I tumuli dell’Isola dei Pini, in Nuova Caledonia: un enigma affascinante tuttora insoluto
I Canachi della Nuova Caledonia, presso gli studiosi di linguistica, sono noti per il fatto che, nel loro idioma, mancano i termini relativi alla prima persona e quindi anche il concetto di “io”, così come lo intendiamo noi occidentali (cfr. il nostro precedente articolo «Fra i Canachi della Nuova Caledonia la persona non ha nome né io, ma è un insieme di relazioni», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 15/03/2010).
Vi è anche un altro motivo d stupore, non fra i linguisti ma fra gli archeologi, dovuto alla presenza di alcune centinaia di misteriosi tumuli di grandi dimensioni, alcuni dei quali caratterizzati dalla presenza di altrettanto enigmatici pilastri, concentrati sull’Isola dei Pini (Ile des Pins, da non confondersi con l’isola omonima dei Caraibi, al largo di Cuba; tutto l’arcipelago, che comprende anche le vicine Isole della Lealtà, è un Territorio d’Oltremare francese vasto 19.050 kmq., più o meno come la Puglia) immediatamente a sud della Nuova Caledonia; nonché in una località presso l’estremità meridionale di quest’ultima.
L’Isola dei Pini, vero gioiello naturale dell’Oceano Pacifico, è famosa per le sue spiagge stupende, che attirano un discreto flusso di turismo internazionale nei bene attrezzati alberghi della costa; un poeta giapponese si è spinto a definire questa terra come la più vicina al Paradiso fra quante ne esistono al mondo. Raramente, però, i turisti che giungono qui dall’Europa, dall’Australia o dagli Stati Uniti d’America, si interessano al mistero dei tumuli, che sembra rimandare alle nebbie di un passato mai realmente conosciuto.
La superficie dell’isola, che si trova a 60 km. dalla capitale della Nuova Caledonia, Noumea, è di circa 250 kmq. quadrati, più o meno come la nostra isola d’Elba; le coste sono basse, di sabbia bianchissima e dalle acque di un blu cobalto singolarmente trasparenti, fronteggiate da centinaia di isolotti e banchi di sabbia sottoposti all’alternanza della marea. Sia le spiagge sia, soprattutto, l’interno dell’isola, sono caratterizzati da magnifici boschi di palme e di araucarie, conifere “primitive” che raggiungono qui uno sviluppo e una bellezza sorprendenti e che spiegano la denominazione data all’isola dai primi navigatori europei. La foresta, due o tre secoli fa, era ancora talmente fitta che nel 1792 il navigatore francese Bruni d’Entrecasteaux, quivi giunto alla ricerca di La Pérouse (che aveva fatto invece naufragio a Vanikoro, nelle Isole Santa Cruz, quattro anni prima), impiegò ben un mese per attraversarla tutta.
Ma adesso torniamo ai tumuli.
Se sono opera dell’uomo, cosa che non da tutti è ammessa, la loro stessa presenza, databile a diverse migliaia di anni fa, rivoluzionerebbe completamente tutte le nostre cognizioni intorno al popolamento delle isole dell’Oceano Pacifico; non solo, ma anche intorno allo sviluppo delle prime civiltà umane, che, come è noto, per la storiografia accademica sarebbero quelle dell’antico Egitto e dell’antica Mezzaluna fertile, l’arco di terra che va dalla Palestina, attraverso la Siria, fino alla Mesopotamia.
Secondo le nostre conoscenze attuali, le isole e gli arcipelaghi occidentali dell’Oceania vennero popolati a partire dall’Asia sud-orientale, in una data imprecisata: dapprima la Nuova Guinea e le Isole Salomone, indi il resto della Melanesia e poi, via via, la Micronesia e la Polinesia, fino alle estremità settentrionale (Hawaii), sud-occidentale (Nuova Zelanda) e sud-orientale(Isola di Pasqua). Ma fu una migrazione molto lenta, se i primi uomini giunsero, come sembra, in Nuova Caledonia non prima del 2.000 a. C. In ogni caso, la datazione del 50.000 a. C. per l’inizio del movimento migratorio, che pure è stata avanzata da alcuni studiosi, appare in contrasto con tutti i dati attualmente disponibili. Alcuni siti archeologici associati alla cultura lapita sono stati rinvenuti nell’isola Watom (Papua-Nuova Guinea), in quella di Malo nelle Vanuatu, nonché a Tonga e a Samoa: e sono tutti databili intorno al 500 a. C.
