da "il Tempo"
Buttiamo i soldi in Grecia
ma non tagliamo le tasse
DI MARLOWE Per molti
esperti Atene è già tecnicamente in default. Un ferroviere ellenico
guadagna fino a 138 mila dollari. L’aiuto costa a ogni italiano 340
euro. E noi non riformiamo il fisco.
Ecco perché dobbiamo abbassare le imposte DI ANTONIO MARTINO
Domandina:
dove vanno a finire i miliardi che stiamo prestando alla Grecia? Forse
sarebbe il caso che la questione non restasse nel chiuso dei piani alti
di Bruxelles: tanto più ora che l’Unione europea ha deciso una seconda
tranche di aiuti da 60-70 miliardi, in aggiunta ai 110 del maggio 2010
che a quanto pare non sono serviti a molto visto che Moody’s ha appena
declassato di tre gradini, da B1 a Caa1 il rating di Atene, e con
outlook negativo. I contribuenti tedeschi, per esempio, vogliono
conoscere che fine fanno i loro soldi, e da oltre un anno su questa
storia della Grecia bastonano ad ogni elezione il governo, in barba a
tutte le strabilianti performance economiche di Angela Merkel. E noi?
Noi che siamo il Paese più euro-entusiasta, che cosa sappiamo dei
quattrini che prendono la via del Pireo? Il Tempo può fornire una prima
risposta, certo parziale, ma illuminante. Nelle settimane scorse una
missione del Tesoro italiano è andata riservatamente ad Atene per capire
se ci sono speranze che il piano di austerity del governo socialista di
George Papandreu riesca a produrre frutti, e quindi se la nostra quota
del meccanismo di solidarietà potrà tornare all'ovile, e quando. E ha
accertato alcune realtà finora confinate ad indiscrezioni giornalistiche
per il pubblico americano. Su tutte, questa che vi giriamo: le Ferrovie
greche, ovviamente pubbliche, pagano i dipendenti una media di 80 mila
dollari l'anno, circa 50 mila euro. Stipendi che per i macchinisti,
specie quelli impegnati sulle linee «disagiate» come il Peloponneso,
arrivano a 138 mila dollari, 84 mila euro. Tenuto conto della pressione
fiscale e contributiva che in Grecia è pari al 37 per cento, sei punti
meno che da noi, i macchinisti greci si portano a casa mediamente 4 mila
euro netti, per 14 mensilità. Il 30 per cento abbondante più di un
macchinista italiano al massimo di anzianità e orario di lavoro. Mentre
l'impiegato comune percepisce intorno ai 2.300 euro, sempre per 14
mensilità, circa mille euro netti più di un collega italiano. Ma anche
francese o tedesco, considerando che i macchinisti tedeschi hanno appena
indetto una dura vertenza contro la Deutsche Bahn chiedendo di
aumentare lo stipendio medio attualmente di 2.200 euro; mentre un
conduttore di un Tgv francese arriva a 3 mila. Ovviamente non è tutto.
Nelle ferrovie greche il costo del lavoro è pari a quattro volte il
fatturato aziendale, il che ha prodotto fino al 2009 un debito
consolidato di circa 9 miliardi di euro ed un disavanzo di gestione
annuo di 800 milioni. Con gli interessi, si tratta di una perdita di
quasi 3 milioni di euro al giorno. E il famoso piano di austerity? Il
governo ha annunciato tagli sulla quattordicesima e sulle pensioni: già,
perché lì i dipendenti pubblici possono lasciare il lavoro a 53 anni.
Ma il tutto si scontra con le rivolte di piazza. Già nel 2009, alle
prime avvisaglie di crisi, il governo allora in carica manifestò un
timido interesse per una parziale privatizzazione del sistema
ferroviario. Si fece avanti, sempre molto timidamente, la Cncf, le
ferrovie francesi, cui era stata prospettata la vendita del 49 per
cento. Partì da New York una delegazione della Goldman Sachs e della
Morgan Stanley. La reazione fu la stessa, inorridita, di quella del
Tesoro italiano. Vennero suggeriti drastici piani di ristrutturazione
per ridurre i costi e adeguare gli standard alla imminente concorrenza
europea. I politici spiegarono però che era un anno di elezioni e
davvero non era il caso di mettersi contro quella potentissima
corporazione. Francesi e banchieri misero giù il coperchio e se ne
tornarono a casa. Nel luglio 2010 il New York Times dedicò alla faccenda
dei ferrovieri greci un'inchiesta, chiedendosi, con questi dati di
fatto, quali probabilità avesse Atene di sanare il proprio dissesto e
rimborsare i crediti appena ottenuti dall'Europa. La risposta è arrivata
in questi giorni: la Grecia ha bisogno (e li ottiene) di nuovi aiuti
dai paesi partner, tra i quali noi, mentre i tassi d'interesse sui
titoli pubblici sono più che raddoppiati, dall'otto per cento ad oltre
il 16. Ovviamente Papandreu e i suoi ministri si impegnano a «drastici
tagli» e ambiziose privatizzazioni: adesso per esempio si discute della
compagnia telefonica Ote, delle aziende dell'acqua di Atene e Salonicco,
del ramo bancario delle poste. Grava invece la nebbia più fitta su
quale sorte avranno i prestiti. Gli esperti di tutto il mondo,
soprattutto anglosassoni, si dicono convinti che la Grecia sia già
tecnicamente in default, e che le uniche soluzioni possibili restino o
il ritorno alla dracma o una sorta di commissariamento sul tipo di
quello imposto a suo tempo dal Fondo monetario all'Argentina. Eppure
queste proposte, come del resto la più indolore ristrutturazione del
debito, vengono bollate come pura eresia dai sommi euroburocrati di
Bruxelles e Francoforte. Che il motivo stia nel piccolo particolare che
le banche francesi risultano tuttora esposte in Grecia per 53 miliardi e
quelle tedesche per 34? Fatto sta che all'Italia questo nuovo aiuto
costerà 5,25 miliardi di euro, che si aggiungono ai 14,72 erogati un
anno fa. In totale, alla sola Grecia, noi prestiamo oltre 20 miliardi,
cioè 340 euro per ogni cittadino italiano dai neonati ai centenari. Ai
quali vanno sommati i 13 destinati a Portogallo e Irlanda. Mentre è
tuttora oggetto di discussione in che misura queste somme vadano ad
aggravare in nostro debito pubblico, già in bilico e fonte di ogni
problema (a cominciare dalle tasse) per noi. Non per i ferrovieri greci.