Il papa Francesco sorprende, attira la simpatia delle persone assai al di là della cerchia dei cattolici, e dei cattolici praticanti in particolare, per la genuinità del suo tratto, la semplicità dell’atteggiamento, il modo diretto e aperto di rapportarsi agli altri, la spontanea condivisione che egli manifesta dei confronti dei malati e dei sofferenti, insomma: per il suo simpatetico andare incontro alla vita. Ci si potrebbe domandare: si tratta di una situazione favorevole provvisoria, sostenuta o alimentata soprattutto da fattori emotivi, dalla novità rappresentata da un vescovo di Roma venuto dalla “fine del mondo”, ma destinata a sfiorire con il trascorrere del tempo ed eventuali prese di posizione ‘impopolari’?
Penso che quando si sottolinea la semplicità di papa Bergoglio bisogna coglierne decisamente il significato spirituale. Semplicità non significa affatto semplicismo, come è ben ovvio, ma nemmeno si identifica con semplificazione. Da discepolo di quel personaggio straordinario e assai “moderno” che è stato Ignazio di Loyola papa Bergoglio ha un sensorio particolare per la complessità dell’animo umano e la molteplicità (anche caotica) degli “spiriti” e delle tendenze che caratterizzano la sua natura. Al tempo stesso, nei suoi scritti e conversazioni si impone decisamente l’idea che il leader, in particolare il leader religioso, non debba essere pieno di sé ed ostinato, troppo prescrittivo per via dell’eccessiva sicurezza di sé, ma debba lasciare spazio al dubbio, e coltivare la virtù dell’umiltà, quell’umiltà che egli lodava in Benedetto XVI durante il bellissimo incontro di Castelgandolfo. Chi vuole guidare il Popolo di Dio – diceva al rabbino Skorka – “deve farsi piccolo, raccogliersi in se stesso con i suoi dubbi, con l’intima esperienza delle tenebre, del non saper agire”.
Probabilmente molte persone simpatizzano con papa Francesco assai al di là della appartenenza ecclesiale o confessionale alla Chiesa di Roma perché questi interpreta un bisogno del tempo, cioè la fame di cose essenziali come antidoto allo stordimento delle coscienze e al pervertimento delle priorità fondamentali che hanno largamente corso ai nostri giorni. Forse parecchie persone sono spiritualmente stanche dei troppi venditori di sogni illusivi – anche se esse non sempre tematizzano o vengono aiutate dai “dotti” a mettere a tema questa frustrazione -, e papa Francesco nel suo fare e nel suo dire rivela loro l’esistenza di una dimensione diversa del vivere, dove antiche parole come ad esempio quella del “prendersi cura” acquistano di nuovo la loro potenza simbolica ed etica. Probabilmente molte persone, sperimentando nella propria carne la fatica di vivere in questo nostro mondo violento e ingiusto, abbastanza ostile all’”umano”, desiderano, prima che una normativa rigida – come erroneamente pensano anche diversi uomini di chiesa -, un orientamento relativo al senso del vivere, l’apertura di un orizzonte di speranza che legittimi una fiducia di fondo nella vita. Desiderano qualcosa che ha a che fare con il “religioso”, inteso come una dimensione o un atteggiamento dell’uomo che resiste ad ogni riduzione naturalistica o a ogni liquidazione nichilistica, ma che nemmeno si identifica con una particolare religione di chiesa, e ancor meno con una specifica sistemazione dottrinale di tale religione di chiesa, benché non sia mai vivibile al di fuori di un concreto riferimento a una tradizione e comunità.
Penso che papa Francesco, con i suoi gesti e le sue parole, interpreti queste domande, spesso latenti e non formulate, che hanno a che fare essenzialmente con la dimensione del senso e del simbolico, cioè con la dimensione del “religioso”. Questa dimensione si impone come domanda aperta anche nelle nostre società ‘secolari’ (che non vuol dire necessariamente: irreligiose o areligiose oppure antireligiose), anche se non assume i linguaggi di una religione storica o di una chiesa. L’opposizione corrente nei media fra “credenti” e “laici” non mi sembra in grado di interpretare questa condizione variegata del “religioso” nella nostra epoca.
Ciò che per me è poi molto interessante è che il papa Francesco, come è comprensibile, risponde a questo bisogno “religioso” ancora e sempre ponendo “Cristo al centro”, cioè non per le vie di una indistinta “spiritualità” o di un sincretismo religioso (di tipo ‘new age’), ma traendo linfa e alimento da una concreta persona ‘storica’ (storico-escatologica) e dal suo messaggio, e richiamando la chiesa per prima alla coerenza fra parole e fatti.
Sono consapevole della natura frammentaria di queste riflessioni. Sono un tentativo, come tale molto provvisorio e lacunoso, di trarre insegnamento da una figura di vescovo di Roma che sembra invitarci a un ri-orientamento che parta dallo strato profondo dell’animo, un ri-orientamento ‘ontologico’. La “semplicità” di papa Francesco potrebbe allora essere detta anche: essenzialità. Si tratta di andare all’essenza; e una tale essenza sembra consistere più in un contenuto esistenziale da sperimentare in concreto che in un programma dottrinale, che non viene messo da parte, certamente, ma che viene ricondotto alla sua funzione di mediazione ‘seconda’. Mi sembra di cogliere da qui un invito (di fatto) a prendere in considerazione una diversa scala di priorità, che diviene molto rilevante in chiave ecumenica e inter-religiosa, secondo la quale il riferimento ‘inclusivo’ a Cristo è il fattore determinante, e la tradizione - che è sì una, ma è anche plurale – e la chiesa ritrovano la loro natura propria di mediazione e di servizio.