano futuro; come ho desiderato un Cavour tedesco e un Garibaldi come
messia politico della Germania»; e si dichiarava incredulo davanti alla
scoperta che dopo tutto un Bismarck non era inferiore a un Cavour. Ma,
appunto, nuovi fatti si erano verificati, e i fatti hanno l’abitudine di
cambiare anche la percezione del passato. Quando uscì il Cavour di
Treitschke, nel 1869, lo studioso ormai scriveva: «I difetti dell’unità
d’Italia raggiunta prematuramente e con l’aiuto straniero appaiono agli
occhi di tutti». Non molto tempo prima Rochau annotava che in Italia le
masse erano rimaste passive nel processo di unificazione, e che nella
Penisola «già si vede in atto il particolarismo che distrugge l’unità
appena conquistata». Qui, come si vede, siamo su un terreno ben più
familiare per noi italiani del 2011. Il miracolo del Risorgimento era
durato lo spazio di un istante.
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Per la sua grande statura politica, Cavour ebbe non solo la stima degli amici ma anche dei nemici, tanto che Bismarck disse: “è morto il più grande statista d‟Europa”.
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Certo ... ! Grande Cavour !
Che periodo deve esser stato, Lore ...!
Mi ha sempre affascinato !
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La
Contessa di Castiglione
(1837-1899)
La
Contessa di Castiglione
...come quella Contessa
Castiglione/ bellissima di
cui si favoleggia...(Guido Gozzano)
Immortalata anche nei versi, oltre
che sulla tela e in ritratti pittorici e fotografici da svariati
artisti dell'epoca,
continuamente riproposta ai nostri tempi in films e sceneggiati, Virginia Oldoini, contessa
di Castiglione, la "divina Castiglione", "l'amica dei re", considerata la
donna più bella
del suo secolo, fu affascinante, intelligente, colta e scaltra, abile nella diplomazia
e negli affari, e si servì del suo
fascino non solo per i personali scopi seduttivi, ma anche per influire sulla
politica del tempo.
Sono nata alla Spezia, mi sono sposata alla Spezia e
voglio essere sepolta alla Spezia mia ingrata, ingiusta amata
città, così scriveva la contessa ma, in realtà, Virginia
Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria era nata a Firenze il
23 marzo 1837, figlia del nobile marchese spezzino Filippo Oldoini e della
fiorentina Isabella Lamporecchi. La Spezia, dove visse ma non fu
sepolta, nonostante lo desiderasse, fu la città che molto amò e alla quale
sempre pensò come al borgo natio, attratta con
nostalgia dal
Golfo dei Poeti, da lei romanticamente ribattezzato "Golfo di
Ariel".
Virginia, soprannominata "Nicchia" da Massimo
D'Azeglio, divenne la contessa di Castiglione sposando giovanissima il
conte Francesco Verasis di Castiglione, che non amava, al quale fu
ripetutamente infedele e dal quale poi si separò.
Alta, bionda, di figura armoniosa e snella, una statua di carne, come la definì non senza invidia la principessa di
Metternich, con gli occhi cangianti tra l'azzurro e il verde, il nasino
all'insù, aveva anche belli mani e piedi, tanto che molti artisti li
ritrassero separatamente dal corpo, di sé diceva: Io
sono io, e me ne vanto; non voglio niente dalle altre e per le altre. Io
valgo molto più di loro. Riconosco che posso non sembrare buona dato il
mio carattere fiero, franco e libero, che mi fa essere talvolta cruda e
dura. Così qualcuno mi detesta; ma ciò non m'importa. Non ci tengo a
piacere a tutti". Passionale, consapevole del suo fascino,
altera e superba, sprezzante verso le altre donne,
amante della libertà e insofferente alla disciplina, animata da
irrefrenabile ambizione mondana, Virginia era anche convinta di essere predestinata
ad un destino superiore, di poter passare alla Storia aiutando il Paese.
Fu Cavour, il suo "brutto cugino", l'unico uomo che,
pur subendone il fascino, non cedette alle sue seduzioni, ad
inviarla a Parigi, con l'approvazione del re Vittorio Emanuele II,
affinché, con l'adulazione e la seduzione, influenzasse favorevolmente
verso l'Italia Napoleone III e lo spingesse all'alleanza
franco-piemontese.
E fu così che, fra intrighi amorosi e maneggi politici, destreggiandosi
fra la diplomazia e l'alcova, divenne una delle poche donne in grado di svolgere, seppur con
mezzi discutibili, una funzione politica, esercitando un
ruolo importante nella formazione dell'unità d'Italia, e schierandosi a favore della
Francia invasa dai prussiani, contribuendo a scrivere un'importante pagina della storia del
Risorgimento.
