جواب |
رسائل 1 من 2 في الفقرة |
|
من: enricorns (الرسالة الأصلية) |
مبعوث: 16/09/2012 18:51 |
«La grande aspettazione del Concilio ecumenico, ad un mese di distanza dal suo inizio ufficiale, splende negli occhi e nei cuori di tutti i figli della Chiesa cattolica, santa e benedetta. Nella successione di tre anni di preparazione, una schiera di spiriti eletti raccolti da ogni regione e di ogni lingua, in unità di sentimento e di proposito, ha radunato una ricchezza così sovrabbondante di elementi di ordine dottrinale e pastorale, da offrire all’episcopato del mondo intero, convenuto sotto le volte della Basilica vaticana, motivi di sapientissima applicazione dell’evangelico magistero di Cristo [...] Siamo dunque, con la grazia di Dio, al punto giusto». Così – cinquant’anni fa – Giovanni XXIII nel suo radiomessaggio dell’11 settembre 1962, una vera e propria esortazione alla Chiesa, ai fedeli di tutto il mondo a riflettere su se stessa e sulla sua responsabilità verso gli uomini. Letto alla radio, Ecclesia Christi Lumen Gentium, questo testo da non dimenticare, presenta le attese dell’anziano Pontefice a un mese dall’apertura solenne del Vaticano II, lasciandovi rispecchiare la fede, la speranza e la carità di papa Roncalli.
Particolarmente significativo il passaggio in cui Giovanni XXII facendo una sua distinzione circa piani suggeritigli da alcuni cardinali – come il belga Leo Joseph Suenens – ricordava l’impegno del Vaticano II nel privilegiare il tema della Chiesa «Lumen Gentium», considerata nella sua dimensione interna ed esterna. Nella prima il Concilio doveva mostrare che «la Chiesa vuol essere ricercata quale essa è così nella sua struttura interiore [...] in atto di ripresentare, anzitutto ai suoi figli, i tesori di fede illuminatrice e di grazia santificatrice, che prendono ispirazione da quelle parole estreme. Le quali esprimono il compito preminente della Chiesa, i suoi titoli di servizio e di onore, cioè: vivificare, insegnare, pregare».
Nella seconda dimensione, si legge invece nel testo del radiomessaggio, la Chiesa «nei rapporti della sua vitalità ad extra, cioè di fronte alle esigenze e ai bisogni dei popoli – quali le vicende umane li vengono volgendo piuttosto verso l’apprezzamento e il godimento dei beni della terra –, sente di dover far onore con il suo insegnamento alle sue responsabilità». Seguiva l’indicazione dei «problemi di acutissima gravità» da sempre sul cuore della Chiesa. Ai quali il Vaticano II era chiamato a rispondere con «chiaro linguaggio», e «soluzioni postulate dalla dignità dell’uomo e della sua vocazione cristiana». Dall’«eguaglianza fondamentale di tutti i popoli nell’esercizio di diritti e doveri al cospetto della intera famiglia delle genti» alla «strenua difesa del carattere sacro del matrimonio». Sino a quello delle «dottrine fautrici di indifferentismo religioso o negatrici di Dio e dell’ordine soprannaturale», delle «dottrine che ignorano la Provvidenza nella storia ed esaltano sconsideratamente la persona del singolo uomo, con pericolo di sottrarlo alle responsabilità sociali». E poi quel punto alto che segnava un’opzione: «In faccia ai Paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Espressione quest’ultima mutuata dal progetto conciliare sottopostogli dal cardinale Suenens nel luglio ’62.
«Dovere di ogni uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui, e di ben vigilare perché l’amministrazione e la distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti. Questa si chiama diffusione del senso sociale e comunitario che è immanente nel cristianesimo autentico; e tutto va affermato vigorosamente», continua il testo. Che passa poi ai rapporti tra Chiesa e società civile: «Viviamo in faccia ad un mondo politico nuovo. Uno dei diritti fondamentali cui la Chiesa non può rinunciare è quello della libertà religiosa, che non è soltanto libertà di culto. Questa libertà la Chiesa rivendica ed insegna, e per essa continua a soffrire in molti Paesi pene angosciose. La Chiesa non può rinunciare a questa libertà, perché è connaturata con il servizio che essa è tenuta a compiere. Questo servizio non si pone come correttivo e complemento di ciò che altre istituzioni debbono fare, o si sono appropriate, ma è elemento essenziale ed insurrogabile del disegno di Provvidenza, per avviare l’uomo sul cammino della verità. Verità e libertà sono le pietre dell’edificio su cui si estolle la civiltà umana». E poi un riferimento alla guerra, alla volontà di sanare le cicatrici dei due conflitti, del XX secolo, nella certezza che «il Concilio nella sua struttura dottrinale e nell’azione pastorale», avrebbe espresso «l’anelito dei popoli a percorrere il cammino della Provvidenza segnato a ciascuno, per cooperare nel trionfo della pace». Insomma: «Il Concilio vorrà esaltare, in forme anche più sacre e solenni, le applicazioni più profonde della fraternità e dell’amore, che sono esigenze naturali dell’uomo, imposte al cristiano come regola di rapporto tra uomo e uomo, tra popolo e popolo». È quanto preme sottolineare anche all’ex segretario di Giovanni XXIII; l’arcivescovo Loris Francesco Capovilla che fu testimone e protagonista di quell’evento e al radiomessaggio dedica un piccolo saggio inviato agli amici.
