Vito Mancuso ritiene "pericolosa" la distinzione che, nel mio ultimo editoriale apparso su "Avvenire", ho fatto tra una «bioetica pastorale» e una bioetica «dottrinale». Lo dichiara e lo scrive (sulla "Repubblica" del 9 settembre). «Una bioetica pastorale – avevo scritto io – non può mai essere fredda, dura, severa, tagliente, come a volte (ma fortunatamente non sempre) deve pur essere il pensiero teorico-dottrinale». Mancuso non ci sta. Di fatto arriva ad accusarmi di non aver capito che «se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la propria vita è proprio l’aver lottato contro una legge fredda, dura, severa, tagliente».
Mi sembra che Mancuso sia davvero caduto in un equivoco, sia nei miei confronti (ben poco male), sia (e questo sarebbe molto più grave, se davvero stessero così le cose) nei confronti degli insegnamenti di Gesù. Gesù non è venuto per lottare contro la legge o addirittura per abolirla (anzi, ribadisce che nemmeno uno iota della legge merita di essere cancellato), ma per insegnarci che la legge è per l’uomo e non l’uomo per la legge e per rivelarci che il Signore della legge è non solo un pastore, ma un buon pastore per tutte le pecore del suo gregge. Questa verità evangelica non conferisce però alla pastorale un primato sulla dottrina.
I princìpi della nostra fede possono, se paragonati al calore della prassi pastorale, apparire davvero «freddi, duri, severi, taglienti» (per ripetere le parole che hanno irritato Mancuso); ricordiamoci, però, che la stessa parola di Dio è tagliente «più di ogni spada a doppio taglio», come dice l’autore della Lettera agli Ebrei (4.12). E ben tagliente è stata anche la parola di Gesù, che quando ha predicato la sua legge ai discepoli non ha fatto mai "sconti" ed è arrivato ad usare espressioni severe e durissime. Conosciamo tutti le più famose: per chi scandalizzi anche uno solo dei piccoli sarebbe meglio che gli fosse appesa al collo una macina e gettato negli abissi del mare; se la nostra mano o il nostro piede sono per noi occasione di scandalo, meglio tagliarli via... Ci troviamo naturalmente di fronte a usi linguistici semitici, coloratissimi, esagerati, paradossali, che veicolano però precetti inderogabili; non siamo legittimati ad addolcirne o a smussarne il significato ultimo, dato che la nostra parola deve essere sempre: sì, sì, no, no, se vogliamo evitare che il Signore «ci vomiti dalla sua bocca» (Apocalisse, 3.16: un’altra espressione che dire "tagliente" è poco).
Quando predica l’indissolubilità del matrimonio, Gesù non può non prevedere la reazione: «Allora è meglio non sposarsi!» (Matteo, 19.10), ma di certo questo non lo induce a proporre a chi lo ascolta mediazioni casistiche. La fermezza dei suoi insegnamenti è tale che a un certo punto sembra portare i discepoli allo scoramento: «Chi si potrà dunque salvare?». La risposta di Gesù è impressionante, anche perché egli la proferisce, dice l’evangelista, dopo aver fissato su di loro il suo sguardo: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Matteo, 19.25-26).
Non si tratta, ovviamente, di contrapporre il Gesù che si presenta come «buon pastore» al Gesù che elogia coloro che lo riconoscono «Maestro» (Giovanni, 13.13): pastorale e dottrina sono due dimensioni che solo in lui si fondono, in modo irripetibile, e che noi dobbiamo custodire e promuovere come due parallele, ciascuna delle quali autentica l’altra. Se depotenziamo la dimensione pastorale, del messaggio cristiano resta solo la dimensione filosofica ed è blasfemo pensare a Cristo come a un Socrate ebreo. Se però depotenziamo nella predicazione di Gesù la ferma dimensione dottrinale e precettistica, rendiamo il suo insegnamento dolciastro e, cosa ben più grave, incriniamo la stessa identità di Cristo come Parola, come Verbo di Dio.
Ecco perché non stanno in piedi i riferimenti al "caso Welby", che Mancuso utilizza come esempio per avvalorare la sua critica a una Chiesa che in nome della legge e della ortodossia dimenticherebbe la carità. Si riferiva davvero a Welby il cardinal Martini (ma la cosa non mi risulta), quando ha scritto (come riferisce Mancuso) che solo al malato spetta valutare se le cure che gli sono proposte sono effettivamente proporzionate? O ribadiva un principio pastorale generalissimo e ben condivisibile, indirizzato probabilmente ai medici più che ai malati, e bisognoso poi di numerose, ulteriori e complesse mediazioni? Preferisco continuare a pensare che il cardinal Martini parlasse da pastore, come era suo dovere episcopale fare, e non da bioeticista, qualifica che egli non ha mai posseduto né rivendicato.
Così come mi auguro che la si smetta una volta per sempre di pensare che a Welby sono stati rifiutati i funerali religiosi a causa della durezza della legge canonica: mi risulta (e se sbaglio ammetterò di buon grado il mio errore) che Piergiorgio Welby, personalmente, non li ha mai richiesti, che al suo capezzale di morte non ha voluto né chiamato, accanto alla moglie, ai medici o agli amici, un sacerdote e soprattutto che egli, senza essere un malato terminale, non ha chiesto in prima battuta la sospensione di un accanimento terapeutico, ma ha chiesto (e ottenuto) una sedazione terminale, prima del distacco del respiratore meccanico: ha cioè chiesto in buona sostanza una "dolce morte", l’eutanasia.
Non è qui in discussione il rispetto per la figura di Welby e di sua moglie Mina, ma un’elementare esigenza di chiarezza: Welby ha consapevolmente preteso per se stesso una "laica" morte procurata, a seguito della quale la celebrazione dei funerali religiosi sarebbe stata una vera e propria contraddizione.