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De: Butterfy (Mensaje original) |
Enviado: 05/07/2013 22:36 |
Un agile volumetto firmato da Francesco Guccini e intitolato Dizionario delle cose perdute, mi ha dato l’occasione di richiamare alla memoria immagini ed emozioni che credevo dimenticate per sempre. Basta invece che qualcuno rievochi, anche solo di sfuggita, un oggetto, una consuetudine di un tempo lontano...e si scoperchia d’incanto anche davanti a noi lo scrigno dei ricordi. Da una nebbia spessa e ovattata spuntano impressioni, sensazioni tenui, minime, talmente leggere da non comprenderne il mistero. Com’è possibile infatti che un attimo di banale normalità della nostra infanzia, abbia resistito mezzo secolo, gelosamente custodito in un angolo nascosto della nostra mente? La rete poi, nella sua accezione di “mercatino dell’usato”, ci dà modo di recuperare frammenti e reperti che riverberano anche visivamente e concretamente quel nostro ricordo ritrovato...E SI APRE IL CUORE... |
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Un prodotto tipico di quel tempo perduto, che non mancava mai nella nostra cucina, era l’orzo (detto spesso il caffè dei poveri). Inconfondibile l’odore che si sprigionava dalla curcuma messa a bollire ogni sera sul fornello...fantastico!!!
E l’orzo mi riporta indietro nel tempo, alle mille mattine di caffelatte infantili, in tazza grande, con baguette di pane inzuppato, quasi che, come si diceva... il cucchiaio dovesse rimanere dritto in equilibrio...
«”Serve altro Giovanna?” – chiedeva la commessa dietro il bancone – “Certo nonna!” – rispondevo io – “Dobbiamo comperare il mio caffè…”. Una manciata di anni sulle gambe, mi accompagnavo a mia nonna per le compere quotidiane nello “spaccio alimentare” del paese natio. Una botteguccia dimenticata dal tempo...ricca di cassetti e barattoli colmi di farine, chicchi di riso, mentucce, spezie e quant’altro necessario al nutrimento della piccola comunità di campagna. Sui pochi scaffali a disposizione dei clienti, rubicondo, sorrideva dalla sua scatola il buon faccione dell’abate Kneipp. Malto Kneipp, recitava la didascalia. Era quello “il mio caffè “. Amavo quel volto sorridente quando,seduta al mattino davanti alla tazza fumante, già mi sentivo già donna,partecipe di un rito riservato solamente ai grandi: il caffè»... |
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non abbiamo più poesia dentro
che ti vuoi aspettare
non vedi Carosello... l'hanno riesumato
per........ sfruttarlo a loro modo...
i Corn flas o come diavolo si chiamano
ma tu ti ricordi la crosta del pane inzuppato
che sapore aveva....?
no tu non te la ricordi...
voi vi mangiate quegli sfilatini senza sale
che mi facevate fare mille giri.... mille giri
per trovarne uno che ne avesse un pizzico
ma la fetta di pane nel latte... la classica
zuppa o zuppone... e che meraviglia...
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De: haiku04 |
Enviado: 06/07/2013 12:29 |
Il Dizionario delle cose perdute di Guccini è effettivamente un delizioso libretto che ci parla del passato....
tante cose del tempo che fu, leggendolo, ci tornano alla mente con la dovuta nostalgia.....
di altre ci ricordiamo poco o nulla, essendo magari nate dopo l'autore, ma è sempre e comunque
un tuffo in un passato cha pare lontano anni luce, e invece è solo lì, dietro l'angolo....
La banana
Noi siamo quelli della banana. Abbiamo, miracolosamente, e di poco, evitato le fasce, quel sistema ignobile di costrizione che voleva tutti gli infanti trasformati in mummie egizie, ma l’infame banana no, non siamo riusciti a evitarla.
Appena nati, innocenti, incolpevoli, hanno preso i nostri primi e scarsi capelli e li hanno foggiati in modo che, sulla fronte, emergesse un ricciolone enorme e cavo, un vezzo al quale in nessun modo potevamo ribellarci, una specie di grottesco cannolo che sovrastava i nostri occhi, da poco spalancati sul mondo.
Non solo ai maschi è stata imposta tale umiliazione, alla quale evidentemente era impossibile opporsi, ma anche alle femmine toccò questa triste sorte — in più, per loro, con l’aggravante di un lezioso fiocchetto, una piccola farfalletta di stoffa a coronamento del tutto.
Poi, non paghi, ci hanno fotografato. Ma non in casa, perché allora quasi nessuno aveva una macchinetta casalinga, non come ora che, con l’ausilio di ignobili telefonini, è tutto un ticchettare continuo che nemmeno i più convinti giapponesi. No, ci facevano uscire, ci esponevano ai pericoli delle città o delle campagne, ai terribili rigori meteorologici, i geli dell’inverno, i caldi tropicali dell’estate, e ci portavano in uno studio fotografico. Là ci immortalavano sordi ai nostri giusti lamenti. Nudi, distesi in varie pose oscene su pelli di svariati felini, lo sguardo vuoto di infantile e innocente perplessità, se non di autentico e consapevole terrore, là tutti a mostrare dubbie rotondità di glutei e tettine grassocce di cui le femmine, raggiunta appena la pubertà, si sarebbero poi vergognate per i secoli a venire; ma anche noi maschi, con eventuali pisellini in aria, non siamo stati da meno, da sempre timorosi che un qualunque discendente, un figlio, o peggio, un nipote, le scoprisse, quelle foto, e ne facesse materia di ignobile e vile ricatto.
Noi siamo quelli lì. Oh, certo, siamo cresciuti, e abbiamo affrontato, chi più, chi meno, le varie avversità o le gioie (le poche, in verità, gioie) che la vita di volta in volta ci ha presentato. Così oggi, non tanto più sereni ma, diciamo, distaccati, vogliamo voltarci indietro e riguardare con affettuosa rimembranza a tante piccole cose che abbiamo incontrato e che, come tante altre cose andate, più che andarsene ci sono volate via.
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