“Papa, Papa, Papa”, come un frinire improvviso di cicale, il grido dei bambinetti esplodeva, con cascatelle di ripetizioni, quasi fuochi artificiali, e la coda da stella cometa, che si perdeva dietro agli angoli delle stradine sconnesse, con campate bianche e nere, a seconda della luce, come in una scacchiera sulla quale, eternamente, il gatto faceva ruzzolare un immaginario topo catturato.
Quattro o cinque erano i ciondolanti cantilenatori, ma parevano un’orchestra, che oscillasse dal basso lento mormorato all’alto prorompente gridato. I suoni parevano giocare a rimpiattino, un Papa qua, dietro l’anta della finestra, un Papa là, vicino alla fontana: un Papa, che pareva una fiondata proveniente da dietro al noce, un Papa miagolato, quasi un’agonìa di clarino.
“Ma lasciatelo stare in pace, lavativi!”, brontolava ad alta voce, dalla sua buia cucina fresca, la signora Angela, nonna di Salvatore, che dove c’era bordello non mancava mai! Ma che volete fosse il rimprovero di una vecchia, viluppo nero di cotonina dal quale emergevano, come ultima neve, il triangolo della faccia e le mani nodute! Era come il fresco che ti può dare una foglia di salvia, sventolata! E lei, la nonna di Salvatore, scuoteva la testa, sgranocchiando ceci, e rimuginava, dentro di sé, teneri pensieri per quel poveretto di Papa, che mica era colpa sua se aveva un cognome così! Feroci pensieri, invece, da spellare a vivo le natiche infantili, per la banda di Salvatore, che nemmeno suo padre riusciva a tenerlo, quando il tempo si metteva all’estate e la scuola finiva.
In paese tutti conoscevano Papa, Giorgio, per l’esattezza, che era piombato lì quando il vecchio farmacista aveva deciso di smettere la professione. Da allora, tra aspirine e caramelle alla menta, tintura di iodio e amari digestivi, era diventato come il solitario monumento ai caduti della prima guerra, che stava lì, era di casa, non dava noia a nessuno e ormai due generazioni s’erano dondolate sulle catene che bordavano il cippo, con sopra, in alto, gialla e sporca, la fiaccola mortuaria, in vetro spesso.
Giorgio Papa apparteneva alla generazione di mezzo, a quella che aveva fatto in tempo a patire la seconda, di guerra mondiale, senza mai aver potuto dire la sua, senza alcun riconoscimento per essere scampato ai bombardamenti, per essere sopravvissuto agli sfollamenti..
Qualcuno lo raffrontava agli orsi che gli zingari trascinano sulle piazze e fanno ballare al suono di un violino. L’orso ciondola la testa, muove le zampone, sembra quasi mimare una canzone, in cuor suo terrorizzato dal ricordo delle sevizie alle quali è stato sottoposto per aver diritto al pasto giornaliero. Di orsi così ce n’era uno su una vecchia stampa, con una larga e spessa cornice decorata, agli angoli, in rame ormai verde, nel negozio del barbiere. L’orso ballava, lo zingaro suonava e la bella passava a raccogliere i soldi.
Di orsesco il Giorgio Papa aveva il modo di camminare.
La gente s’attendeva che crollasse al primo passo ma, quasi trattenuto da un filo nascosto dell’istinto, ecco che spostava il corpo all’indietro, sollevava la testa squadrata e riprendeva la sua marcia.
Di orsesco il Giorgio Papa aveva il modo di guardare.
Meglio. Di lasciare penetrare negli occhi a nocciola quel tanto di visione che potesse stare in un foglio bianco di ottanta per cinquanta. Perché, e non era un segreto, il Papa si considerava farmacista soltanto per la pagnotta. In verità, la sua vocazione, la professione del suo sangue, era la pittura.
Chissà cosa avrebbe dato per poter cambiare l’insegna ‘Giorgio Papa farmacista’ con quella, più nobile e più sua, di ‘Giorgio Papa pittore’!
Quel pomeriggio, nell’ora della canicola, quando solo la banda di Salvatore si azzardava a mettere fuori il muso, il Papa, di probabili ascendenze greche, scivolava lungo i bordi dell’ombra, tutto assorto nei suoi pensieri.