Alcune successive ondate migratorie introdussero fra quei primi colonizzatori l’agricoltura, l’arte della ceramica e quella di fabbricare le grandi canoe d’alto mare a doppio scafo. Si potrebbe ipotizzare che i tumuli dell’Isola dei Pini e dell’estremità meridionale della Nuova Caledonia siano una testimonianza di queste remote popolazioni melanesiane, tanto più che sono venute alla luce anche alcune antiche iscrizioni sui pietra. Tuttavia questa interpretazione solleva ancora più perplessità di quante ne riesca a sedare, poiché i tumuli - se, ripetiamo, sono realmente dei manufatti - costituiscono i classici reperti archeologici “fuori posto”.
Ecco come li descrive la rivista «Info Journal», n. 2, dell’autunno 1967; riportato in «Misteries of the Unexplained», 1982, traduzione italiana «Cronache dell’inspiegabile», Milano, Selezione dal Reader’s Digest, 1989, p. 49):
«L’isola della Nuova Caledonia, nel Pacifico, si trova circa 1.000 miglia a sudovest della Nuova Guinea e a 750 miglia dalla costa orientale dell’Australia [il porto più vicino è Brisbane, capitale del Queensland]. Circa 40 miglia a sud della sua punta più meridionale c’è l’Isola dei Pini. Su questa piccola isola sono stati scoperti circa 400 curiosi tumuli di sabbia e pietrisco, fatti a forma di formicaio, alti dai 2,5 ai 3 m., con un diametro di poco meno di 100 m. Lo stesso genere di tumuli si ritrova nel distretto di Païta, nella Nuova Caledonia meridionale. Sull’Isola dei Pini la sabbia contiene un’alta percentuale di ossido di ferro; vicino a Païta, invece, è ricca di silicio. In entrambi i casi i tumuli sono virtualmente spogli di vegetazione.
Nei primi anni ’60, quattro di questi tumuli furono oggetto di scavi da parte di L. Chevalier del Museo della Nuova Caledonia di Noumea, capitale dell’isola. I tumuli appaiono strani già di per sé, ma ciò che Chevalier trovò nel loro interno era ancora più strano. Al centro di tre tumuli scoprì un pilastro verticale, e nel quarto due pilastri affiancati. Non vi fu trovato nessun altro reperto, né carbone, né ossa. I pilastri, o cilindri, il cui diametro varia da 1 a 2 m., con un’altezza da 1 a 2,5 m., sono fatti di un composto a base di calce contenente frammenti di conchiglie. Con la datazione al carbonio 14 questi pilastri sono stati risalire a un periodo tra il 5120 e il 10.950 a. C. L’uso della calce, come materiale da costruzione, è quasi sconosciuto prima del periodo ellenico classico, cioè poche centinaia di anni prima dell’èra cristiana. E, per quanto ne sappiamo, il primo uomo giunse dall’Indonesia in Nuova Caledonia intorno al 2000 a. C.
La superficie esterna dei cilindri è incrostata di frammenti di silice e pietrisco ferroso, che sembrano essersi incastonati nella malta durante l’indurimento. L’ipotesi di Chevalier è che i pilastri siano stati formati versando la malta dall’alto dei tumuli in stretti pozzi scavati nella sabbia e lasciandola indurire sul posto. Lo scopo di simili costruzioni è ancora avvolto nel mistero. E, data l’età apparente dei cilindri e il fatto che non siano stati trovati segni di vita, né umana né altra, anche la natura dei loro costruttori rimane un enigma.»
Se si tratta di monumenti funerari, come mai non è stata trovata alcuna traccia di ossa umane all’interno dei tumuli dell’Isola dei Pini?
E come è possibile che siano stati costruiti fra 5.000 e 11.000 anni avanti Cristo, se i primi colonizzatori melanesiani giunsero solo molte migliaia d’anni più tardi?
Ancora: chi ha eretto i pilastri, o cilindri, al centro di alcuni di quei tumuli; e come mai utilizzò la calce, che non era conosciuta nemmeno in Asia, né in Europa, fino ad alcuni secoli innanzi l’èra cristiana?
Certo, la cronologia delle migrazioni polinesiane è ancora incerta: la diffusione in Oceania, cominciata nel I millennio a. C., potrebbe essersi conclusa entro i primi secoli dopo Cristo, verso il 400 per le isole Hawaii; solo la Nuova Zelanda fu raggiunta alquanto più tardi, dopo il 1.000 d. C. (e, naturalmente, l’Isola di Pasqua).
Secondo gli storici, sono le Molucche, in Indonesia, la terra di origine della ceramica detta di Lapita; fra il 1600 e il 1400 a. C. i portatori della ceramica lapita si diffusero nelle Tonga, nelle Figi orientali ed in alcune isole di minori dimensioni.
