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✿ GAIA ✿: Mastica lentamente e "pucia" bene nel sugo...
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Respuesta  Mensaje 1 de 1 en el tema 
De: primaveraestate  (Mensaje original) Enviado: 01/10/2012 12:17

MASTICA LENTAMENTE E PUCIA BENE NEL SUGO....

“Mastica lentamente e pucia bene nel sugo, che ‘sta grazia di Dio non la trovi mica dietro al cantone!”, salmodia la nonna, sporgendo di poco il naso fuori dal piatto. Ed è giusto che sia lei a rompere il silenzio, contornato soltanto da qualche risucchio. E’ giusto.

Piccola, magra, ma robusta, con i capelli bianchi raccolti a crocchia ed il vestito scolorito da tante stagioni, lei soltanto può rivendicare un’atavica eredità di sacerdozio, fin dal tempo delle ombre, dal tempo dei tempi, quando, anche allora, un “mastica lentamente” era il ringraziamento per il cibo, l’introibo al mistero di quel boccone di polenta che avrebbe saziato la fame, prolungato la vita.

Così tutti segnano di sì con la testa, ripiombano nell’ansa del buio, quasi uno scialle, immersi in un profondo senso di fatalismo. Il bambino percepisce che finché c’è polenta non ha da temere il buio, quel buio che farà di certo perdere la strada agli altri, agli indefiniti pericoli che s’aggrappano alla grondaia ed aspettano il momento di calare.

La lampadina ha un cappelletto di vetro azzurro. Illumina sé stessa e, nel mezzo della cucina, sta quasi per  miracolo, galleggiante nell’aria, butterata dalle mosche dell’estate, irradiante qualche raro raggio di luce, come il cuore del Cristo sofferente. Il nonno ne riceve, a volte, un bacio sulla nuca coperta di radi capelli bianchi sopra una cute rosea, da far tenerezza, quasi.

Ci deve essere uno spiffero. La finestra non tiene bene. La lampadina ondeggia.

Il nonno mangia coscienziosamente. Gira e rigira il pezzo di polenta in bocca, fissa ora il bicchiere, ora la nuora, ma più spesso il bicchiere. Il vino pare brillare. Tondini di luce galleggiano alla superficie ed un odore aspro sale dal bicchiere corroso. Il nonno non parla. A che pro? Lui fa come i frati. è di una razza che ha fatto in tempo a vedere le saracche pendere dal soffitto ed il marmocchiame a carpirne il profumo, mica di più, con una fetta sottile di polenta. Che fame, Dio mio! Come un tasso in letargo, il nonno pensa di aver fatto la sua parte. Ed ora che lo lascino in pace, che non lo tirino dentro. Con questo freddo! E con questa polenta!

Dalla parte opposta della stanza c’è il camino, una fascina di sterpi, che si sbriciola in scuri frammenti, il porta-catino con il catino, il secchio dell’acqua, una panchetta. Il calore che proviene dal camino accarezza appena la schiena, ma già le gambe sono fredde ed al bambino scappa la pipì. Però non si dice, e poi bisogna farla fuori, nel cortile, nel buio, e se c’è qualcuno? Stringe le gambe, il bambino, e si lascia ipnotizzare dalla polenta, per non pensare a quelli che stanno fuori, che grattano alla porta, che strisciano lungo i muri, che Santa Rita proteggici tu!

Il nonno rutta e con il dorso della mano si netta i baffi. La nuora, in fretta, sparecchia. La nonna prepara il ‘prete’ da infilare nel letto, di sopra, per scaldare le lenzuola. Il bambino si fa accompagnare dal nonno a far pipì nel cortile. Il cielo non ha occhi. Corrucciato ed opaco, pare il coperchio di una pentola. Ci stanno a cuocere, lentamente, nella pentola, assieme a chissà quali creature miniaturizzate, il vitello, la lucertola, l’upupa, i martlet, il figlio di Carlina che, rustico com’è, non sa dire neanche il suo nome… A cuocere nella pentola, con il diavolo che con il forcone vi rimesta dentro e le sue pupille sono nere, come il cielo, come il coperchio della pentola, come la notte d’inverno ed il freddo che ti morde i piedi.

Nessuno parla. Nessuno garantisce per nessuno. Se si sta zitti, immobili, oppure se non si deroga, se si ripetono gli stessi gesti, mica si da fastidio a qualcuno! Soprattutto stare quieti. Ringraziare nostro Signore per il cielo coperto perché questa notte non verranno gli aeroplani e non ci saranno bombe a Torino e qui, anche se qui è distante ed il bambino non sa che cosa sia Torino e dove stia, non si sentirà niente. Nonna dice che quando bombardano a Torino, anche qui si trema. Lo dice nonna. Il mondo è sempre più raggrinzito.

Dentro al camino bruciano i sarmenti di vite. Fischiano, si contorcono, lanciano in alto fiamme rosse e gialle e azzurre ed i sospiri dei sarmenti sono come i tormenti delle anime del Purgatorio, pace all’anima loro! Il bambino lo sa.

“Spegni la luce, Tedesca!”.

