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Religione: IV domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno B)
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Respuesta  Mensaje 1 de 1 en el tema 
De: enricorns  (Mensaje original) Enviado: 22/09/2012 11:28
Commento su Primo Re. 19, 4-8; Prima Corinzi. 11, 23-26; Giovanni. 6, 41-51
don Raffaello Ciccone
IV domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno B) (23/09/2012)
Vangelo: 1 Re. 19, 4-8; 1Cor 11, 23-26; Gv 6, 41-51 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: Gv 6,41-51)

Lettura del primo libro dei Re. 19, 4-8

Elia si è opposto alla idolatria ed ha affrontato anche il "giudizio di Dio" con una sfida ai 450 sacerdoti di Baal, il Dio fenicio. Aveva vinto con il fuoco dal cielo che il Signore ha inviato ed ha incenerito con l'offerta anche tutto l'altare di pietra (1 Re. 18, 16b-40a). Ma la successiva vendetta di Elia, che riteneva di vendicare l'onore di Dio uccidendo i sacerdoti di Baal, e insieme la sofferenza e la sottomissione dei suoi gli allontanò ancora il popolo che, dopo un momento di esultanza e di alleanza con Elia, era ritornato ad essere soggetto al re e alla moglie Gezabel, figlia del re di Tiro (pagana) e ardente missionaria della sua religione pagana. Così Elia fuggì intraprendendo un pellegrinaggio al monte Sinai, alla ricerca del volto di Dio, come per Mosè, poiché non capiva più il comportamento di Dio verso di lui e il suo popolo. Egli voleva scoprire le strategie di Dio, ma ricevette una esperienza, assolutamente diversa da come se la sarebbe immaginata.

Il primo significato di questo brano è la ricerca di Dio e delle sue scelte. Elia era fedele e non comprendeva.

Ma non voleva scoraggiarsi perché lo alimentavano una fede profonda ed una fiducia che gli faceva superare la fatica del disorientamento.

Dio non è facile da accostare. Egli si nasconde e questo provoca scoraggiamento (v. 3), la tentazione classica del profeta (Gen 21,14-21; Giona 4,3-8; Num 11,15; Ger 15,10-11; Mt 26,36-46). Eppure Elia ha riportato una grande vittoria al Carmelo ( 1 Re 18). Ma la solitudine del dover reggere la fatica di un popolo infedele lo ridusse alla prospettiva di abbandonare, di fermarsi e di dormire, stremato dal buio che aveva davanti a sé. La regina Gezabel aveva ancora vinto, Elia si ritrovòa quindi solo, come più tardi Cristo; non gli rimase che rimettersi a Dio.

Ma Dio gli offrì una segno per trarlo dalla disperazione;. Non abbandonò il suo eletto, così come non abbandonerà il suo Cristo (Le 22,43). Un pane e un'acqua miracolosi (v. 6 ) ricordavano ad Elia la manna del deserto e l'acqua della roccia ( E s 16,1-35; 17,1-7). Così, il memoriale della Pasqua del popolo fu il mezzo più sicuro per curare lo scoraggiamento.

Il Signore suggerì di misurarsi a Mosé, il mediatore che spesso si sentiva solo. Ma nutriva un profondo amore al suo popolo, pur infedele, e una profonda fiducia in Dio con cui discuteva e si confrontava. Ma il cammino lo doveva fare tutto. Elia non venne sollevato su ali di aquila, né dispensato dalla fatica del camminare su un terreno inospitale. Ma scoperse che il Signore si fidava di lui e lo attendeva. Infatti camminerà quaranta giorni (v. 8): il tempo della prova, della conversione, della vita.

L'accostamento fra Elia e Mosé ci viene ricordato anche nel Vangelo nel momento in cui Gesù si: svela nella Trasfigurazione per incoraggiare i discepoli a non disorientarsi di fronte alla morte di croce di Gesù stesso. Essi indicano la gratuità nei confronti di Dio e del suo popolo. Così essi furono chiamati e tutto quello che facevano era a servizio di un popolo perché potesse crescere. Essi aiutavano il Signore a realizzare il sogno di un popolo santo. ( M t 17,3; Apoc 11,1-13).

Finché il cristiano ha la certezza di possedere la «virtù» ed è sicuro della sua «verità» in tasca, finché il sacerdote è sicuro di sé, del suo ruolo e della sua influenza, c'è ancora posto per Dio? Queste sicurezze e queste certezze sono troppo umane per essere segno di Dio. Quando invece tutto ciò crolla improvvisamente - e ogni vita conosce questo smarrimento -, quando le virtù che si credeva di possedere diventano, ad un tratto, peccati e viltà, quando le verità tranquillanti e i luoghi comuni e le regole di società e i diritti di casta sono ad un tratto messe in discussione, Dio può finalmente agire

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi. 11, 23-26

Siamo attorno all'anno 56 d.C. e Paolo vuole impegnare l'assemblea a consolidarsi, partecipando al pasto sacro comune, con la prospettiva, non tanto di catturare Gesù e tenerselo vicino, quanto per alimentare sé e gli altri fratelli e sorelle nelle loro vocazione e nelle sue scelte.

