Di ‘domani’ così sono lastricate le strade degli scolari.
Come i vetri stagionati delle finestre coperti dai neri punti delle cacche delle mosche così butterata è la carriera dei bambini a scuola.
Domani, che sembra annunciarsi nevoso, Ernesto, di terza, non andrà al doposcuola, e nemmeno alla refezione andrà.
Il suo maestro del pomeriggio, quello giovane dall’aria annoiata, l’ha sospeso per un giorno.
L’ha ‘sospeso’, cancellato via per un giorno dalla storia dei suoi compagni, chiudendogli la porta in faccia, inviandolo in una dimensione di attesa, di inutilità.
Domani, che sembra annunciarsi nevoso, Ernesto, quello con il ciuffo ed il cerotto sulla fronte, non farà più versacci a scuola, non bucherà le pagine del quaderno cancellando freneticamente, non scorazzerà per i corridoi come un cucciolo in cerca di amici.
La giustizia scolastica ha allungato la sua manona severa, patriarcale e saggia. Con l’indice ben teso ha indicato ad Ernesto la via di uscita. L’ha sospinto, leggermente infastidita, verso l’esterno, verso il mondo.
Ha ben altre cose da fare, la scuola, che perdere tempo dietro ad Ernesto! Ha da amministrare se stessa con cautela, dignità e rigore. Così, quasi fosse un errore che si cancella, ha risposto alle turbolenze di Ernesto. Senza bisogno di carabinieri, perché mica siamo ai tempi di Pinocchio!, senza nemmeno bisogno dei bidelli.
Ernesto è abituato ad essere sospeso. Conosce la lingua. Con lui basta dire “Domani non farti vedere, capito?!” e subito scatta il meccanismo di difesa.
‘Domani non farti vedere’ vuol dire, intanto, che non bisogna dire niente a casa, perché sono sberle, poi vuol dire che si salterà il pasto e bisognerà non farsi scorgere dalla gente che si conosce, gente che magari pensa che si è marinata la scuola! Normali problemi di sussistenza, di sopravvivenza.
Che poi cosa c’entrasse il maestro in quella loro discussione, solo il diavolo lo sa! Erano cavoli loro, storie che hanno radici altrove, nei tempi e nei luoghi in cui non batte il sole della scuola. Lì, in quell’aula, mescolati tutti, con quelli di prima e di seconda, una ventina, con un mucchio di compiti diversi da fare, la ‘questione’ scoppiata non era altro che un rametto di quell’albero nodoso che cerca acqua sotto le case popolari, su per le scale puzzolenti, negli angoli dove si fuma di nascosto. Che cosa c’entrava il maestro con una discussione che bisognava risolvere per salvare l’ ‘onore’?
Il maestro non c’entrava per niente. Non c’è mai entrato. Non era facile.
Il maestro del doposcuola è mal pagato, e neanche tutto l’anno. Si sente declassato e umiliato a fare quel lavoro lì, quel lavoro di ripiego, “un lavoro delle balle” come dice lui, mentre, in libreria, si scalda le mani alla stufa a cherosene.
Il maestro del doposcuola ha i problemi suoi, le sue insoddisfazioni, la sua anima lunga che porta in giro senza prospettive, senza volontà. Perché mai dovrebbe entrare nelle beghe dei marmocchi?
Eppoi di qualcuno deve ben essere la colpa se tutto va a schifìo!
Lui sa bene che c’è sempre un responsabile in alto ma, di questo passo, si arriva al padreterno e non si risolve nulla. Allora oggi, ieri, le grane, i casini, mica li procura il padreterno! Mica è il ministro che litiga e non vuole fare i compiti, le parole con la ‘c’, la tabellina del 2 ed il riassunto della poesia! Nemmeno il provveditore od il sindaco sono responsabili della questione d’ ‘onore’ tra Ernesto e gli amici dei Rossetti, questione che da tempo bolle in pentola, blll blll blll come fa, in segno di spregio, il più piccolo del clan, scotendo decisamente le labbra con l’indice!
Allora gli unici colpevoli punibili, gli unici su cui si può esercitare autorità, la ‘sacrosanta’, gli unici che si possono ‘raddrizzare’ sono quelli, con i capelli arruffati, che si rotolano per terra, avvinghiati, salivanti, concentrati nello sforzo della lotta.
La colpa non è forse sempre di chi si lascia prendere?
Il servo che salva il padrone, come racconta Brecht, non fu condannato per tentato omicidio?
Avevano ragione i giudici.