E’ il nonno, questo, che apostrofa la nuora,  che non è nata qui, viene da lontano, da una città del quindici-diciotto, e lui, Dio ci scampi!, è riuscito a farsi riformare, ma suo fratello no, poveretto, ed in guerra si è preso lo spavento ed il mal caduco. Adesso è balordo. Sempre in giro per le colline, a dormire nelle stalle, a bere più che mangiare, e la gente ne ha compassione. Meglio se l’è cavata il suo coscritto, il suocero del secondo figlio. Stasera, come sempre, dovrebbe arrivare, col suo pacchetto blu di orzo per fare il caffè e poi discutere, discutere, discutere, obbedendo al tempo, che non si ferma mai, che rifiuta i silenzi, che s’infila nei buchi, che ci porta la morte.

La nonna raccoglie veloce il mattone dal camino, lo sistema nel ‘prete’ e, senza dir nulla, scivola via nell’ombra più buia. Lei ha sonno adesso, e siccome non riesce più a dormire molto perché le fanno male le gambe, è bene che prenda il sonno quando viene. Si sente ciabattare un poco, i passi sulla testa, il rumore della rete che cigola, il ridacchiare delle foglie di mais che compongono il materasso. Poi la nonna chiuderà gli occhi, pregherà Santa Lucia che i mali li porti via, e a metà preghiera… La nonna russa. Non come il nonno, che ronfa di più, ma anche lei…

La nuora, l’ospite venuta da lontano, la vedova bianca, giacché il marito è in Albania, sfilaccia una vecchia maglia, raccoglie il filo in un gomitolo, ne annoda il capo ad un codino di nuova composizione, un calzetto, pare, a righe, come viene viene. Lavora, movendo gli aghi in modo automatico e veloce. Il gomitolo corre sul pavimento, gli aghi producono un piccolo suono gentile. Il bambino la osserva, che è sua madre, quella, e lo chiama Nani e conosce delle canzoni che nessuno canta qui. Nessuno canta qui.

Bussano alla porta.

Senz’altro è Lindo, il coscritto del nonno.

è lui.

Come Geppetto.

 

In inverno non ci sono notizie. Nemmeno suoni.

Persino i passi sull’acciottolato sono opachi, senza risonanza. Per questo motivo il secondo bussare alla porta lascia tutti interdetti.

 I due vecchi sollevano la testa. Se fossero cani drizzerebbero le orecchie. Si interrogano con gli occhi.

Bussano di nuovo.

La giovane donna si alza, posa il gomitolo sul tavolo, accende la luce e poi apre la porta, che è chiusa a chiave, a doppio giro. Si scosta un attimo e, ritagliato nel rettangolo nero e freddo dell’uscio, si staglia lo straniero, la Cosa, da cui si dipende, che se è buona va bene, ma, se le gira, non ci mette un fiato a sbatterti al muro.

Lo si aspettava il tipo, non si poteva mica dirgli di no! In fondo, sono loro i padroni. Loro, con quei maledetti stivali, e quella grinta da dar ordini, e dove arrivano sfasciano tutto, e le donne a cercare di riparare, ma i piatti cadono dalle credenze e le tazzine da caffè regalate per il matrimonio, e no, per favore no!, non portate via le lenzuola, che sono del corredo. E non capisci un’acca di quel che vogliono, solo che vogliono e basta. Anche in questo sperduto paese delle colline sono arrivati, sui camion, a cercare giovani maschi, che non ce n’era neanche uno ma solo vecchi, e donne, e bambini, e le suore, e il prete. In quattro e quattr’otto avevano occupato la piazza, il municipio. Erano entrati nelle case per requisire. Qui, questo; là, quello.

Dalla casa dei nonni avevano portato via gli unici materassi in lana che c’erano. Mica scemi! Anche se tedeschi! Lui, il Franz, o come diavolo si chiamava, aveva requisito, con l’aria di scusarsi, con l’aria di dire che non era colpa sua, che doveva obbedire ad ordini superiori, che lui era un soldato, che veniva dalla Cecoslovacchia, un posto che… anche lì grano, capire? Al bambino aveva regalato un sacchetto di caramelle bianche, di zucchero, bianco. Alla signora giovane un sorriso, e non era mica una cosa da poco, se nemmeno i parenti le sorridevano, e ci voleva uno della Slovacchìa, che le portava via i materassi, a mostrarle una faccia che non fosse grintosa!

Pur se atteso, faceva sempre la sua impressione. Come dire che bisognava tenerselo buono, che era un po’ come un bambinone, non sentite come parla?, che sembra che gli manchi  un dente davanti, e noi ne abbiamo viste di robe, che questo qui vedrai che lo mettiamo a posto anche lui!

Nessuno avrebbe spostato il nonno dal suo destino. Non c’era nulla da temere, dunque. Eppoi  avrebbero insegnato anche al soldato  a vivere! Erano due di razza buona, loro, lui e Lindo. Tutti e due erano andati sul bastimento in America.

“Porta una sedia anche per lui, e prendi una bottiglia di Barbera…”.

E la nuora corre, accende la candela perché, nel sottoscala dove ci stanno le bottiglie di vino, è buio, pulisce con l’asciugamano il bicchiere per l’ospite.