da avvenire |
|
|
أول
سابق
2 إلى 2 من 2
لاحق
آخر
|
جواب |
رسائل 2 من 2 في الفقرة |
|
Capovilla: «In quel discorso c'era tutto»
Contenuto Articolo
Nel radiomessaggio di Giovanni XXIII trasmesso l’11 settembre 1962, un mese prima dell’apertura del Vaticano II, «c’è tutto, proprio tutto: Dio, divina rivelazione, obbedienza al Decalogo. Studio, lavoro, comunione di intenti. Unità e carità». Lo sottolinea in una lettera l’arcivescovo Loris Capovilla, che 50 anni fa era segretario di papa Roncalli.
Un testo scritto proprio per ricordare il 50° di quel messaggio e per riflettere sull’eredità lasciata da Giovanni XXIII. «L’anno scorso – racconta il presule nella lettera firmata l’11 settembre 2012 – Gesù mi ha fatto incontrare un fratello nato trent’anni dopo di me: teologo, arcivescovo, cardinale. Abbiamo parlato cor ad cor, entrambi prodigiosamente giovani, sereni e fiduciosi, in comunione col Papa, desiderosi di esserlo con tutti i cattolici, con le Chiese ortodosse, con le Comunità cristiane variamente denominate, con gli ebrei, con i musulmani, con i credenti di tutte le religioni, dacché "ciascuna conserva indubbi segni della primitiva rivelazione" (Giovanni XXIII, 2. II. 1963), ed anche con chi non crede o dubita o è distratto. Per noi – prosegue Capovilla – niente è più doveroso del testimoniare integra fede e proporne la conoscenza con umiltà, mitezza e bontà. Quale gioia mi ha procurato il commento del dotto prelato: "Io mi considero membro del popolo messianico in cammino, come recita il capitolo due della costituzione conciliare Lumen gentium, chiamato a servire l’umanità, mettendo a disposizione tutto ciò che mi è stato dato: fede, cultura, teologia, sacerdozio, cardinalato». La conversazione, riferisce l’arcivescovo, ha toccato anche altri argomenti: «Abbiamo parlato anche di fedeltà e rinnovamento, di povertà, di sacrificio, di attesa di nuovi cieli e una nuova terra nei quali abita la giustizia». Si tratta di «stati d’animo» per i quali Capovilla si dichiara debitore nei confronti di quella «Chiesa che ha generato ed educato uomini e donne come Angelo Giuseppe Roncalli, e i molti che l’hanno preceduto e gli altri venuti dopo di lui, a iniziare dal venerato Paolo VI».
«Papa Giovanni – ricorda il suo segretario – amava ripetere: "Tutto io ho ricevuto dalla Chiesa". Ora che le spoglie mortali del figlio della campagna bergamasca riposano accanto alla tomba del Pescatore di Galilea; ora che i luoghi legati al suo nome sono mèta di pellegrinaggio, tutto appare più chiaro». Capovilla ripercorre poi le tappe della vita di Roncalli; in esse, nota, «comprendiamo come, a poco a poco, egli si fosse liberato da ogni residua scoria di umane imperfezioni, di nulla preoccupato, se non di imitare Gesù Cristo, mite e umile di cuore».
Il nome di Giovanni XXIII, sottolinea il presule, oggi «è pronunciato con riverenza in tutte le lingue; ed è caro a uomini di ogni paese, di ogni religione, persino e a volte ancor più a quelli che non credono in Dio Padre e nel Figlio suo, e forse ne soffrono». Una vera «benedizione» che «rende attenti agli insegnamenti di Pacem in terris e del Concilio. Il documento magisteriale (l’enciclica) e il momento di grazia (il Concilio) scoprono carenze, denunciano ritardi, soprattutto spronano ad assumerne consapevolmente e pienamente le responsabilità individuali». Un vero invito a «farci esecutori del magnifico programma che questo Pontefice ha annunciato con tono profetico per convincere gli uomini ad amarsi come fratelli; a sentirsi, nella comunità dei popoli, membri di una stessa famiglia, che ha origine da Dio e a Dio tende; a costruire la casa di tutti su autentici valori umani e sul Vangelo».
Ultima lezione lasciata da Roncalli, aggiunge l’arcivescovo – con l’auspicio che l’Anno della fede venga vissuto nello spirito indicato dall’eredità di Giovanni XXIII –, è il testamento spirituale che Giovanni Paolo II «esortava a rimeditare». Leggendolo, conclude Capovilla, si comprende che «il Vangelo non inganna e non delude chi osa prendere alla lettera – così fece il santo Pontefice – il discorso della montagna, dalla pratica delle beatitudini alla preghiera che strappa miracoli, dalla carità ardimentosa, che non si arresta dinanzi ad alcun ostacolo, sino alla prudenza più avveduta che costruisce sulla roccia non tanto e non solo per se stessi e per oggi, ma per i figli: cosicché il mondo di domani, lievitato dalla grazia e fecondato dalla sofferenza, sia più giusto, più libero, più umano
|
|
|
|
|