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✿ GAIA ✿: Il fico del nonno
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De: primaveraestate  (Mensaje original) Enviado: 02/10/2012 11:57

Del fico, il nonno non amava parlare.

Dicevano: “Nonno, il fico, sai…”: E subito il vecchio cambiava discorso, divagava, frapponeva intoppi, trovava mille metamorfosi, mille parole inutili, come le crepe sulla terra, che  moltiplicano il rivolo in decine di speranze, ben presto deluse.

E pensare che quel fico, del quale non amava parlare, lo aveva piantato lui, lo aveva protetto, lui, con un approssimativo muretto di sassi, onde impedire al gatto di stroncare l’arbusto ancora fragile! Avrebbe potuto essere suo nipote, il fico, se fosse stato un cristiano! Ma un cristiano, intanto, bisogna nutrirlo, vestirlo e mandarlo a scuola e, poi, appena il cristiano inalbera sotto il naso una peluria nera, quasi un lontano presagio di rondini, ti prende il vapore e se ne va. Così chi s’è visto, s’è visto, e i vecchi restano soli, soli con le cicale…

Dicevano: “Nonno, il fico, sai…”. E lui si assestava meglio il vecchio cappello di feltro sulla testa, tutta bianca di capelli, che, lui, ce li aveva ancora, Dio sia lodato!, e poi spostava la pipa da un angolo all’altro della bocca, con due dita rese adunche come un becco dall’artrosi, sputava una nuvoletta di fumo e… taceva. In sostanza, taceva, anche se, a buon diritto, poteva sempre affermare d’aver detto qualcosa, trai denti, che, lui, era una persona civile, ma che colpa aveva se i bimbi d’adesso non sanno più afferrare…

Il fico! Orgoglio del cortile e dell’estate, con le sue ampie vesti sontuose, ridondanti, sintesi tra le zufolanti pastorelle d’Arcadia e Maria Antonietta, pace all’anima sua!, il fico era cresciuto con prepotenza. Dalla base aveva emesso nuovi germogli, che in breve tempo s’erano trasformati in rami, dapprima molli, come braccia di bambino, poi sempre più scuri, temperati dal sole e dalla  magica linfa che il fico aspirava e pompava in tutte le sue diffusioni.

Del rametto iniziale, protetto dai sassi, era rimasto, ormai, soltanto più il ricordo, e si stentava a riconoscere, nell’albero odierno, l’atto gentile del nonno d’anni fa; un po’ come, sfogliando  album di fotografie, si stenta a individuare nel bambinetto nudo, sdraiato sulla copertina, il futuro padre di famiglia, il futuro ponte tra l’infanzia e la vecchiaia.

Come un cristiano l’aveva allevato questo giovanotto vegetale, proteggendolo, nelle nottate di gelo, con un sacco di juta ben stretto attorno al tronco, versandogli, nei periodi di  prolungata siccità, secchi d’acqua sui piedi, quasi fosse un bebè, quasi. E lui, il fico, aveva risposto con una cavalcata di verde, prendendo tutti di sorpresa, una foglia di qua, una foglia di là, un rametto da niente che in una settimana già è divenuto madre di foglie e frutti, aureolato di grazia e benessere, perennemente fertile e gonfio, benedicente gli umani e i gallinacei, con la sua ombra preziosa.

Proprio all’interno di quest’ombra tenerella, il nonno aveva fissato, con le gambe piantate nel terreno, una panchetta di legno, di quelle comode, che col tempo, invece di scassarsi, si ammorbidiscono, eliminano gli spigoli, acquistano una soave rotondità. La panchetta, ormai, pareva un’escrescenza del cortile, un’illusione ottica, una  orfanità di ombre incrociate.

Nei torridi pomeriggi d’agosto, quando la cicala riempiva del suo verso la padella del cielo, e avresti detto che fosse tutto un rosolare di formiche, un crepitare di crisalidi, il nonno, in canottiera, si lasciava piombare sulla panchetta, emettendo un sospiro di sollievo. Da lì, con noncuranza, evitando ogni sforzo, lasciava che gli occhi, a caso, quasi si trattasse d’uno straniero di passaggio, di uno di quei rari camminatori d’agosto che chiedevano quale strada prendere per giungere alla stazione, gli occhi, dicevo, lambissero la forma, l’immagine dei frutti, che tra le foglie e il rametto si gonfiavano lentamente.