Di Corinto, una comunità che Paolo conosce bene perché vi ha abitato molti mesi, si ricordano le divisioni e gli scandali presenti nella comunità. L'apostolo vuole mettere ordine, soprattutto vuole intervenire nelle assemblee comunitarie quando ci si ritrova, in particolare, per l'Eucaristia.

Nei capitoli che vanno dall'11 al 14, per inquadrare il testo di oggi, Paolo prende in considerazione alcune deviazioni presenti nella Comunità (11,2-14,40): il comportamento delle donne in assemblea (11,2-16), il modo di celebrare la Cena del Signore (11,17-34), il retto uso dei doni dello Spirito (carismi) nella Comunità (cc.12-14). Qui, dove si parla della "Cena del Signore", ci sono elementi importanti che hanno trasformato la cena Pasquale di condivisione in cena dove si celebrano la croce e il sacrificio di Gesù.

Si parla, in particolare, del fare memoria.. Fare memoria non è tanto un ricordare ma è rendere presente la realtà, l'evento che si vuole ricordare. Gesù stesso, celebrando la Pasqua ebraica, ha fatto memoria del dono della liberazione ed ha anticipato nel gesto, che compie nella cena, il dono di amore al Padre, mediante la croce.

La Comunità di Corinto è composta, nella quasi totalità, da gente povera, braccianti, scaricatori del porto, schiavi. I ricchi sono pochi, ma si fanno notare per la loro supponenza. Quando si trovano per lo spezzare del pane, già nel primo pomeriggio si abbandonano a gozzoviglie mentre i fratelli sono al lavoro. Quando, sfiniti dal lavoro, questi ultimi si presentano per la celebrazione, sono accolti con disprezzo. Paolo, allora, è preoccupato di chiarire il significato dello spezzare il pane. "Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere?" (che significa: "Se avete voglia di mangiare e bere, state a casa vostra" (11,22).

Il trovarsi allo spezzare il pane ci offre la possibilità di rendere presente e di celebrare il dono di Gesù al Padre che si esprime pienamente nella morte sul Calvario per una profonda comunione con i fratelli. Ma il celebrare ci invita non solo al gesto liturgico ma, attraverso quello, a ripetere ciò che il gesto significa e di cui Gesù è il modello. Proprio per questa comunione S. Paolo si preoccupa: i credenti di Corinto hanno trasformato la cena del Signore in un segno menzognero che non può essere accettato. Non sono sinceri perché prendono parte ad un corpo che viene donato e al sangue che viene sparso per gli altri senza donarsi, a loro volta, per i fratelli. Paolo vuol far capire che l'Eucaristia, mentre offre la presenza unificante di Gesù che ama e muore per amore, simboleggia e realizza l'unione di tutti i membri nell'unico corpo di Cristo che è la Chiesa. Spezzare il pane è un gesto di comunione e di disponibilità a donare se stessi come ha fatto Gesù.

Se ci sono altri criteri, questa Comunità "mangia e beve la propria condanna" (11,28-29) perché la celebrazione diventa menzogna.

Il bere allo stesso calice, poi, nella cultura semitica, significa essere disponibili a condividere lo stesso destino fino alla morte.

Quello che è difficile capire è che la liturgia corre sempre il rischio di diventare solo rito, pratica a cui si partecipa per dovere senza rendersi conto che, se si è in comunione con Gesù, ovviamente, si imposta seriamente una comunione con i fratelli. Altrimenti, senza questa coscienza e questa fede, resta solo un gesto formale che non alimenta e non salva nessuno.

La cena del Signore è così messa al centro, fonte e culmine dell'esistere della Chiesa, dono grande per una comunità che resta nell'attesa, dono che significa impegno di responsabilità nella storia, dono per ricordare a vivere l'amore totale di Gesù.

Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 6, 41-51

Il brano che stiamo leggendo fa parte di un lungo discorso che Gesù sviluppa a Cafarnao e che Giovanni riprende, comunicandocelo con intelligenza e profondità. Ma è difficile capire quanto potessero accettare queste affermazioni di Gesù coloro che ascoltavano, poiché sono sconvolgenti. Probabilmente Giovanni ha elaborato nella sua fede, per la sua Comunità cristiana, un conflitto che è sorto tra coloro che lo avevano seguito: prima scettici, poi stupiti del pane spezzato per 5000 persone, poi deluse poiché all'esplosione di gioia e al tentativo di sequestrarlo perché finalmente diventasse re, Gesù se ne va e diventa irreperibile. (6,1- 15).