E lui si siede, dice “Bonasera”, proprio così, non sa parlare bene in italiano, bisogna compatirlo, poi si scalda le mani, fa “Brrr”, come noi e “Come stare voi?”. Tira fuori dalla tasca lo zucchero, non autarchico, genuino.

“Io ci mettere questo, va bene?”.

E i due vecchi si guardano negli occhi. Proprio vero che sono bambinoni, i crucchi! La napoletana gorgoglia. La nuora la toglie dal fuoco, la capovolge ed il profumo esce sotto forma di fumo, dal beccuccio. Le tazzine. Sì: le tazzine. Ma sono tutte spaiate. Ce n’erano sei del servizio, ma il gatto le ha fatte cadere. Mica importa, no? Quel che conta è ciò che sta dentro. Versa lentamente lo scuro liquido nelle tazzine, senza piattino, non ci fanno caso, vero? Un po’ di zucchero. Il nonno guata la quantità di zucchero. E’ goloso. Tre, grazie. Il soldato fa per bere, poi si arresta.

“Signora, bere anche lei con noi, bitten. Signora…”.

“Io?”.

“Bitten, signora, bere qui…”.

Ed il suocero osserva la nuora. Poi le fa cenno col capo. Ma sì!  Bisogna accontentarlo! Che si prenda pure lei un bicchiere di caffè. E con calma, come in un rituale, tutti sorbiscono l’orzo caldo, che si ostinano a chiamare caffè ma che non fa male neanche ai bambini, e quel che rimane in fondo al bicchiere, con un po’ di zucchero, la mamma lo passa al bambino, che ripulisce tutto. Quando sarà grande, lui berrà tutto il bicchiere e sarà qualcun altro che leccherà il fondo!

Poi il Franz estrae di tasca il portafoglio, grande ed odoroso. Da uno scomparto interno escono, come le carte d’un giocatore professionista, alcune piccole fotografie.

“Questa è Eléna, moglie, e questo, ja, piccolo, mio bambino in Cecoslovacchìa”. E le fa passare, le foto, anche per le mani del bambino di qua, che si stupisce di vedere un suo coetaneo dai capelli bianchi, che poi, gli spiegano, è solo un biondo chiaro, chiaro. La mamma si intenerisce. Lei, la sua famiglia ce l’ha lontano. Qui vendono le pelli di coniglio e con esse, secche, ornano i fienili, e fanno senso, con quella seconda pelliccia di mosche nere ronzanti! Suo figlio lo chiama Nani e non Gioanin. Suo figlio piccolo e vivo, un poco anche lui estraneo ai modi bruschi ed orseschi di questa famiglia qua.

Terminato il giro delle foto, v’è un attimo di silenzio. Gli aghi da calza continuano a rinviare ticchettìo e riflessi.

Il nonno azzarda: “Finirà presto la guerra?”.

“L’altra sì, che è durata lunga!”, replica Lindo.

“Casa mia lontana, io non contento, io soldato, per forza…”, pare scusarsi l’uomo con gli stivali che, continua, anche lui sta in campagna, ma non con le viti, con il grano, e lui aveva la mucca, chissà ora! Costa fatica mantenere una mucca. E se  prende la malattia? Quando gonfia perché ha mangiato l’erba che fa male? “Bisogna bucarla”, fa il nonno, “bucarla, capito?”. Prende un rametto, saltato fuori dal fuoco, e fa segno di bucare.

“Bucare…ah! Capito! Sì, bucare!”.

Ma poi l’inverno passa, il grano si fa verde e a giugno si miete e tutti contenti, niente guerra, ja?, niente guerra,  e la gente fa festa… I due vecchi a spiegargli com’è che fanno qui, che di grano ce n’è poco ma in cambio bisogna bagnare le viti, a mano, e che se vuoi il vino da tavola dall’uva bianca devi scavare vicino alle radici e nella fossa, fossa capito?, mettere l’acqua, così sole ed acqua, vedrai che uva! Uva per vino, buono il vino, vino sangue di Cristo, anche io sono cristiano, vedi croce?, e poi la guerra, la Cecoslovacchìa, che dove cavolo sta la Cecoslovacchìa?, e i bambini e…

Il fuoco viene riattizzato. La fascina sta terminando. Il cerchio di luce è sempre più piccolo. Il buio nella stanza sempre più compatto.

Il bambino appoggia la testa sulle ginocchia della madre.

I sarmenti crépitano, come le anime del Purgatorio, e la preghiera dell’Angelo Custode e Santa Lucia e… gli occhi si chiudono, le palpebre filtrano ancora qualcosa di diverso dal buio totale.

 

Come un feto rannicchiato accanto alla sua mamma giace nel letto il bambino. La scuffia in testa, i calzettoni ai piedi. Il calore lentamente si diffonde per tutto il corpo. Il freddo ha un muso nero. Se ti distrai, azzanna. Dalla finestrella che guarda sulla strada, un fascio di luce lunare riesce, obliquamente, a penetrare nella stanza. Quieti fantasmi ne approfittano per giocare a carte.

 

                                        GIANNI  MILANO



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