La testa imponente pareva uno scherzo della luce, a rimpiattino sul bianco dei muri, e la cartella di cartone, racchiudente i fogli, sembrava una finestra con le ante socchiuse per il troppo calore.
Il sole del pomeriggio soffocava i rumori dei passi, mollicci, indolenti, che quasi parevano levitare ad una spanna da terra. Irte frangiature affocate tentavano il volto di Giorgio, ora rimpolpando una guancia, ora una ciocca di capelli, ora l’orecchio peloso.
Dietro, sempre, a codazzo, come un corteo da re per burla, il monotono verso dei ragazzi, il ‘Papa…Papa…Papa…’ che ricordava il balbettìo di un idiota, il dissanguarsi d’una fontana difettosa.
Giorgio Papa, pittore. Quando qualcuno gli ricordava l’omonimo, il Giorgione, lui era pronto ad ammettere che sì, certo, quello era stato più ‘grosso’, ma mica di sicuro più ‘grande’! E si azzittiva, giocando sulla sfumatura, che chi vuole intendere intenda.
Superata la ragnatela di stradine, che circondavano la piazza, si incontrava, vicino al chiostro dei frati, il noce, venerabile anche quello, come il monumento ai caduti o, forse, anche di più, per l’età e l’imponenza. Là stava lo ‘studio’ del farmacista pittore, che amava ritrarre, a cielo aperto, le forme guizzanti e pensose dei bambini, nella loro silenziosa, impercettibile muta continua. Intorno al tronco del noce, qualche buon’anima aveva pensato di costruire una panchetta,ed ora, come due vecchi coniugi nello stesso letto, noce e panca si prendevano a gomitate. Il noce tentava la panchetta che gli faceva da cintura; la panchetta resisteva, con tutti i suoi chiodi, cedeva lo stretto necessario, si decomponeva un poco, come in preda all’artrite, ma restava là, struttura indispensabile dello ‘studio’ di Giorgio.
Ai margini del paese fluiva, giallo-verde, un corso d’acqua. La nomenclatura a proposito faceva difetto. Comunque lo si chiamasse, l’unica cosa certa era la sua natura d’acqua, corrente qualche volta, stagnante altre. Dove il corso curvava, sbandava in mezzo alle canne, dove gli avannotti facevano baldoria e le rane cacciavano zanzare, libellule ed insetti volatili in generale, senza andar tanto per il sottile, che quando c’è la fame mica stai a vedere di che colore è la pupilla di chi ti offre da mangiare!
Tra le canne guazzavano anche i piedi, callosetti e sporchi, dei ragazzi del paese.
Salvatore, il più grande, guidava la sua armata di scalzacani a caccia di bisce d’acqua, da far scivolare, poi, la sera, accanto alle bambine, quando, nelle ultime attese prima della notte, col sopraggiungere della frescura, i più tranquilli della società infantile giocavano a nascondersi, ai mestieri o a fulmine.
Ognuno aveva la sua sfera d’influenza, come diceva il barbiere, che, per tenersi compagnìa, non spegneva mai la radio e così conosceva a memoria i notiziari politici, le battute dei comici ed il cinguettìo dell’uccellino che siglava gli intervalli, tra una trasmissione e l’altra.
Tacitamente ognuno conosceva ed accettava i propri confini.
A Giorgio la farmacia ed il noce, ai bambini la scuola ed il canneto.
Le strade del paese erano zona neutra. Lì, risuonava il grido ripetuto, come il verso del cuculo; lì, si stampigliava sui muri la sagoma di Giorgio.
Alcune figure già risaltavano sul bianco dei fogli racchiusi nella teca. Tra di loro mormoravano bozze di frasi, tanto più eleganti e compiute quanto più Giorgio aveva fornito le figure di labbra definite, atte ad articolare suoni.
Conoscete, voi, come caccia la lucertola?
Se ne sta immobile, al sole, senza un fremito della pelle, ed attende. Attende che la vittima giunga alla sua portata.