Che senso c’era che un servo salvasse il suo padrone?
Perché mai il maestro del doposcuola dovrebbe partecipare alla vita di queste cimici dell’istituzione?
Non c’è motivo, infatti.
Ed allora se quelli si litigano, stronfiando come mantici, giusto è riequilibrare la situazione punendo il vincitore.
Ernesto è stato ‘provocato’ dagli scalzacani dei Rossetti, quelli che ogni tanto con Ernesto si squagliano dalla scuola. Ernesto si è sentito in diritto di lavare l’insulto e, di botte in botte, s’è trovato con un taglio sulla fronte, una cosa che lui manco la sentiva ma sgocciolava e sporcava le dita e la maglia blu e creava confusione tra i più piccoli, sovreccitati dal sangue e dalla lotta.
Sarebbe tutto finito lì ed Ernesto per un po’ l’avrebbero lasciato in pace, ma s’è messo di mezzo il maestro il quale non può tollerare che i marmocchi si rompano la testa senza il suo permesso e proprio nel momento in cui stava cercando delle parole con il suono ‘c’ per i bambini di prima.
“Domani non farti vedere, capito?!”.
Capito, capito!, è sempre la solita storia!
Perché mai mandano a far i maestri della gente che non capisce niente!, starà pensando Ernesto. China la testa come un somaro che tiri o, forse, perché la sua testa è pesante, colma di pensieri, ideazioni, trabocchetti, confusioni, maestri di doposcuola…
Per questo Ernesto, pur avendo evitato la vendetta dei Rossetti, non è riuscito ad evitare il digiuno di pranzo. Vero è che, nell’intervallo, questa mattina, clownando un poco, umiliandosi molto, è riuscito a racimolare piccole porzioni di merende altrui ma, santiddio!, fa freddo, nevica, ed oggi non c’erano i tortellini con il sugo?
Salata è la neve che cade, quando si è soli.
I fiocchi paiono pugnetti che cercano di colpirti e tu li guardi, li osservi, ti schermi gli occhi con le mani ma loro, mannaggia a loro!, penetrano lo stesso negli occhi, riempiono il vuoto tra ciglia e ciglia, si sciolgono, colano sulle guance come se una magica sorgente fosse scaturita in quel momento dai fastidi del bambino.
Domineddio l’aveva detto che ogni madre avrebbe dovuto patire tanto già nel mettere al mondo il figlio ma il domineddio sbadato s’è dimenticato di dire che anche essere bambini è doloroso. Essere Ernesto, per lo meno, è dolorosamente difficile.
Dove andare?
In quale luogo c’è un senso, c’è un posto?
Così, come dice l’antica storia che l’assassino torna sempre sul teatro del delitto, l’Ernesto si aggira nei dintorni della scuola, la corteggia, non troppo da lontano, facendo, magari, finta di niente. Avanti e indietro. Indietro e avanti. Tirando palle di neve, rimettendo i piedi nelle orme di prima. Sta fuori del cancello, già vecchio ed imbianchito per i fiocchi, quasi un cagnastro randagio in cerca d’ossi nel pattume. Di questa sua via crucis restano i segni. Neve sporca e scavata. Capricci formali sul candore uniforme. Rabbioline fredde.
“Se io fossi una rondine mica me ne starei qui. Volerei giù, dove fa caldo. Dove c’è il mare e la spiaggia, che sia lunga, lunga che non si veda la fine e le conchiglie…”. I pensieri di Ernesto paiono un fumetto. La rondine pare uscire dall’occhio destro, quello che lacrima meno, e diritta involarsi verso il sud per portare il segno del desiderio infantile, la speranza, che la neve copre ma non uccide.
Un puntolino nero è la rondine nel cotone del cielo. Anche i bimbi che al doposcuola oggi ci stanno sembrano aver notato qualcosa di strano. Eccoli alla finestra, con i nasi schiacciati contro i vetri che paiono narici di maiali. Eccoli i ’10 palle un soldo’, attenti, insensibili agli scrolloni del maestro. Guardano Ernesto che passeggia sotto le loro finestre e, forse, nel contempo, seguono il volo della rondine, lassù, dietro a quella massa di nuvole poltigliose, lontane… Se l’avessero saputo prima avrebbero affidato una bandiera alla rondine da portare con sé…, se avessero saputo che l’Ernesto era il papà d’una rondine d’inverno…
Ma intanto il tempo passa. Il maestro consulta l’orologio. Fra poco scaricherà la ciurma in palestra, che si sfoghino!
