Ci passiamo sopra come fili d’erba. Le pieghiamo. Come fosse niente. Ma ci sono parole che non si possono calpestare. Quando lo si fa, se pure con buone intenzioni, si sta calpestando l’aiuola del vivente. È un paradosso: siamo ligi con le aiuole nelle nostre piazze, ma calpestiamo parole-aiuole senza pensare alle conseguenze. Ci stiamo calpestando il corpo e l’anima. Ci tocca vivere un’epoca in cui parole elementari (padre, figlio, vita…) sono sottoposte al diverbio, allo scontro. Epoca dura ben più di altre. Occorre avere un cuore grande verso tutti – anche chi si pone distante su questioni così radicali – un cuore pieno di pazienza verso se stessi e verso tutti. E però essere guerrieri contro gli errori sulle parole-aiuola, contro i calpestamenti, i lievi feroci fraintendimenti.
Si accampa come scusa che tale "confusione" nasca dai progressi della scienza, dalle possibilità della tecnica. Ma sono scuse. La scienza autentica non confonde le parole, il loro senso. Semmai ci invita a inventarne di nuove. Ma embrione e figlio sono le parole valide per quel che è in gioco. Le confusioni nascono prima o dopo, nella cultura, ovvero nel senso critico che le persone maturano circa la vita e il suo significato.
Una ragazza che decide di abortire non lo fa perché convinta dalla scienza, ma dalla solitudine, dalla disperazione con cui ha imparato a guardare la vita. E chi non sente un brivido nel pensare che per assecondare un pur legittimo desiderio di avere figli (e possibilmente sani) si passa sopra al diritto di nascere di creature infinitamente piccole e perciò indifese come siamo stati noi e i nostri figli, non ne è immune a causa della scienza e della tecnica, ma perché ha smesso di tremare per gli esordi, per le cose fragili della vita. E ragiona ormai in termini di difesa dei diritti più facili ed evidenti, che sono sempre i diritti del più forte.
È alla ribalta la parola embrione. E allora ci tocca riguardarla, questa parola un po’ fredda che si usa per indicare qualcosa da "buttare" se occorre. Come una materia, entro cui scartare la difettosa e tenere la migliore. Come si fa con la stoffa, le zucchine, o le foglie di tabacco. E sì: con la parola embrione facciamo i furbi. La usiamo perché sembra fredda, scientifica, distante. Ma essa indica quella stessa realtà che nella pancia della nostra donna lei e noi chiamiamo "figlio". La medesima. Identica. Nessuno ha mai detto: sai, aspetto un embrione. Ma un figlio. Perché la realtà è la medesima. Però se non parliamo della nostra pancia, usiamo (usano) la parola "embrione". La stessa cosa, ma così la distanziamo. E può esser congelata, buttata, scartata.
In questo cambio di parola ci sta un precipizio di pensiero, una astuzia, a volte un egoismo. Proviamo a pronunciare: si congelino pure migliaia di "figli". O: "scartate tre figli e tenetene uno". La parola "embrione" che da radice greca indica una cosa che "nasce" dentro un’altra cosa è una parola dolcissima, tenuissima. Indica il primario muoversi e germinare di un essere. È già l’uomo che sarà, dice solo che nasce dentro un altro. Che sia un essere in sviluppo e non già pienamente attuato non significa una differenza di qualità. Non sarà mai nient’altro che un uomo. Non gatto, né delfino, né airone. È un nascente uomo da dentro sua madre – o forse il fatto che sia in un "bidone" lo rende eliminabile?
La legge in discussione, la legge 40, è utile e per tanti aspetti saggia, ma come tutte si può perfezionare. Ora la discussione riavvampa. Se servirà a far aumentare il tremore in tutti dinanzi a certe parole, allora lo scontro culturale, il diverbio, la fatica del ragionamento saranno serviti a qualcosa. Un particolare contributo diano le donne, che sanno cosa è avere un embrione, un figlio dentro il proprio corpo. E sanno cosa è tremare infinitamente.