Il Giorgio non era proprio una lucertola, ma, anche lui, evitava di andare a cercare i suoi soggetti. Sapeva che, prima o poi, specialmente tra i più piccoli, qualcuno sarebbe arrivato, a farsi consolare, magari, perché i grandi l’avevano beffato, o l’avevano impaurito, oppure per reclamare una pastiglia Valda, di quelle che fanno buono il fiato e non danno il mal di pancia.
Così, anche quel pomeriggio, con il sole sempre uguale a sé stesso, l’unico che fosse degno di rispetto, che non avesse la faccia doppia, la partita delle ore si stava giocando.
La scatola con i carboncini, a lato, il Giorgio assaporava le trafitture di caldo secco, che penetravano sotto i peli, irrobustivano il rosso del sangue, eliminavano il grasso superfluo, accumulato durante l’inverno.
Qualche risata arrivava, quasi brandello di carta, dall’area del canneto.
Salvatore e i suoi si stavano divertendo.
Ecco che, ciondolando, instabile sulle gambette, ma compunta come una Madonna, la figlia del maestro si avvicina. Trattiene, tra le mani, un vasetto di vetro, prezioso più dell’urna di San Gennaro. Gira attorno al monumento e scompare, per un attimo, alla vista, ma riappare ben presto.
Il più è superato.
Dal monumento al noce è solo una corsetta.
Ed eccola che arriva, con gli occhi arditi e contenti, la figurina che tende al rotondetto, le ginocchia sbucciate, come i bambini grandi. Arriva giusta giusta ad incastrarsi tra le gambe di Giorgio, che è ben felice per una simile sorpresa, doppia, per di più, perché nel barattolo, immobile in tre dita d’acqua giallastra, ci sta un pesce.
“L’ho pescato io con le mani, perché non ho la canna!”, spiega, petulante, la bambina. E non s’accorge, la poveretta, che il pesce l’ha pescato perché è morto, rigido e sull’attenti come un soldatino di piombo.
Ma che vuoi che sia!
La morte è un’ombra; ma ci vuol luce per produrre ombra.
E Giorgio lo sa bene, lui che è pittore, lui che raccoglie il suo carboncino, estrae dalla teca un foglio vergine, e, mentre la bimba parla, schizza, traccia linee, le accarezza con il pollice, fissa attimi di sospensione… Un primo piano, un profilo…
Una pastiglia per Alice, una per Camilla, che sta ancora cercando il suo pesce.
“Sta buono lì, pesce, che io vado a trovare la mia amichetta e poi torno, neh!”, ammonisce l’Alice e, com’è venuta, così si allontana, verso l’ombra, che, prima, le taglia la testa, poi, il dorso, e, infine, l’inghiotte completamente.
Cosa dicevamo della lucertola?
Che è un rettile e caccia un poco al modo di Giorgio Papa, ma senza sentimento, senza intenerimento d’occhi, senza intimità.
Solo Nicoletta è capace di ricondurre suo padre al tavolo di cena. Solo Nicoletta.
E lì, mentre i piatti si gonfiano del giallo della lampadina e il pane si dispone ad essere mangiato, il Giorgio approfitta della testa del maestro, che sporge dalla porta, e chiede se per caso hanno visto l’Alice, la quale ancora di certo è in giro, per estrarre dalla teca il suo ultimo lavoro.
“Dai, maestro, fermati un attimo, che ti faccio vedere. Ho fatto un lavoretto con tua figlia. Non scappare!”.
Mentre il maestro s’inoltra in cucina, il Giorgio avvicina il foglio alla lampadina, caghettata dalle mosche, cerca la luce giusta, la giusta distanza, e aspetta.
Aspetta di sentire l’apprezzamento del maestro, che è un amico, e non conta storie.
E quando, dal profondo d’una commozione che galleggia tra la gola e la lingua, il suono si trasforma in bolla, che scoppia sopra il tavolo, allora il Giorgio Papa, che sì, lo sa bene che il Giorgione era più grosso di lui, commenta, compiaciuto: “E l’hai visto qui? L’hai visto qui, che non c’è linea ed il volto si vede? L’hai visto qui, che non c’è niente e sembra tutto?”.
Giorgio Papa, pittore, per errore d’economia farmacista in bottega, buona serata!
GIANNI MILANO