ANDREA MALAGUTI
CORRISPONDENTE DA LONDRA
Rivoluzioni dal basso, bulli virtuali - trolls, li
chiamano qui - e battaglie di civiltà che mettono in discussione, se non
addirittura in pericolo, la rete e le sue (non)regole. A cominciare da
Facebook. Che ora inizia ad avere una problema di relazione con i propri
utenti e con i tribunali.
La storia. Nicola Brookes è una quarantacinquenne di
Brighton che una mattina trova sua figlia in lacrime. «Che c’è?», le
domanda. La ragazza spiega che il suo idolo di X Factor, Frankie
Cocozza, è vittima di una serie di insulti su faccialibro. Nicola, che
non ha mai visto X Factor, si commuove, apre il suo computer, e posta
questo messaggio: «Vai a testa alta Frankie, presto prenderanno di mira
qualcun altro». Quel «qualcun altro» è lei.
In ventiquattro ore la sua pagina Facebook viene
riempita da centinaia di insulti. Il più cortese è: «spacciatrice di
droga». Gli altri vanno da «pedofila assatanata» a «prosituta con una
passione per i minori». Una valanga di fango anonima che monta di ora in
ora. Dopo una settimana di veleno in rete appare anche una pagina finta
a suo nome. Ci sono foto di minorenni e commenti da manicomio
criminale. Trolls. Che hanno deciso di seppellirla. E che pubblicano
anche l’indirizzo di casa sua: «ecco dove potete andare a trovare questa
ignobile puttana».
Nicola si ribellla e si rivolge alla polizia.
L’ufficiale che ascolta la sua storia la liquida gelido: «Se non mi sa
dire chi la perseguita noi non possiamo fare nulla». Piena di rabbia la
donna torna a casa chiama l’avvocato e decide di portare Facebook in
tribunale. «Pretendo che mi dicano i nomi e i cognomi di chi mi sta
rovinando la vita». Non c’è mai riuscito nessuno.
Il problema dei trolls nel Regno Unito è dilagante. Un
utente di Facebook su quattro dice di esserne stato vittima. Il livello
delle molestie è vomitevole. Le testimonianze tremende. «Mio figlio di
14 anni è morto investito da un’auto. La sua pagina Facebook l’ha ucciso
una seconda volta: te lo meritavi, carogna». Si può fare qualcosa
contro questo genere d’orrore? Si può.
Nicola Brookes ha la sua battaglia in tribunale. Prima.
Di certo non ultima. L’Alta Corte di Giustizia ingiunge a Facebook di
rivelare i nomi dei molestatori. L’azienda si adegua senza battere
ciglio, mentre il governo inglese annuncia una legge che costringa i
gestori dei siti a comportarsi allo stesso modo. Un trionfo? Un
problema.
L’associazione Privacy International sostiene che la
sentenza è pericolosa. La sua presidente, Emma Draper, domanda: «Come ci
si difende dalle denunce nei confronti di falsi trolls che hanno come
unico obiettivo quello di far rimuovere messaggi sgraditi?». La
riflessione è semplice. Di fronte all’ipotesi di una causa i siti più
piccoli sacrificheranno l’identità dei propri utenti a prescindere. «E’
un rischio che possiamo correre?». Il ministro della giustizia, Ken
Clarcke, giura che la normativa inglese terrà presente le esigenze di
chi viene aggredito e i diritti chi esprime liberamente il proprio
pensiero. Che cosa vale di più? La dignità delle persone o il flusso
senza confini delle informazioni? Perché è evidente che arriva un
momento in cui è necessario fare una scelta di civiltà, trovare il
complicato punto di equilibrio senza lasciarsi condizionare da visioni
talebane. E quel momento è esattamente ora.
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