Paragoni poco casti facevano battere la vena sulla tempia del nonno. Per un attimo, quasi un rigurgito di calore interno, il nonno si ritrovava, suo malgrado, a sorridere, compiaciuto. Quei fichi, quei maledetti fichi, non sembravano, spudoratamente, seni di ragazza, ondeggianti sulla linea del mare?, o forse erano i culetti degli angeli affrescati sul soffitto della chiesa, con rispetto parlando, quelli che, quando il nonno li guardava, lo facevano ridere, perché “pensa un po’ se a quelli lì gli scappasse la pipì…”, brontolava mentre il chierichetto agitava la campanella ed anche gli uomini s’inginocchiavano, per il ‘sanctus’, almeno, che mica erano bestie, come ripeteva la nonna…Incantato da visioni di pelli e turgori, il nonno vagava, con la fantasia, per mercati turchi, per harem con femmine nascoste da veli.

Quel pomeriggio nulla faceva presagire gesti ed emozioni diverse dal consueto. Il nonno aveva pranzato, bevuto il suo bicchiere di vino, la sua tazzina d’orzo, acceso il sigaro, e, a rapidi passetti per evitare di restare trafitto dai raggi pungenti del sole, s’era andato a posare, stronfiando, sulla panchetta.

Il fico era sempre là. Pareva avesse assunto un’aria tra lo sfottò ed il paterno, nei riguardi del vecchio. “Non ti permettere mica, vero! Non ti permettere di prendere quest’aria con me, neh! Che come ti ho messo al mondo, porca miseria, così ti tolgo, sai!”, ruggiva dentro di sé il nonno. E una furia leggera, ma amara, gli solleticava la gola e gli faceva andare di traverso il fumo.

L’albero era colmo di frutti, che stavano delicatamente ingiallendo, mostrando l’indiscreto buchino rosato della maturazione. I fichi, nell’ombra rotonda, parevano ammiccamenti d’occhi, smorfiette provocanti. Era tutto un gioco di ti vedo e non ti vedo.

Uno, in particolare, tra queste decine di fichi, colpì l’attenzione dell’anziano sognatore. Non era un fico, quello! Era un mostro, un Ercole, un vitello della coscia! Faceva quasi fatica a restare contenuto nella sua pelle. E il nonno immaginava il travaglio, il vai e vieni, il lavorìo interni alla buccia, per fabbricare la polpa, zuccherosa, butterata di semini, come una nidiata di uccellini, di pulcini in batteria, e chissà che traffico di linfa e controlinfa, di formule chimiche, di alchimia lillipuziana!

Il frutto dondolava da un ramo molto prossimo alla testa del nonno. Sarebbe bastato un colpo di vento e quello sfrontato avrebbe di certo colpito l’onorata sommità del padrone di casa. La provocazione era evidente. Senza dubbio alcuno quello era una delle infinite forme assunte dal Maligno per corrompere il mondo, per trasformarlo in una fogna di gatti morti. Eppoi, Maligno o non Maligno, cosa mai aveva da ghignare quello lì!

Derideva, forse, il bianco dei capelli? O la mano stretta, con due dita a becco, attorno al toscano?

 

A voler rievocare il fatto, il nonno, ora, non vede che uno spezzone di film bianco, con qualche numerone che ballonzola davanti agli occhi.

Dicono: “Nonno, quel fico…”.

Fu più forte di ogni saggezza.

Il nonno posò quel che restava del sigaro accanto a sé e, con mossa guardinga, quasi fosse un ladro, un furetto, quasi un passaggio rapido di lucertola, staccò dal ramo il frutto della tentazione.

Solo Dio e le cicale furono testimoni.

Aprì delicatamente il fico, una grotta da Alì Baba, ricolma di tesori, uno scrigno da sarta, irto di spilli colorati, e rimirò l’opera ineffabile del suo albero, che avrebbe potuto essere suo nipote, se fosse stato un cristiano, e che lui aveva cresciuto, aveva curato…

Con un colpo deciso del polso fece scivolare il frutto sventrato nella bocca in attesa, che subito richiuse, a voler nascondere il fichicidio. Caino, Caino, che ne è stato di tuo fratello?…

Di certo tutto questo avrebbe prodotto delle conseguenze e lui se ne sarebbe assunta la responsabilità. Come un San Giorgio a piedi, anche lui aveva combattuto la sua battaglia, aveva eliminato dal mondo una tentazione di troppo. Però, che lo lascino in pace, ora, che non gli ricordino che a quello, di frutto, ne seguirono parecchi altri, poveretti!, e mica erano tutti delle incarnazioni del Maligno! Non gli facciano tornare in mente la colica che seguì, che lo lasciò a letto, per due giorni, dolorante, a bere decotti di malva, a guardare in tralice, dalla fessura della finestra, l’albero indisponente.

Dicono: “Nonno, quel fico, sai…”, e lui borbotta, mugugna, risponde a modo suo, in una lingua che spartisce soltanto con il Maligno, puzzolente, sotto forma di fico.

 

 

GIANNI    MILANO



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De: enricorns Enviado: 02/10/2012 12:08


 
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