Galassiamente
13/07/2012 -
In cerca della gioia
tra quotidianità e spiritualità
La copertina del libro di Amedeo Cencini
rosalba miceli
La gioia, valore evangelico, e profondamente umano,
fa parte dell’alfabeto delle emozioni. Ma essa stessa ha un proprio
alfabeto, un proprio codice. Già dal 1995, con la pubblicazione del suo
bestseller Intelligenza emotiva, lo psicologo americano Daniel
Goleman introdusse il concetto - allora rivoluzionario - di
«alfabetizzazione emotiva» in senso ampio, riguardo all’apprendimento
delle competenze di base relative alla gestione delle emozioni (e
viceversa, di analfabetismo emozionale). Con il progredire degli studi
tale concetto è stato successivamente esteso anche alla gioia come
«alfabetizzazione alla gioia», e viceversa, analfabetismo della gioia.
Tuttavia,
nessuno ci può insegnare cos’è la gioia. Di certo sappiamo che non si
può cercarla direttamente (come un obiettivo da centrare in qualche
modo, magari anche parzialmente) perché nasce e si manifesta come
«effetto emergente» e dunque non prevedibile. Qualcuno, laico o anche
consacrato, a sentir parlare di gioia nei discorsi clericali, può forse
provare talvolta un inspiegabile senso di sottile irritazione, o di
smarrimento, come se nella definizione della gioia mancasse qualcosa di
essenziale, di immediatamente comprensibile e percepibile a tutti.
Una
interessante sintesi tra spiritualità cristiana e analisi psicologica è
proposta da Amedeo Cencini, sacerdote canossiano, esperto di
problematiche psicologiche della vita sacerdotale e religiosa, nel
volumetto “La gioia” (Edizioni buc, San Paolo, 2012). «Funzione della
gioia - scrive - è svelare ove si trova il cuore della persona, cosa per
lei è più importante nella vita (il tesoro: “Il regno dei cieli è
simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va,
pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo”, Mt
13,44). La gioia non va cercata per se stessa, ma è la conseguenza della
ricerca di questa realtà che dà senso a tutto». Quasi un effetto della
scoperta del «tesoro» o conseguenza della stessa tensione di ricerca.
Nel
dialogo terapeutico (tra terapeuta e paziente) ma anche nel dialogo
profondo che può instaurarsi tra due persone, parlare della gioia vuol
dire capire cosa dà senso alla propria vita e a quella dell’altro, può
essere un metodo di conoscenza più utile e diretto rispetto al parlare
di quello che provoca disagio (che talvolta degenera in una serie
interminabile di lamentazioni). è molto importante anche «sentire» la
gioia, sentirla fisicamente, saperla riconoscere.
Se è vero che
la gioia, il nucleo emotivo della felicità stessa, risiede nel cuore
delle relazioni affettive, nel mistero dell’amore - quando ci
affezioniamo a qualcuno e la sua sola esistenza ci regala questo
sentimento di gioia - è anche vero che esiste una gioia che “si riceve”
all’interno della relazione e rappresenta “il bene” della relazione. è
qui che Cencini sofferma la sua analisi: «La gioia è relazionale, è
essere guardati da un occhio amoroso, qualcosa che si riceve, dunque».
Qualcosa che si sperimenta come un calore profondo che deriva dal
riconoscimento di essere degni di rispetto, di fiducia, di amore
incondizionato.
Uno sguardo amoroso: per alcuni è lo sguardo di
Dio, per altri è lo sguardo della persona amata che risponde all’amore, o
il proprio sguardo colmo di benevolenza che si rivolge alle
imperfezioni, alle inadeguatezze, alle ferite che segnano la propria
vita. Riuscire a guardare e a essere guardati in tal modo, fare
esperienza della gioia, richiede lo sviluppo di una particolare
sensibilità, una «formazione» alla gioia.
«Ogni individuo
apprende a desiderare certi beni e dunque a essere felice per il fatto
di raggiungerli, per cui diventa sensibile a un certo tipo di doni della
vita o di situazioni e gratificazioni (e non altre), o trova da godere
laddove un altro non troverebbe nulla di così gaudioso - spiega Cencini
-. è dunque un principio chiaro a livello psicologico: la stessa
sensibilità che ci consente di sentirci contenti può e dev’essere
formata nei due sensi. Primo, dal punto di vista del contenuto o del
motivo che ci fa godere; secondo, dal punto di vista della cosiddetta
“soglia percettiva”, ovvero della vigilanza e attenzione interiore che
ci consente di rilevare attorno a noi i motivi stessi della gioia per
goderne».
Se, ad esempio, per me è centrale sentirmi amato da
Dio, sarò molto attento a tutto quanto mi rimanda a tale amore, avrò una
soglia percettiva bassa, sentirò come Elia, la presenza di Dio come una
brezza leggera ed impercettibile che mi avvolge e mi dà gioia; se
attribuisco maggior valore ai beni relazionali rispetto a quelli
materiali, sarò molto sensibile a tutti quei piccoli segnali di amore,
di rispetto, di benevolenza che riesco a cogliere nelle relazioni
quotidiane, e riuscirò a provarne gioia, sarà come sentirmi dentro a una
corrente…
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