Peccato!
Non possono vedere, tutti, gli innocenti ed i cinici, il ritorno trionfale della rondine.
Lentamente, infatti, come una nave ammiraglia, con la prua del becco che taglia il grigio, eccola che arriva ma… attaccata alla coda cosa porta?
Non è possibile! Non è possibile no!
Una lunga spiaggia di sabbia finissima e non inquinata, con noci di cocco sparse un po’ qua e un po’ là, una lunga spiaggia morbida come il pelo d’un coniglio che è tenero e dolce passarci su la guancia, sulla testa del coniglio, ed è tenero e dolce correre scalzi su questa sabbia che non punge, non sospende, non tira pugni di nascosto, non ti fa riassumere ‘con parole tue’ il ‘settembre, andiamo! è tempo di migrare’…
E l’hanno sospeso dal doposcuola, l’Ernesto! E gli hanno fatto saltare il pranzo! All’Ernesto!, che è così in gamba!, che ti spedisce le rondini a procurare un parco-giochi favoloso… senza l’ombra di monitrici, custodi, maestre, bagnini, senza l’ombra di mutandoni neri ammucchiati nel capanno sul bordo della spiaggia…
Ma questo è un altro ricordo di Gianni, è un altro film.
Sulla spiaggia della rondine di Ernesto non sta scritto ‘Colonie INAM’.
Non è Chiavari quel posto lì!
Quel posto lì è qui, vicino alla scuola, sospeso delicatamente sulle orme delle scarpe di Ernesto. Rimane ancorato alle dita del bimbo arrossate dal freddo. Invia, nella sua infinita magnanimità, un olezzo, un profumo, giù, nella palestra, che lo annusino i forzati della cagnara, respingendo il moccio, che si sentano pizzicare, in questo mese di gennaio, che non si è ancora superata la collina dell’inverno, che si è ancora nel bagnato, fasciati, impotenti…
Sulla spiaggia di Ernesto anche i Rossotti potrebbero giocare, non ci sarebbero problemi di territorio.
Non ci sono cartelli, non ce ne sono da nessuna parte.
Mica è Chiavari qui! Non c’è bisogno del treno per arrivare alla spiaggia del desiderio!
Fu il maestro dal cappello di lana rossa che prese il treno, a dieci anni, per la Liguria. Lui che ha incubi di spiagge con mucchi di mutandoni neri, senza elastico, che il più forte pigliava quello della sua misura e gli altri si arrangiavano… Lui ricorda giornate trascorse tenendosi mutande che inesorabilmente, come la ghigliottina, calavano calavano, mostrando natiche magre, bianche, dove “non batte mai il sole, neh?”. Però lui è vecchio. Che se ne fa delle natiche abbronzate? Passato è il tempo delle colonie estive, la trasferta igienica per riempirsi i polmoni di iodio. Trascorso è, trascinato via dall’ultima risacca, il tempo delle mutande a ghigliottina, dei castelli di sabbia che la furia dei piedi distruggeva, delle ‘passeggiate’ in divisa, con il berrettino bianco, mentre le accompagnatrici si concedevano una sigaretta, un’aranciata…
Ora è il tempo di questi protagonisti qui, è il tempo della loro rabbia, dei loro segni di talpa lasciati nella neve.
Quando il grigio del giorno sta in bilico per cadere nel nero della sera, verso le quattro, slittando un poco, arriva lo scuolabus con i fari accesi che allungano ombre. Dalla scuola svalangano gli altri, tutti eguali e diversi.
Prima di salire sul pullman lanciano la rituale palla ghiacciata in testa al più timido che, forse, un giorno o l’altro manderà suo padre a parlare con il maestro e poi… anche Ernesto si confonde con il gruppo. Anche lui, ora, è ‘normale’, anche lui, ora, può mostrarsi a tutti. Arriverà a casa, mangerà pane e salame e, a cena, chiederà doppia razione di pasta e fagioli.
Domani si vedrà.
“Non sarebbe meglio fare pace con i Rossotti? Facciamo l’alleanza e così siamo più forti…”, pensa l’Ernesto prima di addormentarsi. Al posto delle classiche pecorelle da contare per prendere sonno sfilano davanti agli occhi a fessura del bambino, le facce degli altri, di quelli con i quali oggi non ha vissuto, di quelli con i quali domani farà un patto. L’ultimo chi è?
Troppo buio. Non si vede bene…non si vede…non si vede…
GIANNI MILANO
(da “L’alfabeto e i giorni”)