Il giorno dopo, coloro che lo avevano seguito, pedinato, cercato, si ritrovano Gesù dall'altra parte del lago e curiosi vogliono sapere come ci fosse arrivato, visto che alcuni avevano aspettato che dalla riva opposta si staccassero anche le ultime barche, compresa quella degli apostoli. Ma lì sopra Gesù non si era imbarcato.

Non sanno che Gesù, di notte, nella tempesta, aveva camminato sul mare. Così gli apostoli avevano visto e scoperto anche la sua potenza creatrice e ordinatrice di Dio (6,16-21),. Ma avevano capito anche che Egli rifiutava il potere sugli uomini come la folla pretendeva offrirgli.

Inizia così la ricerca del significato della sua persona (6, 22-51).

I Giudei erano coloro che si contrapponevano a Gesù, perciò Giovanni non li chiama così per un riferimento geografico:( abitanti della Giudea); questi sono di Cafarnao, del nord, Galilei. Per Giovanni i giudei sono tutti quelli che si oppongono a Gesù.

E' molto curiosa la polemica poiché iniziò con il riferimento al pane che avevano mangiato il giorno prima, ed avevano nella memoria il richiamo della manna, mandata da Dio attraverso Mosè, per vivere nel deserto.

Ma ora si parlava di un nuovo pane. Gesù lo identificò con la sua persona e affermò che discendeva dal cielo.

Gli abitanti di Cafarnao e di Nazareth si conoscevano tutti tra di loro e per ogni persona riconoscevano gli ascendenti, le origini ed il lavoro. Con facilità intravidero nel linguaggio di Gesù il pane come richiamo alla conoscenza, come comprensione di un mondo sconosciuto e benefico che alimenta intelligenza e cuore. Ma i Giudei avevano già un pane che sazia: la Torah (la Legge di Mosé) e il Siracide ricorda che Dio "nutrirà il giusto con il pane dell'intelligenza e lo disseterà con l'acqua della saggezza" (Sir 15,3). Dicendo di essere il pane, Gesù stava salendo nel mondo inimmaginabile di Dio. e della sua parola. Dichiarava, anzi, che Egli era il vero messaggero di Dio e credere in Lui era frutto di un regalo del Padre, non opera di buona volontà e di fiducia.

Si mescolavano, da parte di Gesù, comunicazioni impensabili che scandalizzavano sempre più. Egli diceva di conoscere il Padre, di aver imparato direttamente da Lui, ed era pronto, come hanno garantito i profeti che "Saranno ammaestrati da Dio". In questo ammaestramento viene donata la vita eterna e la vittoria sulla morte con la risurrezione Gesù si rendeva conto delle loro perplessità, ma continuava ad usare una immagine che per un ebreo era blasfema: Egli aveva una conoscenza intima con Dio, più grande di quella di Mosé e dei profeti. Gesù arrivava a garantire di aver veduto il Padre, di aver ascoltato la sua Parola. Così affermava di essere assolutamente unico, nonostante la sua fragilità, e si presentava, nella sua presenza tra loro, come il più grande dono che Dio offriva, come unica parola concreta e nuova, come vertice di tutta la rivelazione Chiaramente tutta questa discussione doveva aver fatto inorridire i suoi ascoltatori che avevano ormai dimenticato lo spezzare del pane del giorno prima. Ma Gesù riprese il filo della sua rivelazione. "Io sono il pane della vita" e quindi sono la conoscenza piena di Dio. Giovanni non era ancora nella parte più propriamente eucaristica. C'era il confronto con la manna, l'alimento della vita nel luogo della desolazione.

Perciò Gesù era il nuovo alimento che addirittura manteneva la vita e sconfiggeva la morte. Alla base di questa rivelazione resisteva l'affermazione iniziale di Giovanni che riassumeva tutto il mistero della creazione e della salvezza attraverso una presenza nuova, debole eppure eterna, discreta nella proposta, eppure indispensabile per una vita piena. "Il Verbo si fece carne ed abitò tra noi" ( Gv 1,14).

Questa rivelazione si propone alla nostra ricerca di senso, al significato dei valori che stentiamo a formulare.

La presenza di Gesù. tuttavia, ha bisogno di essere accolta, capita, maturata, interpretata. Noi credenti siamo
chiamati ad accettare che la nostra vita è nella fragilità di Gesù, non nella potenza e nella visibilità. E Gesù, nella contestazione che riceve fino alla morte di Croce, è il vero itinerario per la vita eterna, come il più grande segno dell'amore del Padre


da qumran2


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