Dopo aver brillato e scintillato tra gioielli preziosi e
toilette da favola, tra balli ed amanti, dopo aver conosciuto i fasti, i
piaceri e i trionfi della mondanità, finì i suoi giorni come una
romantica eroina: ignorata, in solitudine, disperata, quasi folle,
piena di rancori ed inconsolabile per il fascino perduto.
Chiese di essere sepolta alla Spezia, senza funzione religiosa e senza
fiori, senza informare i giornali e le autorità, con una camicia da notte
leggera e preziosa, quella che stava tutta nel pugno di una mano, che aveva
indossato la notte trascorsa con Napoleone III a Compiègne, con al collo una collana
di perle e ai polsi due braccialetti che tanto aveva cari, sotto il capo
il cuscino di velluto ricamato dal figlio Giorgio quand'era bambino, e di
avere ai suoi piedi, nella bara, i due cagnolini imbalsamati.
Morì nel 1899 a Parigi; niente di quanto chiese
ottenne, né dalla Francia, che aveva aiutato, né dall'Italia che,
nonostante i mezzi discutibili, aveva contribuito a creare.
Nessuno dei suoi estremi desideri fu esaudito: ebbe
una regolare funzione religiosa, ai suoi funerali parteciparono i
camerieri, un duca e un
agente di cambio, fu privata della compagnia dei suoi cani,
persino del cuscino
del figlio, morto da tempo, che pure in tutta la vita non aveva
molto amato e seguito ma del quale, in un tardivo sussulto d'istinto
materno, si era
ricordata, e non indossò né la famosa camicia della notte di
Compiègne
né i
suoi gioielli, prontamente sottratti dagli eredi d'accordo con
l'avvocato
compiacente.
Subito dopo la sua morte la polizia, le autorità e i servizi segreti
sabaudi frugarono tra le sue carte e bruciarono tutte le lettere e i documenti
a lei inviati dalle massime personalità del tempo con le quali era
entrata in contatto, re, politici, papi e banchieri, come Napoleone III,
Bismarck, Cavour, Pio IX, Rothscild, forse per cancellare
documenti compromettenti o per negare che l'Italia le era debitrice
perché
l'Unità era
stata conseguita anche attraverso le sue modalità non troppo lecite, ma era
stato proprio il capo del governo, Cavour,quando l'aveva spedita a Parigi
da Napoleone III, a dire a Virginia: "Usate tutti i mezzi che vi
pare, ma riuscite".
La contessa di Castiglione non ebbe nemmeno la tomba in Italia, non fu sepolta
alla Spezia, ma nel cimitero di Père Lachaise, dove
ancora oggi riposa.
Un poeta anonimo le dedicò
questi versi:
Ah la contessa riposa
su un letto di fiori e di
trine,
colei che fu Aspasia e fu
Frine,
giglio, anemone e rosa
sogna gli amanti imperiali
i balli le corti gli omaggi
côtillons feste equipaggi
gli amici dai nomi immortali.
Voleva essere insieme
imperatrice e regina
or la bellezza si incrina
e il tenero cuore ne geme.
Tutto è perduto: gli specchi
coperti. Non vuole vedere
mutate le chiome sue nere
in grigio di spenti cernecchi.
E piange, ogni lacrima splende
come una perla sul viso;
Napoleone conquiso
dal gran ritratto discende
e dice: "Contessa, voi siete
tra le più belle la bella
sempre". Un sorriso cancella
allora le pene segrete.
E' un attimo solo. La Morte
distende il suo negro mantello
e il viso che fu così bello
conosce l'oltraggio più forte.
Francesca Santucci
Foto
della Contessa di Castiglione
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Ricordi
Concorso
per le Poste. Esame orale, materia “geografia delle comunicazioni”. Su una cartina muta dell’Europa l’esaminatore
mi indica una piccola penisola; prima di rispondere “Crimea” esordisco
compiaciuto “il capolavoro diplomatico di Camillo Benso conte di Cavour”. La
Storia non era materia di esami, ma per un po’ parlammo di assedio di
Sebastopoli e di seconda guerra di indipendenza. Mi congedò con un formale “complimenti!”.
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Un bel ricordo Lore ...!
Tenero e importante!
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ricordi: distintivo di senilità
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De: haiku04 |
Enviado: 09/06/2011 11:18 |
Non necessariamente Enzo, anche se con l'avanzare dell'età si hanno sempre più cose da ricordare, e forse meno progetti da realizzare.... c'est le vie.... |
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