Mauro Paoletti fa notare che, secondo il racconto di Erodoto, i sacerdoti egizi facevano risalire lo spostamento dei Poli a 12.480 anni fa; una data che coincide con le più antiche datazioni al radiocarbonio dei pilastri esaminati dal professor Chevalier.
I tumuli, in numero da tre a quattrocento, risalirebbero a circa 3.000 annui fa e sarebbero, quindi, più recenti dei pilastri; ma, anche così, i conti non tornano. Formati da un composto di macerie, terra, frammenti di corallo e ossido di ferro, nonché da conchiglie e - questa è la cosa più strana - da calce, a detta di alcuni studiosi potrebbero essere stati costruiti non da esseri umani, ma da uccelli di grande mole oggi estinti, come il “Moa” gigante della Nuova Zelanda. Ma, a parte il fatto che non vi sono evidenze fossili della presenza di tali uccelli in Nuova Caledonia, anzi, che non vi sono ossa di alcun tipo sotto i tumuli o nelle loro vicinanze, né umane né animali, si tratta di un’ipotesi piuttosto peregrina, che sembra sia stata avanzata apposta per chiudere la discussione in sede propriamente archeologica.
Piaccia o non piaccia, forse il solo modo di gettare un po’ di luce su questo intricato problema è quella di allargare lo sguardo a tutta l’area del Pacifico occidentale e di mettere i tumuli dell’Isola dei Pini in relazione, fra le altre cose, con il gigantesco edificio sommerso di Yonaguni, in Giappone, e con le ciclopiche rovine di Nan Madol, a Ponapé nelle Isole Caroline, di cui ci siamo altra volta occupati (cfr. il nostro articolo «Le gigantesche rovine di Nan Madol vestigia della civiltà di Mu?», sul sito di Edicolaweb).
C’era qualche cosa, qualche terra, qualche civiltà, delle quali non sappiamo quasi niente, in questa regione dell’Oceano Pacifico ove il navigatore spagnolo Mendaña De Neira cercava, alla fine del 1500, niente di meno che il Paradiso Terrestre? E il mitico Continente Australe, ricercato dai navigatori europei ancora nella seconda metà del 1700, era proprio soltanto una leggenda, o non poteva essere il ricordo deformato di un dato reale, di quella misteriosa Terra di Mu di cui parlava il colonnello Churchward negli ultimi decenni del XIX secolo?
Verso che cosa guardavano i seicento giganteschi “moai”, i busti in pietra tufacea dell’Isola di Pasqua, disseminati lungo le pendici del vulcano Rano Raraku; e chi li eresse su di un’isola tanto piccola, a migliaia di chilometri dalla terra più vicina?
Ancora. Chi edificò sull’isola di Malden, nelle Gilbert (oggi Repubblica di Kiribati), i quaranta templi a forma di piramide, alti fino a 9 metri, larghi fino a 18 e lunghi fino a 60, con tracce di strade pavimentate che conducono verso il mare, dove misteriosamente si interrompono? Anche a Ponapé esisteva un grandioso porto, oggi sprofondato nel mare: chi furono i suoi costruttori? Verso quali rotte partivano le sue merci? Faceva forse parte delle Sette Città Sacre di Mu, citate da Churchward?
E chi ha costruito l’enorme arco di pietra dell’isola di Tongatapu, nell’arcipelago delle Tonga, pesante oltre 100 tonnellate e apparentemente allineato con gli astri, simile a una Stonehenge dell’Oceano Pacifico?
Che dire, infine, delle avvincenti mappe giapponesi, più antiche di qualsiasi civiltà oggi conosciuta, che mostrano il mondo prima dello spostamento dell’asse terrestre, nelle quali compaiono due continenti, oggi scomparsi, nell’Oceano Pacifico, ed un terzo, più piccolo (forse l’antica Lemuria), nell’Oceano Indiano? Di queste mappe ha parlato, fra gli altri, Valerio Zecchini nel suo libro «Atlantide e Mu» (Editrice Demetra, 1998, pp. 133-37).
Molte domande senza risposte; troppe, forse, per una scienza che crede di aver capito e di aver spiegato quasi tutto, della storia antica dell’umanità.
Eppure, noi sappiamo che quella storia è tutta da riscrivere.
Non è forse vero che l’impronta di un sandalo che schiaccia una trilobite è stata scoperta dall’americano William J. Meister ad Antelope Spring, nello Utah, nel giugno del 1968: l’impronta di un piede umano, dunque, impressa in una roccia che risale ad un’età compresa FRA I 300 E I 600 MILIONI DI ANNI FA?